Sentenza n. 296

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SENTENZA N. 296

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO

- Avv.    Massimo VARI

- Dott.   Cesare RUPERTO

- Dott.   Riccardo CHIEPPA

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof.    Valerio ONIDA

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 30-ter, quinto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promossi con ordinanze emesse: 1) il 16 ottobre 1996 dal Magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia sull'istanza proposta da Civardi Camillo, iscritta al n. 1334 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell'anno 1997; 2) il 26 febbraio 1997 dal Magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia sull'istanza proposta da Schiattone Giuseppe, iscritta al n. 268 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell'anno 1997.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 2 luglio 1997 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

1. - Un detenuto in esecuzione di pena presentava al Magistrato di sorveglianza di Piacenza istanza di permesso premio al fine di recarsi per un colloquio con gli operatori, presso una comunità terapeutica. Il Magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia, constatato che sussisteva a carico del detenuto stesso la preclusione di cui all'art. 30-ter, quinto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354, per rivestire il richiedente la qualità di imputato in due procedimenti "per presunti reati commessi all'interno dell'attuale istituto di detenzione nei due anni che precedono la decisione", ha, con ordinanza del 16 ottobre 1996, denunciato, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, terzo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, il predetto art. 30-ter, quinto comma, dell'ordinamento penitenziario, il quale prescrive - per quel che qui interessa - che, nei confronti dei soggetti che sono imputati per delitto doloso commesso durante l'espiazione della pena, la concessione del permesso premio é ammessa soltanto decorsi due anni dalla commissione del fatto.

Per quanto l'ordinanza non menzioni espressamente l'art. 27, secondo comma, della Costituzione, é in essa dedotta anche la "violazione del principio di non colpevolezza", che deriverebbe dalla privazione di uno strumento del trattamento, non in forza di una decisione di condanna, ma della semplice elevazione di un'imputazione: per giunta proprio nei casi in cui il giudice che procede non ha ritenuto di emettere nei confronti dell'imputato un provvedimento coercitivo. Altrimenti, a norma dell'art. 30-ter, primo comma, che esclude dai permessi premio i detenuti socialmente pericolosi conseguirebbe - secondo l'ordinanza - l'automatico effetto preclusivo derivante dalle ritenute esigenze di cautela.

Sarebbe vulnerato pure il principio di eguaglianza, equiparandosi arbitrariamente la posizione dell'imputato alla posizione della persona condannata con sentenza definitiva, così da privare il condannato, per mere esigenze disciplinari, di quello che la Corte costituzionale ha definito "uno strumento cruciale del trattamento". Un ulteriore vulnus all'art. 3 della Costituzione deriverebbe, poi, dal fatto della inesistenza di una analoga preclusione nei confronti di soggetti che abbiano commesso un grave delitto prima della carcerazione.

Viene infine denunciato il vincolo derivante, per il magistrato di sorveglianza, dalle determinazioni di un altro giudice ed aventi un diverso oggetto, in tal modo compromettendosi l'osservanza del principio della soggezione del giudice soltanto alla legge.

2. - Nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

Osserva l'Avvocatura come l'art. 30-ter, quinto comma, non rappresenti l'unica disposizione dell'ordinamento penitenziario che, in relazione a fatti o circostanze non necessariamente accertati in sede penale, é di ostacolo alla possibilità di accesso ai permessi premio (si fa l'esempio dell'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975).

In ogni caso, l'effetto preclusivo non risulterebbe davvero irragionevole sia perchè la norma denunciata prende in considerazione i soli delitti dolosi (non anche le contravvenzioni e i delitti colposi) sia perchè l'esclusione va valutata nell'ambito complessivo del comportamento del condannato al fine di essere ammesso al permesso premio. Tale comportamento va identificato nella "regolare condotta", e cioé nell'aver manifestato, durante la detenzione, "un costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività lavorative o culturali". Tanto da far ritenere non sufficiente la mera "osservanza passiva delle regole penitenziarie", richiedendo, invece, il legislatore un quid pluris, sussistente quanto meno ove sia posta in essere una valida premessa a un'evoluzione positiva oppure ove venga dimostrata l'attitudine a tale evoluzione.

