Sentenza n. 206

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 206

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO

- Avv.    Massimo VARI

- Dott.   Cesare RUPERTO

- Dott.   Riccardo CHIEPPA

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof.    Valerio ONIDA

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI  

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 585, comma 1, lettera a) del codice di procedura penale, promossi con n. 2 ordinanze emesse il 18 aprile ed il 21 ottobre 1996 dalla Corte d'appello di Torino, nei procedimenti penali a carico di Cecone Aldo ed altri e di Carlino Giuseppe, iscritte al n. 904 e 1369 del registro ordinanze 1996 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 1996 e n. 3, prima serie speciale, dell'anno 1997.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 23 aprile 1997 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

1. - La Corte di appello di Torino, chiamata a pronunciarsi sull'appello del Pubblico ministero avverso la sentenza di non luogo a procedere pronunciata il 15 novembre 1995 dal Giudice per le indagini preliminari, sentenza depositata il 4 gennaio 1996, constatato che l'impugnazione era stata proposta il sedicesimo giorno dalla comunicazione della decisione, e, quindi, oltre il termine stabilito dall'art. 585, comma 1, lettera a), e comma 2, lettera d), del codice di procedura penale, ha, con ordinanza del 18 aprile 1996, sollevato, su eccezione del Procuratore generale, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, questione di legittimità dell'ora ricordato art. 585, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede che, in ogni caso, il termine per appellare la sentenza di non luogo a procedere sia di soli quindici giorni dalla pronuncia o dalla comunicazione del provvedimento impugnato.

Secondo il giudice a quo l'art. 3 della Costituzione sarebbe vulnerato per la disparità di trattamento rispetto ai termini previsti per impugnare la sentenza pronunciata a seguito di giudizio abbreviato, in esito all'udienza preliminare, sentenza assoggettata, secondo la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, al regime dei termini stabilito per le sentenze dibattimentali; vale a dire: quindici giorni quando la motivazione é depositata contestualmente al dispositivo; trenta giorni quando la motivazione é depositata non oltre il quindicesimo giorno dalla pronuncia; quarantacinque giorni quando, per la complessità della motivazione, il giudice abbia indicato un termine più lungo del quindicesimo giorno dalla pronuncia.

Una disparità - ad avviso della Corte d'appello rimettente - del tutto ingiustificata, tenuto conto che entrambi i provvedimenti sono emessi a conclusione dell'udienza preliminare e possono, l'uno e l'altro, presentare un particolare grado di difficoltà tale da rendere assolutamente impossibile la proposizione del gravame nel termine di quindici giorni. E ciò soprattutto considerando che, a seguito della eliminazione della parola "evidente" dal comma 1 dell'art. 425 del codice di procedura penale (in forza dell'art. 1 della legge 8 aprile 1993, n. 105), la sentenza di non luogo a procedere può rivestire un alto tasso di complessità, non ravvisabile, invece, prima di tale "novellazione". Ed infatti, con il consentire la pronuncia della detta sentenza solo ove risultasse evidente che il fatto non é previsto dalla legge come reato ovvero che il fatto non sussiste o che l'imputato non l'ha commesso o che il fatto non costituisce reato ovvero che l'imputato non é punibile per qualsiasi altra causa, veniva disegnato un tipo di provvedimento per definizione privo di complessità, così da poter essere in ogni caso assoggettato ai termini di impugnazione previsti dall'art. 585, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale.

Dopo l'indicata "novellazione" dell'art. 425, inoltre, l'art. 585, comma 1, lettera a), contrasterebbe con i criteri posti a base del regime dei termini per l'impugnazione quale complessivamente predisposto dal nuovo codice di procedura penale, un regime attento a ricollegare la misura dei termini necessari per proporre il gravame in funzione della maggiore o minore complessità della pronuncia. E ciò in quanto la sentenza di non luogo a procedere, che può presentarsi ora come un provvedimento particolarmente complesso, resta comunque assoggettata al termine per impugnare prescritto dall'art. 585, comma 1, lettera a), del codice stesso.

