Sentenza n. 271/98

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SENTENZA N.271

ANNO 1998

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof.    Annibale MARINI    

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 56 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come sostituito dall'art. 19 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, promosso con ordinanza emessa il 16 giugno 1997 dal Magistrato di sorveglianza di Varese, iscritta al n. 598 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 1997.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 25 febbraio 1998 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

Ritenuto in fatto

1.— Il Magistrato di sorveglianza di Varese, chiamato a decidere, in sede di giudizio di rinvio, sull'istanza di un detenuto volta ad ottenere la remissione del debito per spese di mantenimento in carcere relative ad un trascorso periodo di detenzione, solleva, in riferimento agli artt. 3 e 27, comma terzo, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 56 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come sostituito dall'art. 19 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, nella parte in cui, secondo il principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione, obbliga il decidente, nella valutazione della condotta del condannato ai fini della remissione del debito per spese di mantenimento in carcere, a tener conto della sola condotta "strettamente carceraria".

Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo premette che l'istanza di remissione, secondo la disposizione censurata, può essere formulata "fino a che non sia conclusa la procedura per il recupero delle spese", e quindi anche in tempi molto lontani dalla espiazione della pena detentiva e persino indipendentemente dalla stessa, a seguito della sentenza n. 342 del 1991 di questa Corte (concernente la remissione del debito per spese processuali). A suo avviso, l'interpretazione della Corte di cassazione determinerebbe, di conseguenza, una violazione del principio di eguaglianza per irragionevole disparità di trattamento tra il condannato che abbia subito un periodo di detenzione, magari brevissimo e risalente nel tempo, per il quale si dovrebbe valutare la sola condotta carceraria, e il condannato che non sia stato, invece, sottoposto ad alcuna restrizione, per il quale dovrebbe essere valutata, al fine della remissione del debito, la condotta tenuta fino al momento della decisione.

Inoltre, la medesima interpretazione, nonostante l'istituto della remissione del debito abbia la finalità di premiare la regolare condotta quale indice di ravvedimento e di avvenuto recupero nonchè quella di agevolare il reinserimento sociale del condannato, rischierebbe, in violazione del principio della finalità rieducativa della pena, di premiare anche chi ha continuato a delinquere dopo la detenzione.

Quanto alla rilevanza della questione sollevata, il remittente sottolinea che dalla documentazione in suo possesso emerge che l'istante, successivamente alla detenzione alla quale si riferisce la richiesta di remissione del debito, si é reso responsabile di un grave reato, per il quale é detenuto e che il principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione impedirebbe di valutare.

2.— E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

L’Avvocatura rileva che l’istituto della remissione del debito trova applicazione sia per le spese di mantenimento in carcere, sia per le spese del procedimento. La fattispecie in esame riguarda spese di mantenimento in carcere per la cui remissione non potrebbe non considerarsi il comportamento che il soggetto richiedente ha tenuto in stato di detenzione, mentre la condotta globale sarebbe utile parametro al fine soprattutto della remissione delle spese di procedimento, come emergerebbe dalla sentenza n. 342 del 1991 di questa Corte.

Per la remissione del debito per spese di mantenimento in carcere, il principio della valutazione della condotta complessiva, conclude l’Avvocatura, potrebbe applicarsi quale correttivo della valutazione della condotta in carcere "che rimane, se non l’unico, certamente un rilevante parametro di valutazione".

Considerato in diritto

1.— Il Magistrato di sorveglianza di Varese dubita della legittimità costituzionale dell’art. 56 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come sostituito dall’art. 19 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, nella parte in cui, secondo il principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione, obbliga il decidente, nella valutazione della condotta del condannato ai fini della remissione del debito per spese di mantenimento in carcere, a tener conto della sola condotta "strettamente carceraria".

La disposizione censurata, così interpretata, contrasterebbe, ad avviso del remittente, sia con l’art. 3 della Costituzione, per l’irragionevole disparità di trattamento tra il condannato che abbia subito un qualche periodo di detenzione e il condannato che non sia stato sottoposto ad alcuna restrizione, sia con l’art. 27, terzo comma, poichè verrebbe ad essere premiato con la remissione del debito per le spese di mantenimento in carcere anche chi, dopo una detenzione caratterizzata da regolare condotta, abbia continuato a delinquere.

2.— La questione non é fondata.

