Sentenza n. 406/97

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SENTENZA N.406

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI               

- Prof.    Cesare MIRABELLI            

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO            

- Avv.    Massimo VARI                     

- Dott.   Cesare RUPERTO                

- Dott.   Riccardo CHIEPPA             

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY              

- Prof.    Valerio ONIDA                    

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE                     

- Avv.    Fernanda CONTRI               

- Prof.    Guido NEPPI MODONA                

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof.    Annibale MARINI               

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 60 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), promosso con ordinanza emessa il 3 dicembre 1996 dal Pretore di Monza nel procedimento penale a carico di Martinelli Luca, iscritta al n. 168 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell'anno 1997.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 29 ottobre 1997 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

1. - Il Pretore di Monza, prima di dichiarare chiuso il dibattimento a carico di un imputato del delitto di evasione dagli arresti domiciliari, ha denunciato d'ufficio, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, l'art. 60 della legge 24 novembre 1981, n. 689, nella parte in cui esclude l'applicabilità delle sanzioni sostitutive al reato previsto dall'art. 385, terzo comma, del codice penale.

La violazione del principio di eguaglianza conseguirebbe alla equiparazione, ai fini dell'ammissione al regime delle sanzioni sostitutive, del reato di allontanamento dagli arresti domiciliari al reato di evasione: un'equiparazione da ritenere arbitraria giacchè, mentre l'effetto preclusivo si giustifica, nel secondo caso, in quanto, nonostante la condotta volontariamente diretta a sottrarsi alla custodia in carcere, si consentirebbe all'imputato di beneficiare di una condizione diversa da quella della detenzione, una tale esigenza non é riscontrabile ove l'evasione consista nell'allontanamento della persona in stato di arresto dalla propria abitazione. E ciò anche considerando che le due fattispecie non sono assimilabili, non costituendo gli arresti domiciliari una modalità esecutiva della detenzione.

Il giudice a quo ravvisa, poi, nel divieto stabilito dall'art. 60 della legge n. 689 del 1981 un'ulteriore violazione del principio di eguaglianza rispetto ad alcuni reati, di sicura maggiore gravità, come l'omicidio colposo ed altre fattispecie criminose ricomprese nella categoria dei delitti contro l'amministrazione della giustizia, come la frode processuale e la subornazione, per i quali il detto divieto é inoperante.

Sarebbe, in più, violato l'art. 27 (terzo comma) della Costituzione, in quanto l'irrogazione della pena detentiva per reati, come quello di specie, "di minima rilevanza sociale" risulta inutilmente vessatoria e non rispondente alla necessità di stabilire un'adeguata proporzione tra reato e pena inflitta.

Il giudice a quo conclude puntualizzando come non sia individuabile una giurisprudenza consolidata quanto all'applicabilità dell'art. 60 della legge n. 689 del 1991 anche al reato di cui all'art. 385, terzo comma, del codice penale, e che "non si può dire che lo stato del diritto "vivente" sulla applicazione della norma in questione sia nel senso auspicato con la presente ordinanza".

2. - Nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

Considerato in diritto

1. - Il giudice a quo dubita, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 60 della legge 24 novembre 1981, n. 689, nella parte in cui esclude l'applicabilità delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi previste dall'art. 53 e seguenti della stessa legge all'"abusivo" allontanamento dell'imputato in stato di arresto nella propria abitazione.

Più in particolare, il rimettente, prima di dichiarare chiuso il dibattimento, rilevato essere "fuor di dubbio che nel comportamento dell'imputato si potrebbe ravvisare l'ipotesi di reato" di cui all'art. 385, terzo comma, del codice penale e che la pena da irrogare "può sicuramente essere ricompresa nei limiti di sostituibilità", senza che, peraltro, operi alcuna delle preclusioni di ordine soggettivo descritte dall'art. 59 della legge n. 689 del 1981, ravvisa l'unico ostacolo alla sostituzione della pena detentiva nel disposto della norma denunciata dove include fra i reati relativamente ai quali non si applicano le sanzioni sostitutive quello previsto dall'"art. 385 (evasione)".