Con il che al tertium comparationis, additato nel termine per impugnare la sentenza pronunciata in esito a giudizio abbreviato, viene a sovrapporsi il termine per impugnare la sentenza dibattimentale, riferibile pure alle sentenze pronunciate ai sensi dell'art. 438 e seguenti del codice di procedura penale, nonostante queste siano emesse a seguito di una procedura in camera di consiglio.

D'altro canto, il fatto che già l'art. 424, comma 4, prevedesse, anche prima della riforma dell'art. 425, comma 1, l'eventualità che la sentenza di non luogo a procedere potesse essere depositata entro il termine di non oltre trenta giorni dalla pronuncia, non sarebbe di ostacolo alla proponibilità delle dedotte censure, essendo stato tale termine stabilito non tanto in funzione della complessità della motivazione (per definizione semplice, perchè fondata sull'"evidenza") quanto dei "motivi più vari, come il notevole numero di processi iscritti a ruolo, oppure" "della necessità di includere nei motivi i risultati di un'accurata ricerca giurisprudenziale sulla fattispecie legale posta in discussione".

La norma denunciata risulterebbe anche in contrasto con l'art. 112 della Costituzione e cioé con il principio di obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale, rilevante, "non solo nella sua fase iniziale, ma anche nel suo sviluppo" e cioé fino all'esercizio del potere-dovere di impugnazione.

2. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata non fondata.

Sotto il profilo della dedotta violazione del principio di eguaglianza, l'Avvocatura deduce che l'irragionevolezza delle scelte del legislatore "non può essere desunta da ogni pur lieve differenziazione" di disciplina.

Sotto il profilo del vulnus arrecato all'art. 112 della Costituzione, l'Avvocatura dello Stato osserva che la previsione di termini processuali più o meno lunghi non può rappresentare un ostacolo all'esercizio dell'azione penale, mentre é del tutto fuori luogo comparare i termini a favore di chi decide dello ius libertatis con quelli dati a chi ha il compito della mera richiesta.

D'altro canto l'intervento della "novella" del 1993 non avrebbe modificato il ruolo dell'udienza preliminare tramutandola da momento interlocutorio del procedimento in un vero e proprio giudizio di merito.

3. - Un'analoga questione ha sollevato la stessa Corte di appello di Torino con ordinanza del 21 ottobre 1996, col denunciare, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, l'art. 585, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, adottando argomentazioni pressochè identiche a quelle di cui si é riferito sub 1.

Pure in tale giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, riportandosi all'atto di intervento del quale si é riferito sub 2.

Considerato in diritto

1. - Le due ordinanze in epigrafe, entrambe pronunciate dalla Corte di appello di Torino, sollevano un'identica questione. I relativi giudizi vanno, dunque, riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.

Comune oggetto di censura é l'art. 585, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale nella parte in cui prevede, per il pubblico ministero, quale termine per proporre appello avverso le sentenze di non luogo a procedere pronunciate a norma dell'art. 425 dello stesso codice, quello di (soli) quindici giorni decorrente, nel caso di specie, trattandosi di impugnazione proposta dal procuratore generale, dalla comunicazione della sentenza, alla stregua del disposto dell'art. 585, comma 2, lettera d), del codice di procedura penale.

L'essere la denuncia incentrata sull'asserita brevità del termine assegnato al pubblico ministero per impugnare la sentenza di non luogo a procedere deriva, non tanto da ragioni connesse al requisito della rilevanza, quanto da uno dei parametri evocati dal giudice a quo, l'art. 112 della Costituzione. Tale principio sarebbe vulnerato perchè verrebbe impedito al pubblico ministero di adempiere l'obbligo di esercitare l'azione penale; un obbligo rilevante non solo nella fase iniziale del procedimento, "ma anche nel suo sviluppo" e, quindi, pure ai fini dell'impugnazione. Così, però, trascurando che un'identica legittimazione é attribuita - sempre facendo ricorso, quanto alla disciplina dei termini, alla norma denunciata - dall'art. 428, comma 1, lettera b), anche all'imputato, salvo che con la sentenza non sia stato dichiarato che il fatto non sussiste o che l'imputato non l'ha commesso (nonchè alla persona offesa, legittimata dall'art. 428, comma 3, a ricorrere per cassazione nei casi di nullità previsti dall'art. 419, comma 7).

