Sentenza n. 96 del 1996

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SENTENZA N.96

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 673 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 1° marzo 1995 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Ascoli Piceno sulla richiesta proposta da Petrarolo Franco, iscritta al n. 229 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 marzo 1996 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

 

1. -- Richiesto della revoca di una sentenza pronunciata in esito alla procedura di cui all'art. 444 e seguenti del codice di procedura penale, che aveva applicato la pena complessiva di un anno, cinque mesi, dieci giorni di reclusione e lire 2.500.000 di multa relativamente ai reati previsti dall'art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e dagli artt. 2 e 7 della legge 2 agosto 1967, n. 895, uniti dal vincolo della continuazione (pena determinata sulla base del primo reato), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Ascoli Piceno ha, con ordinanza del 1· marzo 1995, sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 673 del codice di procedura penale, perché la detta norma "non sembra contemplare la fattispecie di sentenza di condanna relativa a più reati, unificati sotto il vincolo della continuazione, uno solo dei quali sia stato abolito per abrogazione o dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice".

Più in particolare, il giudice a quo osserva che la "condanna" relativa al reato di detenzione di sostanze stupefacenti potrebbe "in teoria" essere revocata a seguito della procedura referendaria conclusasi con il d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171, non sussistendo agli atti elementi tali da escludere l'uso personale della droga detenuta. Una revoca che però non potrebbe essere pronunciata nel caso di specie perché la norma denunciata sembrerebbe "concepita e strutturata per la sola ipotesi di una sentenza o decreto di condanna riguardante una o più norme abrogate o dichiarate costituzionalmente illegittime" e non anche per l'ipotesi di sentenza o decreto di condanna riguardante plurimi fatti di reato, uno (o alcuni) soltanto dei quali rientrante nella previsione dell'art. 673 del codice di procedura penale.

E ciò perché manca nel sistema una norma che attribuisca al giudice dell'esecuzione un potere di revoca parziale e di rideterminazione della pena a seguito dell'abolitio criminis.

Un procedimento, oltre tutto - prosegue l'ordinanza - di dubbia percorribilità nei casi - come quello all'esame del giudice a quo - in cui l'abolizione del reato coinvolge la fattispecie più grave dei reati uniti dal vincolo della continuazione e che, dunque, non rende possibile la rideterminazione della pena, oltre tutto a mezzo di un provvedimento avente natura di ordinanza, benché pronunciato nel contraddittorio delle parti.

Ed ancora, con più specifico riferimento al processo da cui è scaturita l'attuale vicenda esecutiva, processo conclusosi ai sensi dell'art. 444 e seguenti del codice di procedura penale, il giudice a quo avanza perplessità circa l'area di possibile incidenza dell'abolitio criminis; se essa cioè comporti effetti demolitori sull'intero assetto programmato dalle parti e accolto dal giudice o invece soltanto sulla pronuncia riguardante la fattispecie abrogata; senza che, peraltro, in tal caso, sia possibile rinvenire, nel sistema della legge, un criterio che consenta di rideterminare la pena residua.

In conclusione, secondo il rimettente, la formulazione dell'art. 673 del codice di procedura penale, nella sua interpretazione logica e letterale, pare non consentire al giudice dell'esecuzione di pronunciare la revoca parziale della sentenza e di pervenire, dunque, alla conseguente rideterminazione della pena residua.

Donde la violazione del principio di eguaglianza da parte della norma denunciata dove questa "non prevede che il Giudice dell'esecuzione possa provvedere alla revoca parziale della sentenza o del decreto penale di condanna" ed alla "rideterminazione della pena, anche in caso di condanne ex art. 444 c.p.p., trattandosi di situazione sostanzialmente identica, almeno sotto il profilo dell'interesse del condannato, a quella della revoca totale della sentenza o del decreto di condanna riguardante esclusivamente fattispecie di reato abrogate"; nonché dell'art. 25 della Costituzione, poiché, "escludendo la possibilità di revoca "parziale" della sentenza o del decreto di condanna, il condannato verrebbe assoggettato ad una pena (rectius: ad una parte di pena) per una fattispecie abrogata o dichiarata incostituzionale al momento dell'esecuzione e ne dovrebbe subire gli effetti per il solo fatto del collegamento, con il vincolo della continuazione, a fattispecie non interessata dall'abrogazione e dalla declaratoria di incostituzionalità".

2. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile con riferimento all'art. 25 ed infondata con riferimento all'art. 3 della Costituzione.

L'infondatezza della questione relativamente alla dedotta violazione del principio di eguaglianza conseguirebbe dall'avere il giudice a quo evocato una figura giuridica - la revoca parziale della sentenza - assolutamente inipotizzabile alla stregua dell'art. 673 del codice di procedura penale, atteggiandosi la revoca sempre e comunque come totale.

Per il resto, e cioè per i provvedimenti conseguenti del giudice dell'esecuzione, si tratta di un problema di ordine esclusivamente interpretativo, da risolvere positivamente; nel senso, cioè, che il giudice dell'esecuzione, in quanto competente ad adottare tutti i provvedimenti concernenti l'esecuzione delle sentenze o dei decreti, può eliminare la pena per il reato (non più esistente) più grave e determinare la pena per il reato meno grave. Un principio applicabile anche alle sentenze pronunciate a norma degli artt. 444 e seguenti del codice di procedura penale.

L'inammissibilità della questione incentrata sull'art. 25 della Costituzione deriverebbe, poi, dal non trovare il principio espresso dal parametro invocato applicazione nella fattispecie in esame.

Considerato in diritto

 

1. -- Chiamato a decidere sulla richiesta di revoca di una sentenza per abolizione del reato proposta nell'interesse di persona alla quale era stata applicata, con decisione divenuta irrevocabile, la pena complessiva di anno uno, mesi cinque, giorni dieci di reclusione e lire 2.500.000 di multa per il reato di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e per violazione della legge sulle armi (artt. 2 e 7 della legge 2 agosto 1967, n. 895), uniti dal vincolo della continuazione, revoca da ritenere circoscritta al primo reato, in quanto depenalizzato in forza dell'esito della procedura referendaria diretta all'abrogazione di talune norme del testo unico in materia di sostanze stupefacenti e psicotrope, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Ascoli Piceno ha denunciato, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, l'illegittimità dell'art. 673 del codice di procedura penale, nella parte in cui "l'attuale formulazione" di detta norma, "non sembra contemplare la fattispecie relativa a più reati unificati sotto il vincolo della continuazione, uno solo dei quali sia stato "abolito" per abrogazione o dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice".

Secondo il rimettente la procedura prevista dall'art. 673 del codice di procedura penale "sembra" congegnata in modo tale da trovare applicazione "per la sola ipotesi di una sentenza o decreto di condanna riguardante una o più norme abrogate o dichiarate costituzionalmente illegittime"; non sarebbe, invece, in grado di operare nei casi di sentenze o decreti riguardanti norme abrogate o dichiarate costituzionalmente illegittime e norme rimaste in vigore: nei casi, cioè, di decisioni aventi ad oggetto più capi di imputazione alcuni dei quali soltanto siano relativi a fattispecie abrogate o dichiarate incostituzionali. Il tutto perché solo se la legge attribuisse espressamente sia il potere di "revoca parziale" sia quello di "provvedere alla rideterminazione della pena residuata a seguito della revoca parziale", il detto giudice potrebbe scorporare l'una dall'altra condanna e provvedere conseguentemente alla riduzione della pena determinando il residuo da eseguire. Un potere che, fra l'altro, ove venisse riconosciuto, darebbe vita ad ulteriori profili problematici nel caso di reati uniti dal vincolo della continuazione se l'abolitio criminis concerna il reato più grave sul quale è stata operata la determinazione della pena base, per di più con un provvedimento "avente natura di ordinanza"; profili che nel caso di applicazione della pena su richiesta delle parti assumono un tasso di maggiore complessità, occorrendo verificare se il reato "sopravvissuto alla abrogatio criminis" richieda o no un nuovo accordo fra le parti, tanto più che l'art. 188 delle norme di attuazione impone un simile accordo per applicare in sede esecutiva la disciplina del concorso formale o del reato continuato.

2. -- La questione non è fondata.