Tale prognosi é destinata a fallire quando venga commesso (o si sia imputati di aver commesso) un delitto doloso durante l'espiazione della pena: fermo restando che il soggetto "imputato" é colui nei cui confronti sia stata già iniziata l'azione penale nelle forme previste dall'art. 60 cod.proc.pen. Nè é possibile istituire alcuna comparazione tra il reato commesso fuori o dentro l'istituto penitenziario in quanto il legislatore ha concentrato, per evidenti ragioni, la sua osservazione alla sola condotta intramuraria quale parte integrante del trattamento penitenziario.

3. - Altro detenuto in esecuzione di pena presentava al Magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia istanza di permesso premio al fine di recarsi, per un colloquio con gli operatori, presso una comunità terapeutica. Il magistrato di sorveglianza, constatato che sussisteva a carico dell'istante la preclusione di cui all'art. 30-ter, quinto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354, rivestendo il richiedente la qualità di imputato in un procedimento per violazione della legge per gli stupefacenti commessa nel corso di espiazione della pena, ha, con ordinanza del 26 febbraio 1997, denunciato, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, terzo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, il predetto art. 30-ter, quinto comma, dell'ordinamento penitenziario, il quale prescrive che, nei confronti dei soggetti che durante l'espiazione della pena sono imputati per delitto doloso commesso durante l'espiazione della pena, la concessione del permesso premio é ammessa soltanto decorsi due anni dalla commissione del fatto.

Gli argomenti adottati dal giudice a quo non si differenziano da quelli di cui all'ordinanza sub 1, se non per un'ulteriore evocazione del principio di eguaglianza, nuovamente chiamato in causa sotto il profilo della irragionevolezza perchè l'effetto preclusivo derivante dalla norma denunciata non si riferisce "alle più ampie misure alternative alla detenzione", in tal modo consentendosi l'ammissione del condannato alla misura dell'affidamento in prova al servizio sociale nei confronti di persona tossicodipendente, di cui all'art. 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e non al minore beneficio del permesso premio.

4. - Anche in questo giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ripetendo le deduzioni di cui sub 2.

Considerato in diritto

1. - Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche o analoghe. I relativi giudizi vanno, pertanto, riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.

2. - Comune oggetto di censura é l'art. 30-ter, quinto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354, da cui deriva, per i soggetti che durante l'espiazione della pena o delle misure restrittive hanno riportato condanna o sono imputati per delitto doloso commesso durante l'espiazione della pena o l'esecuzione di una misura restrittiva della libertà personale, il divieto di essere ammessi al beneficio del permesso premio se non siano trascorsi due anni dalla commissione del fatto.

Entrambe le ordinanze chiamano formalmente in causa gli artt. 3, 24, 27, terzo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione. Ma dal testo delle ordinanze stesse appare evidente come venga evocato anche il secondo comma dello stesso art. 27 per l'espresso richiamo al "principio di non colpevolezza", che risulterebbe pur esso vulnerato dalla disciplina censurata.

L'intrecciarsi delle denunce di illegittimità avanzate dai giudici a quibus può in realtà ordinarsi in una sistemazione progressiva che, muovendo dall'addebitata violazione dell'art. 27, secondo comma, e dell'art. 3 della Costituzione (l'art. 24 é, invece, richiamato senza alcuna argomentazione), perviene ad una conclusione caratterizzata dalla complementarità delle censure: quelle, cioé, riguardanti la menomazione delle prerogative della magistratura di sorveglianza (art. 101, secondo comma) e la connessa compromissione della funzione rieducativa della pena. E ciò perchè l'esclusione di ogni potere di controllo della predetta magistratura - l'unica in grado di apprezzare, con la natura del comportamento del detenuto, la incidenza di esso sul trattamento penitenziario e, dunque, di verificare se il fatto reato risulti preclusivo per la prosecuzione di un simile trattamento - inciderebbe direttamente sulla funzione rieducativa della pena.