L'altra norma costituzionale chiamata in causa é l'art. 3, additandosi come tertium comparationis la disciplina delle impugnazioni delle sentenze pronunciate in esito a giudizio abbreviato, assoggettate, secondo l'ormai consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, nonostante siano anch'esse pronunciate a seguito di procedimento in camera di consiglio, al regime dei termini di cui all'art. 585, comma 1, lettera b), vale a dire a quello di trenta giorni (con possibilità di elevazione di detto termine a quarantacinque giorni nel caso previsto dall'art. 544, comma 3). Ma la questione, sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza, pare trascendere lo specifico tertium per investire l'intera disciplina dei termini quale prefigurata dal legislatore; al quale si addebita di non aver conformato il regime dei termini per l'impugnazione alla nuova tipologia della sentenza di non luogo a procedere derivante dalla modifica dell'art. 425 del codice di procedura penale ad opera dell'art. 1 della legge 8 aprile 1993, n. 105, che, sopprimendo la parola "evidente", figurante nel testo originario e che qualificava le condizioni per la pronuncia di non luogo a procedere fondata sul convincimento del giudice che il fatto non sussiste o che l'imputato non l'ha commesso, ha conferito a tale statuizione i caratteri propri di ogni sentenza. Cosicchè, quando la pronuncia camerale si concluda con un simile tipo di provvedimento dovrebbe trovare applicazione la disciplina dei termini per l'impugnazione relativa a tali statuizioni, non valendo certo come razionale discrimine la procedura attraverso la quale si perviene all'emanazione del provvedimento conclusivo dell'udienza preliminare. Del resto, l'intervento legislativo ora ricordato avrebbe generalizzato, in relazione alle sentenze, un regime dei termini incentrato esclusivamente nella "summa divisio", alla base delle diverse cadenze cronologiche, "tra provvedimenti "semplici" e provvedimenti "più o meno complessi"". Una diversificazione la cui immanenza nel sistema, quale unico criterio diretto a determinare gli ambiti temporali a disposizione delle parti per impugnare la sentenza, sarebbe comprovata, senza possibilità di equivoci, dal raffronto, anzi, dalla combinazione tra l'art. 544 e l'art. 585 del codice di procedura penale. Il richiamo del secondo alla disciplina dell'art. 544 risponde, infatti, all'esigenza di apprestare una regolamentazione dei termini per l'impugnazione condizionata al contenuto (semplice, ordinario, complesso) della decisione. In tal modo, la comparazione più significativa, e che dimostrerebbe l'irrazionalità del sistema sopravvenuto alla novazione dell'art. 425, starebbe nella simmetria del regime dei termini per impugnare le decisioni (e, quindi, anche la sentenza di non luogo a procedere) pronunciate in esito a procedimento in camera di consiglio, il cui contenuto può variare quanto a complessità, e le sentenze emesse in esito a dibattimento (e, secondo l'interpretazione giurisprudenziale, pure a seguito di rito abbreviato) quando venga contestualmente redatta la motivazione; decisioni, dunque, contrassegnate, per definizione, da un tasso di difficoltà certo non consistente.

2. - La questione non é fondata.

Come si é già avuto occasione di precisare delineando l'intento perseguito dal giudice a quo, il richiamo all'art. 112 della Costituzione risulta davvero non pertinente, così da poter essere subito disatteso.

E ciò non soltanto perchè "il potere di appello del pubblico ministero non può riportarsi all'obbligo di esercitare l'azione penale come se di tale obbligo esso fosse - nel caso in cui la sentenza di primo grado abbia disatteso in tutto o in parte le ragioni dell'accusa - una proiezione necessaria ed ineludibile" (v. sentenza n. 280 del 1995), tanto più quando vengano censurate, anzichè l'assenza del potere di impugnazione, le concrete modalità del suo esercizio, ma anche perchè il risultato divisato dal giudice a quo - circoscritto, in funzione del parametro evocato, alla sola impugnazione del pubblico ministero - viene direttamente a compromettere l'osservanza del principio della parità delle parti, considerato che pure l'imputato é legittimato (nei limiti indicati dall'art. 428, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale) a proporre appello nei confronti delle sentenze di non luogo a procedere pronunciate a conclusione dell'udienza preliminare.