Con conseguente violazione del principio di eguaglianza sia sotto il profilo della identità di trattamento in ordine a fattispecie assimilabili soltanto quoad poenam, considerata la diversa natura e le diverse modalità esecutive delle due misure, sia sotto l'opposto profilo della diversità di trattamento rispetto a più gravi ipotesi di reato ammesse al regime delle sanzioni sostitutive, pure a sèguito della elevazione dei limiti della sostituibilità delle pene in conseguenza del decreto-legge 14 giugno 1993, n. 187, convertito dalla legge 12 agosto 1993, n. 296, pene, oltre tutto, ulteriormente riducibili ove l'imputato acceda ai riti alternativi di deflazione del dibattimento (giudizio abbreviato, applicazione di pena su richiesta delle parti).

Sarebbe, ancora, compromessa la funzione rieducativa della pena, in quanto l'irrogazione di una pena detentiva in ipotesi di reati di minima rilevanza sociale, risulterebbe inutilmente vessatoria, così dando luogo ad una sproporzione tra reato e pena.

2. - Pure se il giudice a quo accenna anche ad un contrasto nella giurisprudenza della Corte di cassazione circa l'applicabilità delle sanzioni sostitutive al reato di allontanamento abusivo dagli arresti domiciliari, così da sembrare di voler investire questa Corte della risoluzione di un mero dubbio interpretativo che potrebbe essere da lui stesso dissolto, in effetti una simile perplessità ermeneutica, oltre a rivelarsi, quanto meno, ambigua, non foss'altro che per l'insistito richiamo alla fattispecie di cui all'art. 385, terzo comma, del codice penale rispetto alla previsione di cui al primo comma dello stesso articolo, risulta comunque oggettivamente smentita dalla stessa giurisprudenza della Corte di cassazione (oltre che dalla pressochè unanime dottrina) ormai indirizzata, dopo talune esitazioni, nel senso della inapplicabilità del regime delle sanzioni sostitutive al reato di abusivo allontanamento dagli arresti domiciliari. Tendenza confermata dalle Sezioni unite della stessa Corte che, sia pure risolvendo una questione concernente l'applicazione di una norma di favore (quella, cioé, relativa alla compatibilità della circostanza attenuante della costituzione in carcere prima della condanna al delitto di cui all'art. 385, terzo comma, del codice penale), hanno puntualizzato come l'inserirsi dell'allontanamento abusivo dagli arresti domiciliari nel corpo dello stesso articolo rende evidente che tale fattispecie criminosa non può considerarsi isolata rispetto al contenuto dell'art. 385 e che, quindi, colui che si allontana dagli arresti domiciliari é anch'egli un evaso. Non mancando di utilizzare proprio talune delle argomentazioni addotte dalla giurisprudenza attestata sulla posizione preclusiva dell'accesso al regime delle sanzioni sostitutive, prima fra tutte quella secondo cui l'imputato agli arresti domiciliari si considera in stato di custodia cautelare, tanto che il tempo trascorso in tale condizione viene computato nella durata della custodia cautelare e conseguentemente detratto dalla pena inflitta.

3. - Del resto, l'analisi della genesi e delle successive sovrapposizioni normative concernenti l'art. 385, terzo comma, del codice penale, comprova l'assoluta assimilazione tra tale fattispecie e quella contemplata nel primo comma dello stesso articolo.

La norma prima ricordata venne introdotta dall'art. 15 della legge 12 gennaio 1977, n. 1, che rese applicabili nei confronti del condannato ammesso a lavorare fuori dello stabilimento penale le stesse sanzioni previste per l'evasione, così da coordinarsi con all'art. 51 della legge 26 luglio 1975, n. 354, assoggettando alla stessa sanzione prevista dall'art. 385, primo comma, del codice penale il condannato ammesso alla semilibertà rimasto assente senza giustificato motivo dall'istituto per oltre dodici ore. L'aggiunta dell'ultima parte all'art. 385, terzo comma, del codice penale, significativamente collegata ai contenuti della legge 12 agosto 1982, n. 532, veniva ad inserirsi (art. 29 di detta legge) in un più ampio contesto, direttamente collegato alla rinnovata espansione della misura degli arresti domiciliari. Tale misura, già contemplata dal testo originario del codice del 1930 esclusivamente in relazione alle condizioni fisio-psichiche dell'imputato, diveniva, infatti, modalità di esecuzione della custodia in carcere sulla base della concreta verifica dei pericula libertatis.

