Sentenza n. 98/98

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SENTENZA N.98

ANNO 1998

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI Giudice

- Prof.    Francesco GUIZZI    "

- Prof.    Cesare MIRABELLI "

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO  "

- Avv.    Massimo VARI          "

- Dott.   Cesare RUPERTO     "

- Dott.   Riccardo CHIEPPA   "

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY   "

- Prof.    Valerio ONIDA         "

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE          "

- Avv.    Fernanda CONTRI    "

- Prof.    Guido NEPPI MODONA     "

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI  "

- Prof.    Annibale MARINI     "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 188, secondo comma, del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 3 febbraio 1997 dal Pretore di Modena, iscritta al n. 302 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell'anno 1997.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 14 gennaio 1998 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

Ritenuto in fatto

1.- Il Pretore di Modena, quale giudice dell’esecuzione, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 188, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui, disponendo che non si trasmette agli eredi del condannato l’obbligazione al rimborso delle spese di mantenimento di quest'ultimo negli istituti penitenziari, omette di prevedere l’intrasmissibilità agli eredi dell’obbligazione al rimborso delle spese del processo penale, in ritenuta violazione degli artt. 3, primo comma, 27, primo comma e 31, primo comma, della Costituzione.

Quanto alla rilevanza della questione, il Pretore osserva che il ricorrente nel giudizio a quo é padre ed erede di una persona che ha subìto più condanne comportanti il pagamento delle spese processuali e che é deceduta senza adempiere a tali obbligazioni e senza che sia stato possibile riscuotere coattivamente il credito dell’erario.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice remittente individua un primo profilo di illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., in quanto la disposizione impugnata discriminerebbe la posizione degli eredi di chi abbia riportato condanne penali a pene non detentive, o a pena detentiva sostituita con pena pecuniaria o con altra sanzione sostitutiva, o a pena detentiva per altre ragioni non eseguita, rispetto a quella degli eredi di coloro che, condannati a pena detentiva, abbiano scontato la pena prima del decesso: solo questi ultimi potrebbero essere esonerati dall’obbligo del pagamento delle spese derivanti dalla condanna, mentre i primi riceverebbero un trattamento deteriore, non essendo loro concesso di ottenere nemmeno la remissione del debito qualora versino in disagiate condizioni economiche. Poichè, infatti, la legge (art. 56 della legge 26 luglio 1975, n. 354, "Ordinamento penitenziario") accomuna, ai fini della remissione del debito, le spese processuali e quelle di mantenimento in carcere, l’art. 188, secondo comma, cod. pen., escludendo la trasmissibilità agli eredi del debito per le sole spese di mantenimento in carcere, introdurrebbe per detti debiti una disciplina particolare, discriminando irragionevolmente gli eredi dei debitori delle spese processuali.

In sostanza, secondo il giudice a quo, all’uniforme disciplina dell’obbligo di rimborso delle spese processuali e di quelle di mantenimento in carcere, entrambe remittibili nei confronti del condannato in vita, dovrebbe corrispondere una regolazione uniforme dell’obbligo anche per l’eventualità del decesso del condannato prima dell’estinzione delle due obbligazioni.

Sotto un diverso profilo, il Pretore rileva che il diverso trattamento sarebbe lesivo anche dell’art. 27, primo comma, Cost., laddove afferma essere la responsabilità penale personale; da tale principio discenderebbe la natura personalissima non solo della sanzione penale, ma anche della condanna penale e delle sue dirette conseguenze, tra le quali dovrebbe rientrare l'obbligo di rimborsare le spese del processo.

Il giudice remittente ravvisa infine un ultimo profilo di illegittimità costituzionale nella violazione dell’art. 31, primo comma, Cost., in considerazione del fatto che gravati delle spese di processi che in nulla li riguardano sarebbero, per lo più, familiari del condannato deceduto, nella loro qualità di eredi; si ridurrebbero così le risorse economiche del nucleo familiare per ragioni alle quali esso é del tutto estraneo.

2.- E' intervenuto nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dell’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’infondatezza della questione.

La disparità di trattamento denunciata dal giudice remittente si fonderebbe, ad avviso dell'Avvocatura, su una comparazione di termini eterogenei: l’accostamento tra spese del processo e spese di mantenimento in carcere operato dall’art. 56 della legge n. 354 del 1975, ai fini della remissione del debito, non significherebbe, infatti, che ci si trovi di fronte a obblighi di natura omogenea; anzi, il legislatore avrebbe differenziato il regime delle spese di mantenimento in carcere nella consapevolezza dell’incidenza, nel caso, delle finalità rieducative connesse all’esecuzione della pena. L’art. 56 introdurrebbe, invece, un meccanismo di remissione, operante ex post e in relazione al caso concreto, che avrebbe finalità premiale e di risarcimento del condannato in disagiate condizioni economiche. Si tratterebbe, quindi, di scelte discrezionali del legislatore, giustificate dalle diverse finalità dell’attività che lo Stato esplica relativamente all’accertamento della verità processuale e all’esecuzione della pena irrogata.