Nell’art. 56 dell’ordinamento penitenziario il beneficio della remissione del debito per spese di mantenimento in carcere é collegato alla regolare condotta del reo durante la detenzione. Ciò risulta dall’ultimo comma dell’art. 30-ter, richiamato dallo stesso art. 56: "la condotta dei condannati si considera regolare quando i soggetti, durante la detenzione, hanno manifestato costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività lavorative o culturali". La generica finalità di recupero del reo, alla cui realizzazione l’istituto, come subito si dirà, indubbiamente concorre, resta qui sullo sfondo, poichè il legislatore é evidentemente mosso da un obiettivo più specifico ed immediato che consiste nell’incentivazione al mantenimento della disciplina carceraria; obiettivo perseguito sulla premessa, assunta non irragionevolmente, che la spinta ad osservare una condotta regolare sia tanto più efficace quanto più ravvicinata appaia al detenuto la prospettiva di un premio; e che l’incentivazione potrebbe risultare in una qualche misura attenuata se l’eventualità di una ricompensa fosse subordinata anche alla valutazione di comportamenti non più riferibili alla detenzione.

Non può essere quindi condiviso il rilievo del Magistrato di sorveglianza di Varese secondo il quale escludere che il controllo sul comportamento del reo si protragga ai periodi successivi alla sua liberazione significherebbe negare la finalità di emenda alla quale, in forza dell’art. 27 della Costituzione, l’esecuzione della pena e gli istituti ad essa correlati devono essere improntati. Anche se é posto in connessione stretta con l’esigenza di salvaguardia dell’ordinato svolgimento della vita carceraria, il recupero del reo é certamente compreso tra i beni tutelati dall’art. 56 dell’ordinamento penitenziario, ed appartiene alla ratio di questo come elemento necessario e complementare. Nella logica della disposizione censurata, il costante impegno del condannato a tenere, durante la detenzione, una condotta irreprensibile non é soltanto destinato a produrre effetti benefici sull’ordine e sulla sicurezza delle istituzioni carcerarie, ma é anche inteso a influire sul complessivo atteggiamento del reo, a orientarlo al rispetto delle regole della convivenza carceraria e a sospingerlo verso un percorso rieducativo, pur nei ristretti limiti in cui questo può essere proficuamente avviato in costanza di carcerazione.

3.— La finalità di recupero del reo, immanente all'esecuzione penitenziaria, risulta dunque strettamente connessa, con riferimento all'istituto in esame, con l'obiettivo di promuovere la buona condotta carceraria, e con essa il mantenimento dell'ordine e della sicurezza nelle carceri. Assume invece rilievo autonomo e preminente nelle ipotesi nelle quali non vi sia stata alcuna detenzione e non sussista perciò alcuna esigenza di salvaguardia della disciplina carceraria.

Considerazioni non dissimili sorreggevano d’altronde la sentenza n. 342 del 1991 di questa Corte, nella quale si ponevano a raffronto i due distinti istituti, regolati insieme nell’articolo 56 dell’ordinamento penitenziario, della remissione del debito per spese di giustizia e della remissione del debito per spese di mantenimento in carcere; si riconosceva che entrambi gli istituti sono ispirati a una finalità premiale per la regolare condotta tenuta dal condannato e a una concorrente finalità di agevolazione del reinserimento sociale, realizzata attraverso la rimozione delle ulteriori difficoltà economiche in cui verrebbe a trovarsi il condannato che versi in condizioni disagiate; non si mancava però di precisare che nella remissione delle spese di giustizia "la finalità di agevolazione del ravvedimento e del recupero sociale fa aggio su quella premiale" e che questa é invece maggiormente rilevante nella remissione delle spese di mantenimento in carcere.

Le due finalità, quella premiale e quella di reinserimento sociale del reo, possiedono nell’art. 56, proprio in seguito alla citata sentenza di questa Corte, accentuazioni diverse. Solo in relazione alla remissione del debito per spese di giustizia, e sempre che si tratti di condannati che non abbiano subito alcuna detenzione, deve essere valutata la condotta tenuta in libertà, poichè in questi casi non vi sono impedimenti a che si dispieghi in tutta la sua pienezza la finalità di recupero del reo alla quale l’intera disciplina concorre. Per questi condannati, infatti, il diniego di una agevolazione economica destinata a favorirne il reinserimento sociale risulterebbe irragionevolmente discriminatorio.

Diverso é il discorso sulle spese di mantenimento in carcere, che presuppongono sempre un periodo di detenzione. L’obiettivo di coniugare la finalità di emenda con l’incentivazione alla buona condotta carceraria non può qui subire attenuazioni: ne verrebbe altrimenti tradita la scelta non irragionevole del legislatore di valorizzare le esigenze di ordine e di sicurezza carceraria e pertanto di imporre che siano assunti come indici di ravvedimento solo i comportamenti tenuti durante la detenzione, esclusa ogni valutazione della condotta successiva alla liberazione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 56 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come sostituito dall’art. 19 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Magistrato di sorveglianza di Varese con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 1998.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Carlo MEZZANOTTE

Depositata in cancelleria il 17 luglio 1998.