Sentenza n. 351/97

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SENTENZA N.351

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI           

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI              

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO  

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 34 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 15 maggio 1996 dal Tribunale di Enna, nel procedimento penale a carico di Mignemi Michele ed altri, iscritta al n. 730 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 1996.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 18 giugno 1997 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

Ritenuto in fatto

1. Nel corso del dibattimento a carico Mignemi Michele, imputato di reati fallimentari, il Tribunale di Enna ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 del codice di procedura penale, in riferimento agli articoli 3, 24 e 25 della Costituzione, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del magistrato che, come giudice delegato del fallimento, abbia autorizzato il curatore a costituirsi parte civile, a svolgere le funzioni di giudice nel procedimento penale in cui debba effettuarsi la costituzione stessa.

Il tribunale rileva che il presidente del collegio, quale giudice delegato del fallimento, aveva in precedenza autorizzato il curatore a costituirsi parte civile per il fallimento e aveva nominato il relativo difensore nel procedimento penale in corso di trattazione, ma che tale ipotesi non é prevista come causa di incompatibilità dall’art. 34 cod. proc. pen., che si riferisce a situazioni di incompatibilità nell’ambito del medesimo procedimento penale.

Il rimettente osserva che, ex art. 25 della legge fallimentare, il giudice delegato al fallimento é l'organo chiamato ad autorizzare il curatore a stare in giudizio e a nominare i difensori e che, pur essendo tale funzione di natura amministrativa, il giudice delegato, dovendo valutare l'opportunità della costituzione come parte civile, esprime un apprezzamento in ordine al fatto-reato, sia pure sulla base della prospettazione del curatore e della conoscenza dei soli atti della procedura fallimentare.

Dovrebbe quindi considerarsi "anomala", secondo il tribunale rimettente, alla luce dei principi del "giusto processo" e di "imparzialità e terzietà del giudice" richiamati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 131 del 1996, la posizione del giudice che "sia contemporaneamente giudice delegato e giudice penale", per la conoscenza che lo stesso ha, sia pure sotto diverse angolazioni, degli stessi fatti.

La mancata previsione di tale ipotesi di incompatibilità comporterebbe pertanto, secondo il Tribunale, in primo luogo il contrasto tra l'art. 34 cod. proc pen. e l'art. 3 della Costituzione, per il diverso trattamento di situazioni simili: in particolare quella del giudice che, nell'ambito del procedimento penale ha conosciuto e valutato in fasi diverse il medesimo fatto, rispetto a quella del giudice che ha conosciuto e valutato lo stesso fatto nell'ambito di due procedimenti diversi, quello fallimentare e quello penale.

La norma denunciata violerebbe, inoltre, l'art. 24 della Costituzione, perchè costituirebbe lesione del diritto di difesa il fatto che il giudicante abbia comunque già formulato una valutazione sui fatti oggetto della indagine penale.

Verrebbe, infine, vulnerato l'art. 25 della Costituzione, poichè é giudice naturale solo quello assolutamente terzo e imparziale.

2 Nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la non fondatezza della questione.

Rileva l'Avvocatura che, in base alla giurisprudenza costituzionale, perchè possa sorgere incompatibilità del giudice in relazione allo svolgimento da parte del medesimo di distinte funzioni, occorre che queste appartengano a fasi diverse del medesimo processo. Non basta, poi, che il giudice abbia avuto conoscenza degli atti del processo in relazione ad altre funzioni precedentemente svolte, essendo necessario invece che egli abbia operato una valutazione implicante un giudizio di merito, sia pure di tipo prognostico, in ordine alla colpevolezza dell'imputato.

Nel caso in esame, osserva l’Avvocatura, difetterebbero entrambi i presupposti: da un lato, le attività svolte dal giudice delegato e dal giudice penale appartengono a distinti procedimenti; dall’altro, la valutazione compiuta dal giudice delegato ai fini dell'autorizzazione al curatore a costituirsi parte civile per il fallimento non implica alcun giudizio prognostico sulla colpevolezza dell'imputato, ma si fonda esclusivamente sulle prospettazioni del curatore e sugli atti della procedura fallimentare, senza alcuna conoscenza degli atti del procedimento penale, e consiste in una sommaria delibazione della pretesa che il curatore intende azionare, espressa al fine di impedire l'esercizio di un’azione manifestamente infondata, nell’ambito di una funzione di natura sostanzialmente amministrativa.

Secondo l’Avvocatura, inoltre, l'autorizzazione alla costituzione di parte civile, interviene dopo che il fumus circa la esistenza di un reato, generatore della responsabilità civile, é stato già apprezzato dal pubblico ministero che ha esercitato l'azione penale, ed eventualmente anche dal giudice per le indagini preliminari. In particolare, qualora l'autorizzazione intervenga dopo il rinvio a giudizio, la delibazione del giudice delegato si basa su una mera comparazione tra l'effettivo profitto che potrebbe derivare alla massa dei creditori dall'eventuale accoglimento della domanda risarcitoria e l'entità dei costi da sopportare per partecipare al giudizio penale.

