Ordinanza n. 456/97

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ORDINANZA N.456

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI

- Prof.    Annibale MARINI    

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 28, comma 2, della legge 10 febbraio 1992, n. 164 (Nuova disciplina delle denominazioni d'origine), promosso con ordinanza emessa il 9 ottobre 1996 dal Pretore di Bologna, iscritta al n. 1323 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 15 ottobre 1997 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

Ritenuto che, nel corso di un processo di opposizione a decreto penale di condanna alla pena di lire 102 milioni e 250 mila di multa, emesso nei confronti del titolare di un'azienda agricola in relazione alle contravvenzioni previste e punite dall'art. 28 della legge 10 febbraio 1992, n. 164 (Nuova disciplina delle denominazioni di origine), per avere prodotto diverse quantità di vino Merlot dei Colli Bolognesi DOC, Sauvignon dei Colli Bolognesi DOC e Cabernet Sauvignon dei Colli Bolognesi DOC, risultate all'esame organolettico prive dei requisiti richiesti per l'uso della denominazione perché interessate da "frizzantatura" o da "presa di spuma", il Pretore di Bologna ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 28 della predetta legge;

che, ad avviso del giudice a quo, le disposizioni impugnate contrasterebbero con il principio di necessaria offensività del reato, in quanto la sanzione penale viene prevista anche per la violazione di prescrizioni del disciplinare di produzione di vini a denominazione di origine controllata prive, come nel caso di specie, della significatività minima necessaria a conferire al bene giuridico tutela penale;

che, sempre ad avviso del giudice remittente, le stesse disposizioni contrasterebbero con l'art. 3 della Costituzione, perché irragionevolmente prevederebbero, per le condotte ivi considerate, una sanzione più grave di quella posta dall'art. 516 cod. pen. per identici fatti tipici lesivi del medesimo bene giuridico;

che, infine, secondo il giudice a quo, gli artt. 10 e 28 della legge 10 febbraio 1992, n. 164, contrasterebbero con l'art. 27, secondo comma, della Costituzione, essendo evidente, a causa della mancata previsione di una ipotesi delittuosa attenuata per violazioni non comportanti adulterazione o manipolazione del prodotto, che nel caso di specie il legislatore ha fatto un uso irragionevole della propria discrezionalità nella determinazione della pena.

Considerato che l'art. 28 della legge 10 febbraio 1992, n. 164, sanziona con la pena della reclusione fino ad un anno e della multa da lire tre milioni a lire diciotto milioni per ogni ettolitro o frazione di ettolitro di prodotto chiunque vende, pone in vendita o comunque distribuisce per il consumo con denominazione di origine vini che non hanno i requisiti richiesti per l'uso di tale denominazione;

che l'art. 10 della citata legge, anch'esso oggetto di impugnazione, stabilisce che nei disciplinari di produzione dei vini DOCG e DOC, proposti dai consorzi volontari autorizzati ovvero dagli interessati, e approvati dal Ministro dell'agricoltura e delle foreste, sono stabiliti, oltre alla denominazione di origine e alla individuazione della zona di produzione, la resa massima di uva e di vino ad ettaro, il titolo alcolometrico volumico minimo naturale potenziale delle uve alla vendemmia, le caratteristiche fisico-chimiche ed organolettiche del vino nonché il titolo alcolometrico volumico minimo richiesto al consumo, le condizioni di produzione e le caratteristiche naturali dell'ambiente, le modalità dell'esame chimico-organolettico prescritto dalla CEE per tutti i vini VQPRD, l'eventuale periodo minimo di invecchiamento in recipienti di legno e di affinamento in bottiglia e, infine, l'eventuale imbottigliamento in zone delimitate;

che le prescrizioni contenute nel disciplinare, la cui osservanza consente la utilizzazione della denominazione di origine, quindi, contrariamente a quanto prospettato dal giudice remittente, concernono aspetti che, riguardando la individuazione della zona di produzione e dei vitigni, il procedimento di vinificazione, le caratteristiche organolettiche del prodotto, l'invecchiamento e l'imbottigliamento, non attengono ad aspetti formali, ma ineriscono alle caratteristiche che sole consentono di poter qualificare un prodotto con quella particolare denominazione;