Gli arresti domiciliari assumevano, attestandosi poi nell'ambito di tale schema pure a sèguito delle successive "novellazioni", il ruolo di misura "alternativa" al carcere: nel senso cioé che la misura, pur non acquistando una propria autonomia, veniva a configurarsi come ipotesi generalizzata di modalità di esecuzione della custodia preventiva (divenuta "custodia cautelare" con la legge 28 luglio 1984, n. 398).

L'integrazione dell'art. 385, terzo comma, del codice penale voluta, in tale complessivo quadro normativo, dal legislatore del 1982, parrebbe, dunque, non tanto la risultante di una inedita scelta di punibilità della evasione dagli arresti domiciliari, quanto l'espressione di un'esigenza di tipizzazione della condotta, di fronte a un presupposto configurato come "alternativo". In un assetto della custodia cautelare nel quale il locus custodiae diveniva un momento di secondario rilievo, il lessico originariamente utilizzato dal legislatore si rivelava inadeguato a designare ogni comportamento di evasione: donde la necessità di introdurre la più pertinente locuzione "se ne allontani", per conferire maggiore capacità descrittiva alla fattispecie di evasione del sottoposto alla detta misura.

Il tutto perseguendo una finalità repressiva a fondamento della quale é da ravvisare l'esigenza di contemperare la prognosi di affidabilità nei confronti dell'imputato agli arresti domiciliari, andata delusa proprio per effetto di quel comportamento che, per porsi in contrasto con le regole essenziali di un regime custodiale privilegiato rispetto alla detenzione in carcere, costituiva l'indice di una ancor più grave insofferenza alle prescrizioni, tanto da porre in luce un atteggiamento agli antipodi con quello assunto a base dal legislatore per la concessione delle sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata.

Sia la dottrina sia la giurisprudenza più recenti sono, del resto, concordi nell'argomentare che, in presenza di un assetto normativo così strutturato, ove il legislatore del 1982 avesse voluto davvero escludere l'evasione dagli arresti domiciliari dal regime preclusivo dell'applicabilità delle sanzioni sostitutive avrebbe dovuto predisporre un'esplicita riserva in grado di prevenire l'automatica operatività dell'art. 60 della legge n. 689 del 1981. Il che avrebbe determinato la necessità di apprestare o un emendamento alla norma ricordata ovvero l'introduzione di una nuova fattispecie al di fuori dell'area coperta dall'art. 385 del codice penale, così da impedire l'incidenza della regola ostativa derivante dalla legge n. 689 del 1981.

La riferibilità, poi, al sottoposto agli arresti domiciliari del divieto di cui all'art. 60 della legge n. 689 del 1981 appare ancor più agevolmente argomentabile alla luce del vigente codice di rito. Il nuovo codice ha, infatti, sancito espressamente la piena assimilazione della posizione dell'imputato agli arresti domiciliari alla posizione dell'imputato in custodia cautelare in carcere (v. art. 284, comma 5), in tal modo rendendo testuale la complessiva operatività nei confronti del sottoposto alla misura di cui all'art. 284 anche del regime connesso alle due misure. Con il che la stessa distinzione tra evasione "propria" ed "impropria" sembra dissiparsi in un ambito puramente descrittivo.

4. - Così precisato il contenuto della norma vivente nel sistema, nel senso, cioé, che all'imputato di allontanamento abusivo dagli arresti domiciliari non sono applicabili le sanzioni sostitutive di cui all'art. 53 e seguenti della legge 24 novembre 1981, n. 689, la questione di legittimità costituzionale deve dirsi non fondata.

