Sentenza n. 288

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SENTENZA N.288

 

ANNI 1997

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI           

- Prof.    Francesco GUIZZI               

- Prof.    Cesare MIRABELLI            

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO

- Avv.    Massimo VARI         

 

- Dott.   Cesare RUPERTO    

 

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

 

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

 

- Prof.    Valerio ONIDA        

 

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

 

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

 

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 443, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 2 ottobre 1996 dalla Corte di cassazione sui ricorsi riuniti proposti dal Procuratore generale militare della Repubblica presso la Corte militare d'appello di Roma nei confronti di Ruggerini Cesare e da Ruggerini Cesare, iscritta al n. 1 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 1997.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 maggio 1997 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza in data 22 luglio 1994, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Roma, all'esito del giudizio abbreviato, condannava Cesare Ruggerini per il reato di tentata truffa pluriaggravata alla pena di mesi quattro di reclusione militare, sostituita con la libertà controllata di mesi otto. Il Ruggerini proponeva appello, formalmente qualificato "atto di impugnazione", osservando che avverso le sentenze pronunciate a seguito di giudizio abbreviato, con il quale sono applicate sanzioni sostitutive, l'appello dell'imputato doveva ritenersi ammissibile e, subordinatamente, eccepiva l'incostituzionalità dell'art. 443, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, sulla base dei princìpi già espressi dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 363 del 1991, con la quale era stata dichiarata l'illegittimità costituzionale della medesima norma nella parte in cui prevedeva l'inappellabilità per l'imputato delle sentenze pronunciate a seguito di giudizio abbreviato recanti una condanna a pena che "non deve essere eseguita".

La Corte militare di appello, qualificata l'impugnazione come ricorso per cassazione, trasmetteva gli atti alla Corte di cassazione.

Dal canto suo, la Corte di legittimità, con ordinanza in data 3 luglio 1994, preso atto della volontà "delle parti" di proporre appello e ritenuta pregiudiziale la soluzione della questione di legittimità ai fini della eventuale investitura della Corte di cassazione, disponeva la restituzione degli atti alla Corte militare di appello.

Con ordinanza del 17 aprile 1996, la Corte di merito dichiarava la manifesta infondatezza della questione di legittimità e, qualificato come ricorso l'impugnazione proposta dall'imputato, ordinava la trasmissione degli atti alla Corte di cassazione.

2. Con ordinanza in data 2 ottobre 1996, la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 443, comma 1, lettera b), cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 2, 3, 10 e 24 della Costituzione.

Osserva in primo luogo la Corte che la questione sollevata dall'imputato deve ritenersi ammissibile, nonostante la Corte militare di appello si fosse già espressa nel senso della manifesta infondatezza, in quanto spetta alla Corte di cassazione, quale giudice funzionalmente sovraordinato e al quale é attribuita la competenza sulle impugnazioni a norma dell'art. 443, comma 1, lettera b), cod. proc. pen., la legittimazione a conoscere di ogni doglianza, eccezione o questione proposta con le impugnazioni; tanto più che, in base all'art. 24 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'eccezione di incostituzionalità di una norma di legge, respinta per manifesta irrilevanza o infondatezza, può essere riproposta in ogni grado ulteriore del processo.

Ciò premesso, ad avviso della Corte rimettente la questione deve ritenersi non manifestamente infondata. Al riguardo, il giudice rimettente osserva che anche nel caso di applicazione delle sanzioni sostitutive di pene detentive brevi si ha intervento di un elemento estrinseco alla natura del reato, rappresentato dal potere discrezionale riservato al giudice dall'art. 58 della legge 24 novembre 1981, n. 689, nei limiti fissati dalla legge e tenuto conto dei criteri indicati dall'art. 133 cod. pen., che sono poi i medesimi da osservarsi in tema di sospensione condizionale della pena: da qui l'assimilazione della situazione presa in esame dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 363 del 1991 (sentenza, emessa a seguito di giudizio abbreviato, di condanna a pena condizionalmente sospesa) a quella del presente procedimento (sentenza di condanna, emessa a seguito di giudizio abbreviato, a pena detentiva sostituita con la libertà controllata).