che, pertanto, la previsione di una sanzione penale per la violazione delle prescrizioni dei disciplinari di produzione non appare affatto lesiva del principio di offensività, dovendosi ravvisare in tale violazione una sicura lesione del bene giuridico dell'affidamento del consumatore nella sussistenza di determinati requisiti di qualità in un prodotto che legittimamente gode di una denominazione;

che, quanto alla violazione del principio di eguaglianza, prospettata dal giudice a quo, con riferimento al trattamento sanzionatorio stabilito dall'art. 516 cod. pen. (reclusione fino a sei mesi o multa fino a lire due milioni) per chiunque ponga in vendita o metta comunque in commercio come genuine sostanze alimentari non genuine, difetta il requisito di una valida comparazione, ponendosi la normativa sulla denominazione dei vini in termini di specialità rispetto a quella generale sulla vendita delle sostanze alimentari e non apparendo, quindi, affatto irragionevole un trattamento sanzionatorio più severo proprio in considerazione delle garanzie di qualità che la utilizzazione di una certa denominazione comporta;

che, del resto, la proposizione di una censura ai sensi dell'art. 3 della Costituzione, sul presupposto della identità delle condotte sanzionate, alla quale dovrebbe fare riscontro una identità di trattamento sanzionatorio, risulta contrastata dalla varietà di trattamenti sanzionatori previsti dalle leggi speciali a tutela della esistenza dei requisiti richiesti per la utilizzazione di alcune denominazioni di origine (si vedano, ad esempio, le disposizioni in materia di formaggi: art. 9 della legge 10 aprile 1954, n. 125; in materia di oli: art. 8 della legge 13 novembre 1960, n. 1407; in materia di prosciutto: art. 13 della legge 13 febbraio 1990, n. 26);

che, quanto alla dedotta violazione dell'art. 27, secondo comma, della Costituzione, per irragionevole esercizio della discrezionalità legislativa nella determinazione della pena, desunta dal giudice a quo dalla mancata previsione di una ipotesi attenuata per le violazioni di minor rilievo, deve ricordarsi che questa Corte ha più volte affermato che la configurazione delle fattispecie criminose e la valutazione delle conseguenze penali appartengono alla politica legislativa e, quindi, all'incensurabile discrezionalità del legislatore, con l'unico limite della manifesta irragionevolezza, che deve senz'altro escludersi nel caso in cui due condotte, ancorché diverse nel disvalore, siano tuttavia trattate in modo omogeneo sul piano sanzionatorio dal legislatore, in quanto in questo caso l'adeguamento della pena all'effettivo disvalore della condotta rientra tra i compiti del giudice nell'esercizio dei poteri conferitigli dagli artt. 132 e 133 cod. pen.;

che, nel caso di specie, essendo la pena per le violazioni sanzionate dall'art. 28 della legge 10 febbraio 1992, n. 164, stabilita tra un minimo e un massimo ed essendo, quindi, consentito al giudice, entro questi limiti, adeguare la pena all'effettivo disvalore della condotta, deve senz'altro escludersi la manifesta irragionevolezza del trattamento sanzionatorio;

che, infine, non rientra tra i compiti di questa Corte la possibilità di valutare le scelte del legislatore in ordine alla previsione o meno di ipotesi delittuose attenuate, potendosi soltanto rilevare che, poiché nella precedente normativa, così come osservato dal giudice a quo, era effettivamente prevista una ipotesi attenuata per infrazioni relative a lievi differenze nelle gradazioni o alle disposizioni sulla etichettatura (art. 28, secondo comma, del d.P.R. 12 luglio 1963, n. 930, recante "Norme per la tutela delle denominazioni di origine dei mosti e dei vini"), la mancata previsione di siffatta ipotesi di minor gravità risponde inequivocabilmente ad una scelta discrezionale del legislatore, la quale non appare a sua volta manifestamente irragionevole, potendo trovare giustificazione nella maggior diffusione del prodotto oggetto di denominazione e nella esigenza di ampliare le forme di tutela del consumatore;

che, pertanto, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 28 della legge 10 febbraio 1992, n. 164, deve essere dichiarata manifestamente infondata sotto tutti i profili prospettati dal giudice a quo.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 28 della legge 10 febbraio 1992, n. 164 (Nuova disciplina delle denominazioni d'origine), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27, secondo comma, della Costituzione, dal Pretore di Bologna con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1997.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Carlo MEZZANOTTE

Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1997.