L’Avvocatura, infine, ritiene infondata la questione in riferimento agli altri parametri, rilevando, quanto alla prospettata violazione dell’art. 27 Cost., che l’obbligo di rimborso delle spese processuali costituirebbe non già esercizio della potestà punitiva, ma effetto risarcitorio civile del reato, e, quanto alla ipotizzata violazione dell’art. 31 Cost, che la censura si baserebbe su considerazioni di mero fatto, sulle quali non potrebbe fondarsi il sindacato di costituzionalità.

Considerato in diritto

1. - Questa Corte é chiamata a decidere se contrasti con gli artt. 3, primo comma, 27, primo comma, e 31, primo comma, della Costituzione, l’art. 188, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui, disponendo che non si trasmette agli eredi del condannato l’obbligo di rimborsare all’erario le spese per il suo mantenimento negli stabilimenti di pena, omette di prevedere la non trasmissibilità agli eredi dell’obbligo di rimborsare le spese del processo penale.

2. - La questione é fondata in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione.

Prima della legge sull’ordinamento penitenziario (n. 354 del 1975) vi erano ben pochi dubbi circa la natura dell’obbligazione di rimborso delle spese del processo penale: si trattava di un’obbligazione civile verso lo Stato posta a carico dell’autore del reato con la sentenza definitiva di condanna. Era del tutto conseguente alla configurazione giuridica impressale dal legislatore non solo che dell’adempimento di tale obbligazione il condannato rispondesse con tutti i suoi beni, presenti e futuri, secondo i principî civilistici della responsabilità patrimoniale, ma che, in caso di morte del debitore, chiamati a rispondere fossero gli eredi. In verità, una qualche peculiarità, rispetto alle comuni obbligazioni civili, era presente fin dalle origini, poichè l’art. 273 della tariffa penale approvata con regio decreto 23 dicembre 1865, n. 2701, tuttora vigente, prevede l’annullamento degli articoli di credito iscritti nel registro del campione penale, oltre che nel caso in cui sia decorsa la prescrizione, in quello in cui il condannato sia deceduto in stato di insolvibilità. Al di fuori di queste ipotesi, l’obbligazione si trasmette agli eredi, secondo le disposizioni del codice civile, sicchè la tradizionale qualificazione del debito per spese processuali come obbligazione civile era da considerare appropriata e, al di là della puntuale deroga, coerente con i tratti fondamentali della disciplina positiva.

3. - I presupposti giuridici di tale configurazione, alla quale anche la giurisprudenza costituzionale aveva in passato acceduto (sentenze nn. 30 del 1964 e 167 del 1963), sono però venuti meno con l’articolo 56 della legge sull’ordinamento penitenziario, a mente del quale il debito per le spese di procedimento e di mantenimento é rimesso nei confronti dei condannati e degli internati che si trovino in disagiate condizioni economiche ed abbiano tenuto regolare condotta.

La considerazione dell’istituto della remissione e, soprattutto, dei suoi presupposti oggettivi e soggettivi induce a ritenere che lo stesso debito di rimborso delle spese processuali abbia mutato natura: non più obbligazione civile retta dai comuni principî della responsabilità patrimoniale, ma sanzione economica accessoria alla pena, in qualche modo partecipe del regime giuridico e delle finalità di questa. Il solo fatto che dal pagamento delle spese processuali il condannato che versi in disagiate condizioni economiche sia esentato se abbia osservato una condotta regolare denota il penetrare nel rapporto obbligatorio tra condannato debitore ed erario creditore di una funzione estranea alla generalità dei rapporti di diritto civile; dimostra il sopravanzare di un fine che trascende la sfera degli interessi patrimoniali delle parti ed il prevalere della rieducazione e del reinserimento del condannato sull’adempimento dell’obbligo economico. Il rapporto obbligatorio, insomma, viene investito dalla disciplina dell’ordinamento penitenziario in entrambi i lati: nel lato passivo la figura del debitore cede di fronte a quella del condannato e nel lato attivo l’erario lascia il campo alla giustizia.

Non a caso, ai fini della rimettibilità, il debito per spese processuali viene assoggettato alla medesima disciplina di quello per le spese di mantenimento in carcere, la cui natura personalissima era già riconosciuta proprio dall’articolo 188, secondo comma, del codice penale, nonostante la collocazione di quest’ultimo debito tra le obbligazioni civili conseguenti al reato: collocazione che a seguito della entrata in vigore dell’articolo 56 dell’ordinamento penitenziario ha perduto la sua, peraltro assai tenue, attitudine qualificatoria.