Inoltre, osserva la Corte rimettente, é possibile che la sanzione sostitutiva sia convertita in quella detentiva sostituita al verificarsi delle condizioni previste negli artt. 66 e 72 della legge n. 689 del 1981, con la conseguenza che il condannato, cui l'appello sia negato in forza della sostituzione operata con la sentenza di condanna, non sarebbe poi reintegrato nel diritto di esperire tale mezzo di gravame. Ciò determinerebbe una irrazionale disparità di trattamento rispetto a chi, condannato a pena detentiva non sostituita, ha facoltà di proporre appello senza alcuna limitazione; nè la lesione della par condicio potrebbe ritenersi giustificata dal verificarsi solo "postumo", nel primo caso, delle condizioni per il ripristino della pena detentiva. Appare dunque ravvisabile, anche sotto questo profilo, la lesione dell'art. 3 della Costituzione.

Ma la norma denunciata può ritenersi in contrasto anche con gli artt. 2 e 10 Cost., con riferimento al protocollo addizionale n. 7 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, il cui art. 2, comma 1, stabilisce che ogni persona condannata ha diritto di fare esaminare da una giurisdizione superiore la dichiarazione di colpevolezza o la condanna. Si tratta, osserva il Collegio rimettente, "di diritto internazionale formalmente riconosciuto dallo Stato italiano per ratifica dei relativi patti" (legge 9 aprile 1990, n. 98), che sembra delineare la necessità che nell'ordinamento di ogni Stato aderente alla convenzione sia previsto il doppio grado di giurisdizione. Tale principio, con specifico riferimento all'ordinamento italiano, implica "il concetto di un doppio grado di merito, riguardante il vaglio delle prove di colpevolezza e l'applicazione dei parametri determinativi della sanzione, posto che il diverso giudizio di cassazione, delimitato al solo controllo della correttezza logico-giuridica di giudizio inferiore, non riguarda direttamente la dichiarazione di colpevolezza o di condanna". Sarebbe pertanto da escludere che la "giurisdizione superiore" di cui alla citata previsione convenzionale possa identificarsi nel giudizio di cassazione.

3. Nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la non fondatezza della questione. La più favorevole situazione venutasi a creare in capo all'imputato con l'applicazione di sanzione sostitutiva di quella detentiva non può comportare una ulteriore agevolazione per lo stesso soggetto che abbia, in sostanza, causato con il proprio comportamento il verificarsi delle condizioni per la conversione della sanzione sostitutiva in pena detentiva. Si tratta di circostanza non solo successiva alla decisione non appellabile, ma anche basata su comportamenti antidoverosi dell'imputato, che come tali non sono meritevoli di tutela.

Incongruo sarebbe anche il riferimento alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, sia perchè le disposizioni di tale strumento internazionale trovano la sede di tutela avanti alla Corte dei diritti dell'uomo, unico organo competente ad affermare la esistenza o meno delle pretese violazioni delle disposizioni medesime; sia perchè la Convenzione é una norma pattizia che non rientra nell'ambito di operatività dell'art. 10 Cost., richiamato dalla Corte rimettente, il quale ha per oggetto solo norme di carattere consuetudinario.

Considerato in diritto

 

1. Il Giudice rimettente dubita della legittimità costituzionale dell'art. 443, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, ove si stabilisce, in tema di giudizio abbreviato, che l'imputato e il pubblico ministero non possono proporre appello nei confronti delle sentenze con le quali sono applicate sanzioni sostitutive.