Un profilo, quest'ultimo, maggiormente approfondito dall'ordinanza pronunciata dal Magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia il 26 febbraio 1997, che accentua l'assetto, a suo giudizio, impeditivo della "definizione di un idoneo piano di trattamento" e della "applicazione dei principi costituzionali in materia di finalità rieducativa della pena" sulla base di una "astratta ed inderogabile preclusione", "che non trova giustificazione in esigenze nè di tutela dell'ordine pubblico nè dell'ordine interno". In più viene posta in evidenza l'irragionevolezza della scelta legislativa avuto riguardo al regime di talune misure alternative alla detenzione, come quella prevista dall'art. 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.

3. - La questione non é fondata.

Questa Corte, fin dalla sentenza n. 188 del 1990, ha definito il permesso premio, oltre che come "incentivo alla collaborazione del detenuto con l'istituzione carceraria, appunto in funzione del premio previsto", anche "come strumento esso stesso di rieducazione, in quanto consente un iniziale reinserimento del condannato nella società", così da costituire "parte integrante del trattamento rieducativo"; condizionando, peraltro, il perseguimento della finalità dell'istituto "all'assenza di particolare pericolosità sociale, quale conseguenza di regolare condotta". Il tutto alla stregua del disposto dell'art. 30-ter, ottavo comma, che definisce tale la condotta "quando i soggetti, durante la detenzione, hanno manifestato costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzative negli istituti e nelle eventuali attività lavorative o culturali".

I concetti ampiamente svolti nella suddetta sentenza sono stati successivamente ribaditi in altre decisioni di questa Corte, tra le quali può essere annoverata anche la sentenza n. 235 del 1996, ricordata nella ordinanza del giudice a quo, nella quale il permesso premio é considerato come uno "strumento cruciale ai fini del trattamento".

4. - Ciò premesso, occorre tuttavia determinare le modalità attraverso le quali, alla stregua della norma impugnata, viene impedito l'accesso al permesso premio, per il periodo di tempo indicato dall'art. 30-ter, quinto comma, ai soggetti che abbiano riportato condanna o siano imputati per delitto doloso commesso durante l'espiazione della pena o l'esecuzione di una misura restrittiva della libertà personale.

Ci si trova, indubbiamente, in presenza di un effetto preclusivo rispetto al quale al magistrato di sorveglianza non resta alcuna possibilità di sindacato. Un effetto destinato a restituire al detto magistrato i suoi poteri di verifica o alla scadenza del biennio ovvero quando sia intervenuta sentenza di non luogo a procedere o sentenza di assoluzione per il delitto contestato al detenuto. Sempre ferma restando, ovviamente, anche nel secondo caso, "la cognizione specifica del tribunale di sorveglianza in ordine ai profili che, nonostante l'assoluzione dell'imputato, possono acquisire una valenza ai fini della riammissione al beneficio" (v. sentenza n. 181 del 1996).

5. - L'automatico effetto preclusivo derivante dall'art. 30-ter, quinto comma, é stato, come si é detto, censurato dai giudici a quibus, anzi tutto sotto il profilo della violazione del "principio di non colpevolezza". Ma tale prospettazione appare esorbitante rispetto alle finalità perseguite dall'art. 27, secondo comma, della Costituzione: la presunzione di non colpevolezza é, infatti, coessenzialmente legata al fatto di reato per cui é stata elevata la nuova imputazione e non può essere estesa ad aspetti che nel caso di specie concernono il trattamento penitenziario conseguente al delitto per cui é in corso l'esecuzione della pena. Altrimenti si dovrebbe ritenere vulnerato l'art. 27, secondo comma, tutte le volte in cui vi sia un effetto collegato, non irragionevolmente, o all'esercizio dell'azione penale o alla pronuncia di sentenza di condanna non ancora passata in giudicato.

6. - Neppure appropriato si rivela il richiamo all'art. 3 della Costituzione sotto il profilo, per un verso, della identità di trattamento fra il condannato con sentenza definitiva e chi sia solo imputato e, per un altro verso, della identità di trattamento tra chi abbia commesso il fatto prima della carcerazione e chi invece l'abbia commesso durante la detenzione.