3. - Qualche precisazione maggiore merita la questione incentrata sulla dedotta violazione dell'art. 3 della Costituzione.

Non appare inutile premettere che il legislatore del 1988, mosso dalla esigenza di evitare i tempi morti del processo, profondamente innovando rispetto alle previsioni dell'abrogato codice di rito, ha costruito un regime dei termini per l'impugnazione che risulta molto semplificato, anche se le differenziate cadenze temporali potrebbero indurre a ritenere il contrario. Esso si risolve infatti nella fissazione di tre fasce di termini (quindici, trenta e quarantacinque giorni) stabiliti in relazione ai diversi tipi ed alla diversa struttura dei provvedimenti: e ciò nella logica connaturata al sistema del codice vigente, il quale ha dettato una disciplina che prevede, proprio in aderenza alle nuove modalità di redazione e pubblicazione della sentenza, quali risultanti dagli artt. 544 e 545, la concentrazione dell'impugnazione in un unico atto (comprendente sia la dichiarazione che i motivi). Così da perseguire l'esigenza di immediata specificazione delle doglianze rivolte nei confronti del provvedimento impugnato, al fine di garantire un minimo di serietà del gravame, fin dalla sua proposizione pretendendo, a pena di inammissibilità, che i motivi siano correlati a ciascuna delle richieste mediante l'indicazione, chiara e determinata, per quanto concisa, delle censure che si intendono muovere ai capi o punti della decisione, che devono anch'essi essere specificamente indicati, nonchè degli elementi di diritto e di fatto che sorreggono ogni richiesta (v. art. 581 del codice di procedura penale): un onere informato a moduli di particolare rigore tanto che l'omessa enunciazione dei motivi viene ad essere qualificata come causa di inammissibilità originaria dell'impugnazione.

Un principio, quello adesso ricordato, operante, non soltanto per l'impugnazione delle sentenze, ma pure per il gravame avverso provvedimenti di tipo diverso, salvo espressa previsione contraria da parte del legislatore (si pensi, al disposto dell'art. 309, comma 6, del codice di procedura penale, che non richiede, quale condizione per l'ammissibilità della richiesta di riesame, l'enunciazione dei motivi).

Alla tipologia del provvedimento pronunciato si ricollega, poi, il principio, ormai così consolidato nella giurisprudenza della Corte di cassazione da assurgere al ruolo di "diritto vivente", secondo cui rispetto alle sentenze pronunciate nel giudizio abbreviato non é operante l'unico termine dei quindici giorni contemplato dall'art. 585, comma 1, lettera a), per i provvedimenti camerali, ma trovano applicazione i diversi termini di impugnazione derivanti dal richiamo dell'art. 585 del codice di procedura penale all'art. 544 dello stesso codice. E ciò per il rinvio ad opera dell'art. 442, comma 1 (che regola la decisione pronunciata all'esito del giudizio abbreviato) agli artt. 529 e seguenti, tra i quali é, appunto, compresa la disposizione dell'art. 544. Il tutto sul presupposto che il giudizio abbreviato si caratterizza per il procedimento e per il materiale probatorio utilizzabile, non per la decisione, che non é diversa da quella adottata all'esito del dibattimento; donde la coerenza di un assetto normativo che richiama per la decisione le regole del dibattimento anzichè quelle proprie dell'udienza preliminare. Con la conseguenza che i requisiti della sentenza sono quelli previsti, non dall'art. 426, comma 1, del codice di procedura penale, ma dall'art. 544 dello stesso codice, tanto che la sentenza non può limitarsi ad "una esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione é fondata" (art. 426, comma 1, lettera d), ma deve contenere la "concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto sui quali la decisione stessa é fondata con l'enunciazione delle prove poste a base della decisione e le ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie" (art. 546, comma 1, lettera e), del codice di procedura penale).

A parte tali, pur significative, notazioni di ordine letterale, la comparazione tra le due tipologie di sentenze, quella di condanna o di assoluzione pronunciata in esito a giudizio abbreviato e quella di non luogo a procedere pronunciata all'esito dell'udienza preliminare, non può certo condurre alla conclusione che la diversità di regime quanto ai termini per impugnare sia priva di ragionevolezza, così da farne addirittura derivare l'arbitrarietà del regime differenziato relativamente ai tempi a disposizione dell'interessato per proporre impugnazione.