Ad avviso del giudice rimettente, tale disciplina contrasterebbe:

- con l'articolo 3 della Costituzione, per l'irragionevole disparità di trattamento tra la situazione dell'imputato, a cui viene negato l'appello perchè gli é stata applicata una sanzione sostitutiva della pena detentiva, e quella dell'imputato condannato ad una eguale pena detentiva non sostituita, che conserva il diritto di proporre appello senza limitazione alcuna;

- con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, per la irragionevole disparità di trattamento tra categorie di imputati, tale da incidere anche sul diritto di difesa, per essere la situazione oggetto del presente giudizio del tutto analoga a quella presa in considerazione dalla sentenza di questa Corte n. 363 del 1991, che ha dichiarato illegittimo l'art. 443, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui preclude all'imputato di proporre appello in caso di condanna ad una pena che comunque non deve essere eseguita: in entrambi i casi - concessione della sospensione condizionale della pena e applicazione della pena sostituita a norma dell'art. 58 della legge 24 novembre 1981, n. 689 - la preclusione all'appellabilità della sentenza sarebbe infatti conseguenza dell'esercizio di un potere discrezionale del giudice, sorretto dai medesimi criteri desumibili dall'art. 133 del codice penale;

- con gli articoli 2 e 10 della Costituzione, in relazione al protocollo addizionale n. 7 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, il cui art. 2, comma 1, statuisce che ogni persona condannata ha diritto di fare esaminare da una giurisdizione superiore la dichiarazione di colpevolezza o la condanna; principio che, con riferimento all'ordinamento italiano, non potrebbe ritenersi soddisfatto dalla possibilità di proporre ricorso in Cassazione nei confronti della sentenza di condanna a sanzione sostitutiva.

2. La questione é infondata con riferimento a tutti i parametri costituzionali evocati dal giudice rimettente.

3. Le censure mosse alla disciplina impugnata, con riferimento ai profili di illegittimità costituzionale per contrasto con l'articolo 3, nonchè con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, sono prospettate assumendo come punto di riferimento la sentenza n. 363 del 1991, che il giudice rimettente ritiene abbia affrontato una situazione del tutto analoga a quella oggetto del presente giudizio.

Il tema va affrontato - come d'altronde era stato fatto nella sentenza ora menzionata - nel contesto dei principi ispiratori dei riti alternativi al dibattimento. Tali riti, demandati all'iniziativa e all'accordo tra le parti (non a caso si parla nei loro confronti di "giustizia negoziata"), comportano - come é noto - la libera e consapevole accettazione, unitamente ai vantaggi premiali che li caratterizzano in forma più o meno intensa, di alcune limitazioni di diritti e di facoltà dell'imputato, altrimenti riconosciuti nel rito ordinario.

In particolare, per quanto riguarda il giudizio abbreviato, il "premio" della riduzione di un terzo della pena si accompagna alla consapevole rinuncia al dibattimento, al consenso ad essere giudicato allo stato degli atti e a che vengano utilizzati come prova ai fini del giudizio gli atti contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari, alla preventiva rinuncia ad avvalersi dell'appello in caso di condanna a pena sostitutiva e alla sola pena pecuniaria, nonchè, in caso di proscioglimento, quando l'appello tende ad ottenere una diversa formula.

La posizione processuale dell'imputato incontra pertanto, per effetto della scelta del giudizio abbreviato, un doppio limite: in primo luogo perchè l'imputato, a seguito della sua richiesta, accetta che il giudizio si svolga solo sulla base degli atti contenuti nel fascicolo pubblico ministero, senza potere usufruire delle maggiori garanzie connesse alla formazione della prova in dibattimento; in secondo luogo perchè, nei casi espressamente previsti dall'art. 443, commi 1 e 2, cod. proc. pen., l'imputato rinuncia preventivamente al giudizio in grado di appello. Nei confronti di tale disciplina, si può parlare di una preventiva e consapevole accettazione da parte dell'imputato dell'attenuazione di alcune facoltà difensive, a fronte dei vantaggi premiali che gli vengono assicurati in caso di sentenza di condanna.