In conclusione, secondo l'Avvocatura, anche alla luce della sentenza della Corte n. 158 del 1970 (con la quale é stata ritenuta non fondata la questione di costituzionalità dell'art. 99 della legge fallimentare, per il quale il giudice delegato provvede alla istruzione delle cause di opposizione allo stato passivo da lui stesso approvato), le valutazioni che compie il giudice delegato nell'autorizzare il curatore alla lite non sono di regola tali da compromettere l'imparzialità del giudice nell'esercizio di funzioni propriamente giudicanti, sicchè non sussiste nella specie la lesione dei principi costituzionali evocati dal giudice a quo.

Considerato in diritto

1. Il giudice rimettente dubita della legittimità costituzionale dell’art. 34 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità con la funzione di giudizio del magistrato che, in qualità di giudice delegato del fallimento, abbia autorizzato il curatore a costituirsi parte civile nel processo penale per i reati fallimentari.

La questione é prospettata con riferimento agli articoli 3, 24 e 25 della Costituzione: il principio di eguaglianza risulterebbe violato perchè vengono trattate diversamente le due situazioni, simili, del giudice che ha conosciuto e valutato lo stesso fatto in fasi diverse del medesimo procedimento penale, e del giudice che tale valutazione ha operato nell’ambito dei diversi procedimenti fallimentare e penale; a sua volta, contrasterebbe con il diritto di difesa l’essere giudicato da un giudice che ha già effettuato in precedenza una valutazione sui fatti oggetto del giudizio penale; infine, sarebbe violato il principio del giudice naturale, perchè tale può definirsi solo il giudice assolutamente terzo e imparziale.

2. La questione é inammissibile.

3. Lo stesso giudice rimettente rileva che le precedenti decisioni di questa Corte in tema di incompatibilità si riferiscono a situazioni nelle quali la funzione pregiudicante si colloca in fasi diverse del medesimo procedimento penale in cui il giudice é chiamato a svolgere la funzione di giudizio, mentre nel caso di specie la tutela del principio dell’imparzialità dovrebbe essere estesa, mediante una integrazione dell’art. 34 cod. proc. pen., ad un caso in cui i termini della relazione di incompatibilità intercorrono tra diversi procedimenti, in particolare quelli pertinenti alla procedura fallimentare e al giudizio penale; ritiene però che, stante l’analogia tra i casi in cui la precedente valutazione in ordine al fatto di reato é stata espressa nel medesimo procedimento penale e quelli in cui la valutazione é intervenuta in un diverso procedimento, anche a quest’ultima situazione debba essere riconosciuto effetto pregiudicante per l’imparzialità del giudice.

Al riguardo, questa Corte ha affermato (v. sentenza n. 308 del 1997) che, nell’ambito dei rapporti tra gli istituti apprestati dal codice di rito al fine di tutelare il principio del "giusto processo", di cui la garanzia dell’imparzialità e della terzietà del giudice costituisce uno dei più rilevanti aspetti, l’art. 34 cod. proc. pen. si riferisce alle situazioni in cui i termini della relazione di incompatibilità si collocano all’interno del medesimo procedimento penale, mentre i casi in cui la supposta funzione pregiudicante é espressa fuori del procedimento penale rientrano nella sfera di applicazione della astensione e della ricusazione.

Le situazioni pregiudicanti descritte dall’art. 34 cod. proc. pen. sono inoltre tipicamente individuate dal legislatore in base alla presunzione che siano di per sè incompatibili con l’esercizio di ulteriori funzioni giurisdizionali nel medesimo procedimento, a prescindere dalle modalità con cui la funzione é stata svolta, ovvero dal concreto contenuto dell’atto preso in considerazione.

I casi di astensione e ricusazione riferiti a manifestazioni del convincimento rese fuori del procedimento penale debbono invece essere sempre oggetto di una valutazione caso per caso, che consenta di verificare in concreto l’eventuale effetto pregiudicante. Sarebbe infatti impossibile pretendere dal legislatore uno sforzo di astrazione e di tipicizzazione idoneo a individuare a priori tutte le situazioni in cui il giudice, avendo esercitato funzioni giudiziarie in un diverso procedimento, potrebbe poi venire a trovarsi in una situazione di incompatibilità nel successivo procedimento penale: in queste situazioni, in cui l’effetto pregiudicante é meramente eventuale, solo attraverso una valutazione che tenga conto del concreto contenuto dell’atto é possibile verificarne l’incidenza sull’imparzialità del giudice, rimuovendo il pregiudizio mediante il ricorso agli istituti dell’astensione e della ricusazione.

4. Poste queste premesse, la questione di legittimità costituzionale sollevata é inammissibile, in quanto l’ipotizzata violazione del principio di imparzialità non rientra nella sfera di applicazione dell’art. 34 cod. proc. pen.

