Ordinanza n. 396 del 1996

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ORDINANZA N.396

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Dott. Renato GRANATA, Presidente

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

-     Avv. Fernanda CONTRI

-     Prof. Guido NEPPI MODONA

-     Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 260, secondo comma, del codice penale militare di pace, promosso con ordinanza emessa l'11 aprile 1996 dal Tribunale militare di Padova, nel procedimento penale a carico di Valdrighi Alessandro ed altro, iscritta al n. 734 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 13 novembre 1996 il Giudice relatore Cesare Ruperto.

RITENUTO che, nel corso di un procedimento penale a carico di Valdrighi Alessandro e Cifrodelli Fabio, imputati in concorso tra loro dei reati di percosse ed ingiurie continuate nei confronti di due commilitoni, il Tribunale militare di Padova, con ordinanza emessa l'11 aprile 1996, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, primo comma, e 52, ultimo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 260, secondo comma, del codice penale militare di pace;

che, a giudizio del rimettente, tale norma -- nella parte in cui prevede che i reati per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione militare non superiore nel massimo a sei mesi sono puniti a richiesta del comandante di corpo -- violerebbe: a) l'art. 2 Cost., determinando una "confisca" della tutela in sede penale della persona militare a favore di un non meglio precisabile "interesse pubblico militare", anche nelle ipotesi in cui il fatto sia grave e non possa perciò dirsi prevalente l'offesa all'interesse militare, non essendo "sufficiente ad esaurire i diritti del singolo" il riconoscimento a favore della persona offesa di un'azione civile; b) l'art. 3 Cost., poiché l'"espropriazione" del diritto di tutela del cittadino militare in sede penale porrebbe lo stesso in una situazione di ingiustificata disparità rispetto al cittadino civile; c) l'art. 24, primo comma, Cost., in quanto -- pregiudicata la possibilità di costituirsi parte civile nel processo militare -- il militare offeso dovrebbe subire la maggiore lungaggine dell'esercizio dell'azione civile; d) l'art. 52, ultimo comma, Cost., non reputandosi necessaria -- per l'assolvimento dei compiti propri delle Forze Armate -- l'attribuzione al solo comandante di corpo della facoltà di decidere se richiedere o meno la perseguibilità dei fatti in sede penale, potendosi configurare una identica facoltà concorrente del militare;

che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità o quantomeno per l'infondatezza della questione.

CONSIDERATO che -- ripetutamente sottoposta al vaglio di questa Corte, con riferimento anche ad altri diversi parametri -- la questione di costituzionalità della disciplina di cui al secondo comma dell'art. 260 cod. pen. mil. pace è stata dichiarata non fondata o manifestamente infondata;

che va ribadito come non possa venire in considerazione la prospettata violazione del principio di uguaglianza, stante la peculiarità della situazione propria del cittadino inserito nell'ordinamento militare -- alle cui specifiche regole egli non può non sottostare -- rispetto a quella dei comuni cittadini (v. ordinanze n. 82 del 1994 e n. 397 del 1987);

che, in linea di principio, tale diversità non viene meno in presenza di condotte prive di rilevante attitudine offensiva, pur se riferibili a diritti della persona, poiché in tali ipotesi -- che sono le sole per le quali la denunciata norma impone la richiesta del comandante di corpo -- sicuramente prevale l'esigenza di tutelare il prestigio e la dignità delle forze armate, evitando che l'incondizionato esercizio dell'azione penale possa di fatto causare un pregiudizio proporzionalmente maggiore di quello prodotto dal reato (cfr. sentenze n. 189 del 1976 e n. 42 del 1975);

che le stesse ragioni conducono a superare le censure riferite agli artt. 2 e 52, ultimo comma, Cost., atteso che i diritti della persona offesa e lo spirito democratico della Repubblica non possono dirsi compromessi (in siffatti casi di lieve entità, i quali, a stregua del codice penale, sono normalmente punibili a querela) dalla previsione della richiesta del comandante, la quale al contrario -- riaffermato che non può non accreditarsi a chi esercita il comando doti di imparzialità e distacco -- si palesa come strumento idoneo ad adeguare al caso concreto la risposta dell'ordinamento militare (cfr. sentenze n. 436 del 1995 e n. 449 del 1991, nonché ordinanza n. 467 del 1995);

che, esclusa l'elevazione a rango costituzionale della regola del simultaneus processus (sentenza n. 60 del 1996), è decisivo -- onde superare anche il dubbio riferito alla prospettata violazione del diritto di difesa -- ancora una volta ribadire che l'esercizio dell'azione civile per il risarcimento del danno nel processo penale non si profila come l'unico strumento di tutela giudiziaria a disposizione del soggetto danneggiato dal reato, al quale infatti è data, prima ancora, la facoltà di adire subito il giudice civile, liberamente e senza preclusioni di sorta (v. sentenze n. 94 del 1996, n. 532 del 1995, n. 185 del 1994);

che, d'altronde, la separazione del processo civile da quello penale si atteggia quale mera modalità di esercizio delle forme di tutela, con la conseguenza che non comporta violazione del dettato costituzionale il venir meno della competenza di un'autorità giudiziaria in seguito al verificarsi di una determinata condizione espressamente prevista in via generale dalla legge (sentenza n. 443 del 1990);

che, pertanto, la questione è manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 260, secondo comma, del codice penale militare di pace, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, primo comma, e 52, ultimo comma, della Costituzione, dal Tribunale militare di Padova, con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 dicembre 1996.

Renato GRANATA, Presidente

Cesare RUPERTO, Redattore

Depositata in cancelleria il 16 dicembre 1996.