Relativamente alla legittimità dell'equiparazione dell'allontanamento dagli arresti domiciliari alla evasione prevista dall'art. 385, primo comma, del codice penale, questa Corte ha già avuto occasione di pronunciarsi - con inevitabili riverberi anche in ordine alla disciplina qui denunciata - dichiarando manifestamente infondata, proprio in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, la questione di legittimità dell'art. 385, terzo comma, del codice penale, nella parte in cui - richiamando la sanzione relativa all'evasione dal carcere anche per chi essendo in stato di arresto nella propria abitazione o in altro luogo se ne allontani - prevede una pena minima edittale di sei mesi di reclusione (vedi ordinanza n. 332 del 1995). E ciò perchè la detta equiparazione ha la sua base nella "valutazione di condotte egualmente lesive del dovere di rispettare analoghi provvedimenti restrittivi della libertà personale, tanto più che l'osservanza del dovere di non allontanarsi, nel caso degli arresti domiciliari, é in maggior misura affidata al responsabile comportamento di chi vi é sottoposto".

Di conseguenza, anche il profilo concernente l'addotta violazione del principio di "adeguata proporzione tra reato commesso e pena" risulta direttamente ricompreso nella statuizione sopra ricordata, stante, oltre tutto, la corrispondenza dei parametri ora invocati.

5. - Resta da prendere in esame l'ulteriore censura prospettata dal rimettente, il quale addebita alla norma denunciata di istituire un irragionevole regime discriminatorio, ai fini dell'applicazione delle sanzioni sostitutive tra reato di cui all'art. 385, terzo comma, del codice penale, ed altri reati, ammessi al detto regime e da considerare, sul piano del trattamento sanzionatorio, di maggiore gravità, taluni dei quali appartenenti alla medesima classe dei delitti contro l'amministrazione della giustizia.

Anche tale profilo risulta privo di fondamento.

A parte il rilievo che il termine di comparazione dovrebbe comunque essere rappresentato dal precetto dell'art. 385, primo comma, del codice penale, rispetto al quale la fattispecie evocata dal giudice a quo non può considerarsi, sul piano del trattamento, dotata di autonomia, l'esclusione prevista dall'art. 60 della legge n. 689 del 1981 viene a risultare non arbitraria non potendosi ritenere, considerata la particolare natura del reato e la finalità del regime sanzionatorio, irragionevolmente discriminatoria rispetto a fattispecie che, pur appartenendo al medesimo genus, sono ammesse al regime della sostituzione; senza contare l'assenza di ogni rigore nell'additare quali tertia comparationis ipotesi di reato contrassegnate esclusivamente dalla entità della sanzione (v. sentenza n. 78 del 1997).

Cosicchè il richiamo a termini di riferimento o del tutto disomogenei (si pensi all'omicidio colposo) ovvero svincolati dalla ragionevolezza autonomamente connaturata al divieto (si allude alla frode processuale ed alla subornazione), rende priva di pregio tale censura.

Il tutto pur dovendosi rimarcare l'esigenza, anche e recentemente evidenziata, di un'indifferibile revisione del sistema delle sanzioni sostitutive, col ribadire che soltanto la necessità "di non colpire un regime di divieti la cui permanenza avrebbe potuto ancora, in ipotesi, rappresentare" - e proprio la fattispecie a base della questione di legittimità ora proposta lo sta a dimostrare - uno strumento sicuramente valido "di prevenzione generale", ha determinato questa Corte "ad affermare, coerentemente alla sua giurisprudenza in tema di osservanza dell'art. 3 della Costituzione, la non fondatezza di questioni incentrate sull'art. 60 della legge n. 689, del 1981, ma nelle quali le situazioni poste a confronto non compromettessero la coerenza del microsistema" (v., da ultimo, sentenza n. 145 del 1997).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 60 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Pretore di Monza con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 dicembre 1997.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Giuliano VASSALLI

Depositata in cancelleria il 17 dicembre 1997.