Le peculiarità del giudizio abbreviato sono state ricollegate da questa Corte, in adesione alla Relazione al Progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale, ad esigenze di celerità, rapidità ed economia del procedimento, perseguite, da un lato, evitando il passaggio alla fase dibattimentale, secondo uno schema deflattivo comune a tutti i sistemi processuali che si ispirano al modello accusatorio, e imponendo il giudizio allo stato degli atti; dall'altro, introducendo limiti all'appellabilità della sentenza, destinati a garantire la rapida definizione del processo (sentenze n. 363 del 1991 e n. 183 del 1990).

Con specifico riferimento ai limiti all'appellabilità delle sentenze, la già menzionata sentenza n. 363 del 1991 a cui si é appunto richiamato il giudice rimettente, ha dichiarato illegittimo l'art. 443, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui prevede che l'imputato non può proporre appello contro le sentenze di condanna a una pena che comunque non deve essere eseguita, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, a causa della "irrazionalità della limitazione apportata che, in relazione al rilievo costituzionale dell'interesse inciso, non trova adeguata giustificazione nelle caratteristiche e nelle finalità proprie del giudizio abbreviato".

In particolare, questa Corte ha rilevato che la diversità di posizione tra imputati condannati ad una pena concretamente eseguibile - per i quali é ammesso l'appello - e quelli a pena che comunque non deve essere eseguita - per i quali vige il divieto di proporre appello - non trova "un fondamento ragionevolmente commisurato all'entità della limitazione apportata al diritto di difesa". Il criterio in base al quale agli uni é riconosciuto e agli altri é negato il diritto all'appello assume infatti a proprio presupposto - prosegue la Corte - "un elemento estrinseco alla natura del reato commesso e ai caratteri della pena irrogata", così trascurando "ogni riferimento agli aspetti che più sono destinati a caratterizzare la responsabilità dell'imputato e le conseguenze dell'azione criminosa, quali il titolo del reato, il tipo di sanzione, la misura della pena edittale".

4. Sulla base di queste premesse, si deve valutare se anche la norma censurata dal giudice rimettente determini un irragionevole sacrificio dell'interesse dell'imputato a proporre appello.

A prescindere dalla qualificazione dogmatica delle pene sostitutive, non si può non constatare che tali sanzioni - semidetenzione, libertà controllata e pena pecuniaria, giusta l'elencazione contenuta nell'art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689 - hanno certamente natura meno afflittiva delle pene detentive; inoltre, operano nei confronti di categorie di reati in assoluto meno gravi rispetto a quelli per cui la pena può non essere eseguita, in quanto sono applicabili quando la durata della corrispondente pena detentiva é contenuta, rispettivamente, entro il limite di un anno per la semidetenzione, di sei mesi per la libertà controllata e di tre mesi per la pena pecuniaria, mentre la sospensione condizionale, in cui si sostanzia l'ipotesi più frequente di pena non eseguibile, può essere concessa per condanne alla pena della reclusione o dell'arresto sino a due anni.

I tre requisiti giustificativi del sacrificio dell'appello risultano pertanto pienamente rispettati in caso di condanna a pena sostitutiva: la minore gravità dei titoli di reato, la minore afflittività delle sanzioni sostitutive, i livelli necessariamente più bassi della misura delle pene edittali escludono vizi di irragionevolezza e consentono di concludere che la disciplina rientra negli spazi di discrezionalità legittimamente utilizzati dal legislatore per realizzare l'obiettivo della rapida definizione del giudizio abbreviato.

Al contrario, nel confronto con la posizione degli imputati condannati a pena concretamente eseguibile, la non appellabilità delle sentenze di condanna a pena che non deve essere eseguita non teneva conto nè del titolo di reato, nè del tipo di sanzione, nè della misura della pena edittale, ma si basava su di un elemento estrinseco, ricollegabile all'entità della pena comminata in concreto, ovvero alla circostanza che ricorressero le condizioni personali per la concessione della sospensione condizionale della pena.