In verità, la giurisprudenza di questa Corte aveva già colto il mutamento imposto dal citato articolo 56. Nella sentenza n. 342 del 1991 é stata, infatti, ritenuta irragionevolmente discriminatoria la preclusione della remissione delle spese del processo penale nei confronti di quei condannati i quali, non avendo sofferto (in ragione della non rilevante gravità del reato da loro commesso, della minore loro pericolosità sociale o per qualsiasi altra causa) alcun periodo di carcerazione, apparivano semmai maggiormente meritevoli di una agevolazione economica che, seppure nella limitata portata dell’istituto, favorisse il loro reinserimento sociale. Pur pronunciando in quella occasione sul parametro del solo art. 3, questa Corte non aveva mancato di evidenziare le nuove potenzialità dell’istituto della remissione, ispirato da un lato a una finalità premiale per la regolare condotta tenuta dal condannato, indice di ravvedimento e di avvenuto recupero; e, dall’altro, a una finalità di agevolazione del reinserimento sociale, realizzata con la rimozione delle ulteriori difficoltà di ordine economico in cui altrimenti verrebbe a trovarsi il condannato in ragione delle sue già disagiate condizioni; ed aveva con ciò stesso, nella sostanza, riconosciuto che il tema dell’adempimento dell’obbligo di pagamento delle spese del processo, dal terreno squisitamente civilistico della responsabilità patrimoniale, dove era stato tradizionalmente collocato, si era spostato, per scelta del legislatore, in quello della pena e delle finalità alle quali essa deve tendere.

4. - Tutto ciò, va precisato, non era costituzionalmente dovuto. Nessuna norma della Costituzione impone, infatti, che lo Stato esiga dal condannato il rimborso delle spese del processo penale e nessuna postula che tali spese gravino sulla collettività. Come già questa Corte ha più volte riconosciuto (da ultimo nella sentenza n. 45 del 1997), quella delle spese processuali é materia nella quale il legislatore, salvo il limite della ragionevolezza, é dotato della più ampia discrezionalità.

Ma una volta che la scelta legislativa sia stata quella di introdurre l’istituto della remissione del debito e una volta che in questo si sia dato rilievo all’esistenza di indici di ravvedimento del condannato e all’esigenza di agevolarne il reinserimento sociale, non può non risentirne l’intera configurazione dell’obbligazione di rimborso delle spese processuali. La pretesa che tale obbligazione mantenga intatta la sua originaria natura e che essa non venga attratta nell’orbita dell’art. 27 della Costituzione contraddice al canone di ragionevolezza delle classificazioni legislative. Si é infatti in presenza di una obbligazione che non può non partecipare del carattere della personalità che é proprio di tutte le pene, nessuna delle quali é trasmissibile agli eredi poichè questi non sono autori del reato, nè hanno dato in alcun modo causa al processo penale.

Deve pertanto essere dichiarata la illegittimità costituzionale, per contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione, dell’articolo 188, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui omette di prevedere la non trasmissibilità agli eredi dell’obbligo di rimborsare le spese del processo penale.

Resta assorbito ogni altro profilo.

5. - In applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, deve essere conseguenzialmente dichiarata la illegittimità costituzionale parziale dell’art. 273 del r.d. 23 dicembre 1865, n. 2701 (che ha natura di decreto legislativo, come risulta anche dalla espressa qualificazione contenuta nell’art. 1 della legge 29 giugno 1882, n. 835, di riforma delle tariffe giudiziarie), secondo il quale l’iscrizione degli articoli di credito nel registro del campione penale é annullato se il condannato é deceduto in stato di insolvibilità, da accertarsi con dichiarazione della giunta municipale. Tale disposizione, consentendo la trasmissione dell’obbligazione per spese processuali agli eredi del condannato solvibile, contrasta, al pari del richiamato art. 188 cod. pen., con il canone di ragionevolezza delle classificazioni legislative (articolo 3 Cost.) e con il principio, risultante dall’articolo 27 Cost., secondo il quale anche le sanzioni economiche accessorie alla pena hanno carattere personale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell’articolo 188, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui non prevede la non trasmissibilità agli eredi dell’obbligo di rimborsare le spese del processo penale;

dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell’art. 273, primo periodo, del r.d. 23 dicembre 1865, n. 2701, che approva la Tariffa in materia penale, limitatamente alle parole "in istato di insolvibilità" e dell’articolo 273, secondo periodo, dello stesso decreto, limitatamente alle parole "l’insolvibilità con dichiarazione della giunta municipale".

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 marzo 1998.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Carlo MEZZANOTTE

Depositata in cancelleria il 6 aprile 1998.