In particolare, nel caso oggetto del presente giudizio non sussistono le ragioni che avevano indotto questa Corte, nella sentenza n. 371 del 1996, ad ampliare la sfera di applicazione dell’art. 34 cod. proc. pen. Tale estensione era stata infatti operata in una situazione in cui l’atto pregiudicante era una sentenza, cioé l’espressione più pregnante della funzione giurisdizionale, e in un contesto caratterizzato dal fatto che i due procedimenti, derivanti da un procedimento originariamente unico, riguardavano la medesima vicenda processuale, sicchè la valutazione pregiudicante risultava sostanzialmente manifestata nel medesimo procedimento (v. sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997).

Con riferimento all’attuale questione di legittimità costituzionale, invece, non solo i termini della relazione di incompatibilità intercorrono tra la procedura fallimentare e il procedimento penale, non solo l’ipotizzata funzione pregiudicante é una mera autorizzazione a costituirsi parte civile, e non una sentenza contenente valutazioni di responsabilità, ma la vicenda processuale nella quale é stata esercitata l’asserita funzione pregiudicante ha natura e oggetto diversi rispetto a quella penale.

5. L’esame sulla natura della procedura fallimentare e delle funzioni svolte dal giudice delegato, condotto dalla giurisprudenza di questa Corte soprattutto con riferimento a eventuali profili di incompatibilità del giudice delegato all’interno della procedura concorsuale (cfr. al riguardo, ex plurimis, sentenze n. 148 del 1996, n. 94 del 1975 e n. 158 del 1970), é estraneo al presente giudizio. E’ sufficiente rilevare che il giudice delegato, conformemente alle sentenze sopra richiamate e all’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità, svolge funzioni tutorie, di controllo e di direzione della procedura fallimentare.

Tra queste funzioni rientra l’autorizzazione al curatore a stare in giudizio, prevista dall’art. 25 della legge fallimentare, e, per quanto qui interessa, a costituirsi parte civile nel processo penale. L’autorizzazione non é un provvedimento giurisdizionale di carattere decisorio, ma é espressione delle generali funzioni di controllo esercitate dal giudice delegato nel corso della procedura fallimentare, con particolare riferimento all’operato del curatore. Tanto é vero che normalmente - come rilevato dall’Avvocatura dello Stato - l’autorizzazione viene concessa, o negata, sulla base degli elementi prospettati dal curatore o, comunque, risultanti dalla procedura fallimentare, alla stregua di valutazioni che hanno come oggetto un mero fumus di responsabilità dell’imputato, nonchè la utilità che potrebbe essere conseguita dall’accoglimento della domanda risarcitoria.

L’autorizzazione alla costituzione di parte civile interviene, inoltre, quando il pubblico ministero ha già esercitato l’azione penale, compiendo così una prima prognosi positiva sulla sussistenza dei reati fallimentari contestati all’imputato; ove, poi, venga concessa in vista della costituzione del curatore in dibattimento, l’autorizzazione interviene quando una ulteriore valutazione in ordine alla sussistenza del reato é già stata operata dal giudice per le indagini preliminari che ha disposto il giudizio. Anche sotto questi profili, emerge che il provvedimento autorizzativo del giudice delegato non contiene - o non dovrebbe normalmente contenere - quelle valutazioni di merito in ordine alla responsabilità dell’imputato nelle quali si sostanzia, alla stregua della costante giurisprudenza di questa Corte, il pregiudizio per l’imparzialità del giudice.

6. Si deve dunque concludere che l’autorizzazione del giudice delegato al curatore perchè si costituisca parte civile non rientra tra gli atti aventi effetti pregiudicanti riconducibili alla sfera di applicazione dell’art. 34 cod. proc. pen., così come integrato dagli interventi di questa Corte, sia perchè la funzione é esercitata in un procedimento diverso da quello penale, sia perchè il provvedimento autorizzativo non é suscettibile di essere astrattamente e preventivamente tipicizzato tra quelli aventi sempre e comunque un effetto pregiudicante, ma l’eventuale incidenza sulla imparzialità del giudice penale deve essere accertata in concreto.

Non può d’altra parte ritenersi che le funzioni svolte dal giudice delegato siano in qualche misura assimilabili all’attività del pubblico ministero o del denunciante, cui si riferiscono i casi di incompatibilità contemplati dall’art. 34, comma 3, cod. proc. pen., in quanto nel momento in cui l’autorizzazione interviene l’azione penale é stata ormai esercitata e il giudice delegato si é limitato a realizzare una condizione per l’esercizio dell’azione civile del curatore nel processo penale.

Ove il provvedimento che autorizza il curatore a costituirsi parte civile contenga in concreto valutazioni di merito sulla responsabilità dell’imputato per i reati fallimentari, spetterà all’autorità giudiziaria accertare se esiste una situazione di pregiudizio per l’imparzialità del giudice riconducibile ad alcuna delle ipotesi di astensione o ricusazione già previste dall’ordinamento, ovvero se la tutela del principio di imparzialità possa essere assicurata solo mediante un intervento di questa Corte sull’art. 36 cod. proc. pen., tale da garantire comunque l’irrinunciabile esigenza che la funzione di giudizio sia esercitata da un giudice terzo e imparziale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24 e 25 della Costituzione, dal Tribunale di Enna, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 novembre 1997.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Guido NEPPI MODONA

Depositata in cancelleria il 21 novembre 1997.