5. Il giudice rimettente ravvisa la violazione dell'art. 3 della Costituzione anche con riferimento al verificarsi delle condizioni che, a norma degli articoli 66 e 72 della legge n. 689 del 1981, determinano la conversione o la revoca della restante parte di pena sostitutiva nella pena detentiva sostituita (rispettivamente, conversione per l'inosservanza anche di una sola delle prescrizioni inerenti alla semidetenzione e alla libertà controllata; revoca e successiva conversione in caso di condanne successive a pena detentiva): in tali situazioni il condannato alla pena sostitutiva non potrebbe infatti essere reintegrato nel diritto di esperire appello e sarebbe pertanto esposto ad una irragionevole disparità di trattamento rispetto a chi, originariamente condannato a pena detentiva di eguale misura, avrebbe potuto esperire l'appello senza alcuna limitazione.

La specifica censura non é conferente, per la ragione assorbente che i casi di conversione e di revoca della pena sostitutiva hanno come presupposti comportamenti e fatti successivi ascrivibili al condannato, imprevedibili e del tutto indipendenti ed estranei rispetto al titolo del reato, alla qualità e alla misura della sanzione, di cui l'imputato affronta consapevolmente il rischio nel momento in cui chiede di essere ammesso al giudizio abbreviato. L'interesse che in tali situazioni l'imputato conserverebbe a proporre appello non appare, cioé, suscettibile di autonoma considerazione rispetto al più generale interesse a fare valere la propria innocenza; interesse che, per le ragioni sopra esposte, non risulta comunque irragionevolmente sacrificato dalla inappellabilità della condanna a pena sostitutiva.

6. Il giudice rimettente lamenta inoltre che la proponibilità o meno dell'appello deriverebbe dalla scelta meramente discrezionale del giudice nel momento in cui decide, a norma dell'art. 53 della legge n. 689 del 1981, se applicare la pena detentiva ovvero la pena sostitutiva, alla stregua di una valutazione non dissimile da quella sottostante alla concessione della sospensione condizionale della pena.

Il fatto che sia l'art. 58 della legge citata, sia l'art. 164 cod. pen. si richiamino all'esercizio di una valutazione discrezionale, ancorata ai criteri e alle circostanze indicati nell'art. 133 cod. pen., non implica che il giudice sia titolare di scelte arbitrarie, volte a provocare, in caso di applicazione della sanzione sostitutiva, l'inappellabilità della sentenza, e in quanto tali suscettibili di determinare una ingiustificata disparità di trattamento rispetto all'ipotesi di concessione della sospensione condizionale della pena, la quale dopo l'intervento della sentenza n. 363 del 1991 non produce più - come già precisato - effetti in ordine alla proponibilità dell'appello. Al riguardo, é sufficiente rilevare che l'esercizio del potere discrezionale del giudice di sostituire o meno la pena detentiva é sorretto dai precisi criteri indicati dall'art. 58 della legge n. 689 del 1981, tra cui sono richiamate in primo luogo le circostanze di cui all'art. 133 cod. pen.; inoltre il giudice deve scegliere tra le pene sostitutive quella più idonea al reinserimento sociale del condannato e non può comunque provvedere alla sostituzione della pena detentiva quando presume che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato; infine, deve in ogni caso indicare specificamente i motivi che giustificano la scelta del tipo di pena erogata.

La conseguenza della improponibilità dell'appello é quindi del tutto estranea alle valutazioni discrezionali del giudice che applica la pena sostitutiva, ma si pone come un possibile effetto negativo di cui l'imputato é in condizione di tenere conto quando presenta la richiesta di giudizio abbreviato e di cui accetta preventivamente il rischio in caso di sentenza di condanna a pena sostituita.

7. Infine, infondata é pure la denunciata violazione degli articoli 2 e 10 della Costituzione, con riferimento all'art. 2, comma 1, del protocollo addizionale n. 7 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato dal Presidente della Repubblica Italiana in seguito ad autorizzazione conferitagli dalla legge 9 aprile 1990, n. 98, ed entrato in vigore per l'Italia il 1° febbraio 1992.