La decisione adottata a conclusione del giudizio abbreviato, pur se emessa (salvo i casi - peraltro di indubbia valenza interpretativa - in cui essa é adottata in esito a dibattimento, alla stregua del decisum della sentenza n. 81 del 1991) in camera di consiglio, é una sentenza pronunciata in giudizio ed é, quindi, contrassegnata - una volta esperiti i mezzi di impugnazione o in caso di rinuncia agli stessi - dall'attributo dell'irrevocabilità (art. 648, comma 1, del codice di procedura penale): ciò che comporta il divieto del secondo giudizio per lo stesso fatto (v. l'art. 649, comma 1, il quale richiama il primo comma dell'ora ricordato art. 648), ed implica il possibile prodursi di effetti, sia pure condizionati dalla presenza di determinati presupposti, di natura extrapenale (v. artt. 651, comma 2, e 652, comma 2, del codice di procedura penale).

La sentenza di non luogo a procedere, invece, non é mai in grado di divenire irrevocabile e, come tale, é sottratta al regime del ne bis in idem, restando, invece, designata da un mero effetto preclusivo, rimuovibile, sia pure solo in presenza degli specifici presupposti indicati dall'art. 434 del codice di procedura penale, attraverso l'utilizzazione della revoca della sentenza stessa.

Di conseguenza, é la diversa natura degli effetti a rendere non irragionevoli le diverse cadenze temporali stabilite dalla legge per i due tipi di sentenze. Una differenza, certo, non attinta dalla soppressione della parola "evidente" nell'art. 425 del codice di procedura penale in forza della già ricordata novazione normativa. Potendo qui ripetersi che la sentenza di non luogo a procedere, pure dopo la detta novazione, resta "una sentenza di tipo "processuale", destinata a null'altro che a paralizzare la domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero", tanto che il provvedimento di rinvio a giudizio risulta imposto anche nelle ipotesi in cui sia stata semplicemente ritenuta la "necessità di consentire, nella dialettica del dibattimento, lo sviluppo di elementi non chiariti" (v. sentenza n. 94 del 1997, nonchè, soprattutto, sentenza n. 71 del 1996).

D'altro canto, ai fini della soluzione della questione ora al vaglio della Corte non può farsi derivare alcun argomento dal parallelismo istituibile tra i tempi a disposizione del giudice per redigere la sentenza ed i termini a disposizione delle parti per impugnare la sentenza stessa, con riverbero sui termini per impugnare la sentenza di non luogo a procedere dopo l'innovazione introdotta dalla legge n. 105 del 1993. Anche prima di tale innovazione, infatti, era consentito al giudice, dopo la deliberazione, di provvedere alla redazione dei motivi "non oltre il trentesimo giorno da quello della pronuncia", senza che, peraltro, risultasse coinvolto dall'utilizzazione del regime della "motivazione differita" il termine per proporre impugnazione. Una disciplina, quella ora ricordata, dalla quale emerge che difficoltà nella stesura dei motivi erano configurabili anche nel sistema antecedente alla soppressione della parola "evidente". E di tale disciplina il giudice a quo ha mostrato di essere perfettamente a conoscenza non mancando di precisare, anzi, come tra i casi di impossibilità di contestuale redazione dei motivi rientrava (e rientra, ovviamente, ancora) pure la difficoltà della decisione, indicata dai rimettenti nella "necessità di includere nei motivi i risultati di un'accurata ricerca giurisprudenziale sulla fattispecie legale posta in discussione".

Così, ancora una volta, dimostrandosi che le scelte del legislatore relativamente ai termini per proporre l'impugnazione nascono da ragioni composite e non soltanto dalla maggiore o minore complessità della decisione, dato che vengono in rilievo anche l'ambito di efficacia della pronuncia e la necessaria celerità della procedura in relazione agli interessi coinvolti dalla statuizione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 585, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, dalla Corte di appello di Torino con le due ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il17 giugno 1997.

Renato GRANATA: Presidente

Giuliano VASSALLI: Redattore

Depositata in cancelleria il 27 giugno 1997.