Nel primo caso l'equiparazione non appare palesemente arbitraria, sia in base a quanto già osservato in relazione alla dedotta violazione del "principio di non colpevolezza", sia perchè il reato viene addebitato, nell'ipotesi contestata, in uno stato avanzato del procedimento, dopo che l'azione penale é stata già esercitata. Situazione ben diversa, dunque, da quella presa in esame (sia pure ad altri fini) da questa Corte a proposito della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 47-ter, nella parte in cui fa derivare automaticamente la sospensione della detenzione domiciliare dalla presentazione di una denuncia per il reato previsto dal comma 8 dello stesso articolo (sentenza n. 173 del 1997). Potendo qui ripetersi quanto in tale occasione statuito, ma con riguardo al principio di ragionevolezza, e cioé, che la "semplice denuncia di reato senza spazio per un accertamento, sia pure incidentale e limitato alla verifica del fumus boni iuris sulla esistenza del reato" dà vita ad un "automatismo, non preceduto da alcun accertamento giudiziale neppure in via di delibazione", che "urta indubbiamente contro il principio di ragionevolezza".

Circa, poi, l'ulteriore dedotta violazione dell'art. 3 della Costituzione, le fattispecie poste a raffronto appaiono così eterogenee da non consentire quella comparazione in termini di ingiustificata disparità di trattamento che possa far ritenere vulnerato il principio di eguaglianza.

Neppure risulta utilmente percorribile, e per le medesime ragioni, la comparazione tra l'affidamento in prova al servizio sociale, di cui all'art. 94 del d.P.R. n. 309 del 1990, non attinto dal medesimo effetto preclusivo, ed il permesso premio, dovendo anche qui il raffronto operarsi tra istituti omogenei.

7. - Strettamente collegate appaiono, infine, come si é detto, le censure incentrate sulla dedotta violazione degli artt. 27, terzo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione. In realtà, pure se i giudici a quibus chiamano in causa anche il vincolo per il magistrato di sorveglianza all'azione penale esercitata dal pubblico ministero, ciò che sembra effettivamente essere contestato é l'automatismo del divieto che, comportando l'impossibilità di qualsivoglia verifica da parte della magistratura di sorveglianza, verrebbe direttamente ad incidere sulla funzione rieducativa della pena.

Questa Corte ha avuto più volte occasione di censurare l'utilizzazione da parte del legislatore di meccanismi che sottraggono al magistrato di sorveglianza la verifica dell'effettiva incidenza di un determinato fatto reato sul trattamento penitenziario (v., da ultimo, la già richiamata sentenza n. 173 del 1997). Tuttavia, considerata la particolare natura del permesso premio, caratterizzato dall'essere parte integrante del trattamento e ancorato alla regolarità della condotta quale delineata dall'art. 30-ter, ottavo comma, della legge n. 354 del 1975, non sembra che ogni automatismo, quando non determini una esclusione assoluta o definitiva da un beneficio, riesca a compromettere l'osservanza dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione. L'incentivazione alla "regolare condotta carceraria attraverso la promessa del permesso premio" può giustificare che, in presenza di delitti di natura dolosa, la nuova concessione possa rimanere preclusa per un determinato periodo di tempo. Purchè ci si trovi di fronte, ovviamente, ad un procedimento penale che, per quanto non ancora pervenuto alla pronuncia giudiziale definitiva, implichi la presa di contatto del pubblico ministero con il giudice. Nè la funzione rieducativa della pena risulta compromessa quando la preclusione sia inquadrata nel presupposto di quella regolare condotta del condannato che é essenziale per la concedibilità di permessi premio.

Si manifesta tuttavia l'opportunità che il legislatore riveda l'impiego dell'assoluto automatismo di cui al comma quarto dell'art. 30-ter, non tanto in relazione al momento processuale che determina l'effetto preclusivo, quanto in relazione alle tipologie di delitti dolosi la cui commissione effettivamente comprometta il giudizio sulla regolarità della condotta e, conseguentemente, faccia presumere la pericolosità del condannato, nonchè in relazione alla indifferenziata durata del periodo di esclusione dal beneficio.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 30-ter, quinto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, secondo e terzo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, dal Magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1997.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Giuliano VADDALLI

Depositata in cancelleria il 30 luglio 1997.