Premesso che l'art. 2 del Protocollo sopra menzionato ha introdotto nel comma 1 il principio che il colpevole di una infrazione penale "ha il diritto di sottoporre ad un tribunale della giurisdizione superiore la dichiarazione di colpa o la condanna", rinviando alla legge per la disciplina dell'esercizio di tale diritto e per l'individuazione dei motivi per cui può essere invocato, e che il secondo comma stabilisce che il diritto "potrà essere oggetto di eccezioni in caso di infrazioni minori", il giudice rimettente ha erroneamente dato per scontato che l'art. 2 faccia riferimento ad un secondo giudizio di merito.

Il tenore dell'art. 2, comma 1, del protocollo addizionale n. 7, anche attraverso il confronto con quanto già disposto in tema di impugnazioni dall'art. 14, comma 1, del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 19 dicembre 1966, ratificato dall'Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881, non legittima una interpretazione per cui il riesame ad opera di un tribunale superiore debba coincidere con un giudizio di merito. La formulazione dell'art. 2, nel demandare al legislatore interno ampi spazi per la disciplina dell'esercizio del diritto all'impugnazione, non esclude, infatti, che il principio si sostanzi nella previsione del ricorso in Cassazione, già previsto dalla Costituzione italiana. La norma, anche alla luce dell'interpretazione sostenuta dalla prevalente dottrina con riferimento all'analogo principio enunciato dal comma primo dell'art. 14 del Patto internazionale del 1966, é volta ad assicurare comunque un'istanza davanti alla quale fare valere eventuali errori in procedendo o in iudicando commessi nel primo giudizio, con la conseguenza che il riesame nel merito interverrà solo ove tali errori risultino accertati.

Ove si volesse, poi, sostenere che, essendo la ricorribilità in Cassazione già prevista dalla Costituzione, l'art. 2, comma 1, ha introdotto il diritto ad un secondo grado di giudizio di merito, si incorrerebbe in un palese vizio logico, in quanto la norma convenzionale verrebbe interpretata alla luce del diritto interno, come se la disposizione pattizia avesse il ruolo di riempire i vuoti dell'ordinamento nazionale. Vuoto che, tra l'altro, non si porrebbe in contraddizione con l'ordinamento costituzionale italiano, alla luce della consolidata giurisprudenza di questa Corte in tema di non rilevanza costituzionale della garanzia del doppio grado della giurisdizione di merito (vedi, da ultimo, sentenze n. 438 del 1994 e n. 543 del 1989).

A prescindere dalle considerazioni sino ad ora svolte, il richiamo del giudice rimettente all'art. 10, primo comma, della Costituzione, appare comunque incongruo, posto che la costante giurisprudenza di questa Corte ha affermato che tale disposizione, nel richiamare ai fini dell'adeguamento del diritto interno le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, si riferisce alle norme internazionali di natura consuetudinaria, e non a quelle di origine pattizia (vedi, da ultimo, sentenze n. 146 del 1996 e n. 15 del 1996).

8. La disciplina denunziata non determina, quindi, nè una ingiustificata disparità di trattamento, nè un irragionevole sacrificio dell'interesse dell'imputato al doppio grado del giudizio di merito, e non si pone in contrasto con il protocollo addizionale n. 7 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.

Tale disciplina, che del resto si inquadra in un sistema che prevede altre ipotesi di inappellabilità, riferite sia ai procedimenti speciali che al rito ordinario (vedi, ad esempio, articoli 448, comma 2; 469; 593, comma 2, cod. proc. pen.), realizza un non irragionevole equilibrio tra le esigenze di efficienza e di rapidità nella definizione dei processi e la garanzia del doppio grado del giudizio di merito.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 443, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3, 10 e 24 della Costituzione, dalla Corte di cassazione, con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1997.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Guido NEPPI MODONA

Depositata in cancelleria il 30 luglio 1997.