L'art. 673 del codice di procedura penale, sotto il titolo "Revoca della sentenza per abrogazione del reato", ha dato vita ad un istituto del tutto nuovo nell'ordinamento positivo. Prevedendo, infatti, nel suo comma 1 che, nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto come reato e adotta i provvedimenti conseguenti, la disposizione denunciata segna, infatti, sul piano processuale e nella specifica materia dell'abolitio criminis, un reciso mutamento di tendenza rispetto alle prescrizioni dell'art. 2, secondo comma, del codice penale ("Nessuno può essere punito per un fatto che secondo la legge posteriore non costituisce reato; e se vi è stata condanna ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali") e dell'art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87 ("Quando in applicazione di una norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali"), in base alle quali l'abolitio criminis derivante o da abrogazione della norma penale incriminatrice o da dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma stessa non spiega effetti sul giudicato ma esaurisce la sua valenza demolitoria sull'esecuzione della sentenza, senza alcuna efficacia risolutiva della decisione divenuta irrevocabile. Nel nuovo quadro normativo, invece, in concomitanza con i più penetranti poteri riconosciuti al giudice dell'esecuzione ed in puntuale coerenza con il processo di integrale giurisdizionalizzazione di ogni momento di tale fase, governata sulla traccia delle direttive contenute nell'art. 2, numeri 96, 97 e 98 della legge-delega, da un'accentuazione del rilievo del contraddittorio (v. anche la prima subdirettiva dell'art. 2, numero 3, della stessa legge-delega) la decisione viene ad incidere direttamente, cancellandola, sulla sentenza del giudice della cognizione.

3. -- Considerati i limiti insiti nel requisito della rilevanza, la questione sottoposta all'esame della Corte sembra in realtà essere stata proposta sotto tre ordini di profili coordinati tra loro in logica successione.

L'uno, concernente la possibilità di applicazione dell'art. 673, comma 1, del codice di procedura penale nell'ipotesi di condanna per plurime imputazioni in ordine ad una o ad alcune soltanto delle quali sia intervenuta l'abrogazione o la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice relativa. Il secondo, riguardante la possibilità di far operare l'istituto della revoca della sentenza quando uno o alcuno dei fatti rientranti nell'abolitio criminis sia stato giudicato come unito dal vincolo della continuazione con altro reato relativamente al quale non ricorra l'abolitio criminis, soprattutto quando sul primo sia stata determinata la pena base. Il terzo, infine, avente ad oggetto la possibilità di utilizzare la norma denunciata in tutti quei casi in cui non soltanto si verifichino le prime due condizioni, ma il giudicato derivi da una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti.

E' evidente, dunque, che qui la rilevanza diviene non un limite, ma un requisito in grado di coinvolgere, ai fini del concreto operare dell'art. 673 del codice di procedura penale, tutte le decisioni di condanna, e, quindi, anche la pronuncia di applicazione della pena su richiesta (da considerare, pure a tali fini, come sentenza di condanna, alla stregua del disposto dell'art. 445, comma 1, ultima parte, del codice di procedura penale) per una pluralità di reati uno o alcuno dei quali soltanto sia ricompreso nella previsione della norma incriminatrice abrogata.

4. -- Quanto al primo problema, il presupposto interpretativo da cui muove il giudice a quo appare assolutamente erroneo. Se è vero, infatti, che la norma denunciata non contempla espressamente l'abolitio criminis non riferibile a tutti i reati in ordine ai quali è intervenuta condanna, ciò è perché una simile disposizione sarebbe risultata pleonastica. In tale ipotesi non pare, infatti, corretto - come ha esattamente dedotto l'Avvocatura generale dello Stato nel suo atto di intervento - fare riferimento alla revoca parziale perché, in ogni caso, la sentenza di condanna dovrebbe essere revocata nella sua interezza, così come prescrive l'art. 673 del codice di procedura penale; salvo poi l'esercizio da parte del giudice dell'esecuzione del potere di determinare il residuo della pena inflitta. Meccanismo ben diverso dalla revoca della sentenza, un istituto, invece, sicuramente operante anche nell'ipotesi di pluralità di reati.

Sotto tale aspetto, dunque, introdurre nella problematica prospettata a questa Corte il tema concernente la rideterminazione della pena rivela, anzi, una giustapposizione di questioni che non sembra rispondere alla ratio dell'art. 673 del codice di procedura penale; e ciò perché la determinazione del "residuo" costituisce soltanto l'ineludibile conseguenza della revoca del giudicato. Così da rivelare un ulteriore errore interpretativo direttamente scaturente dal postulato della revoca parziale, essendosi omesso di considerare che, una volta venuto meno il giudicato nella sua integrità, sarà necessario pervenire ad adottare una nuova statuizione in sede esecutiva da sovrapporre al giudicato di cognizione.

Né va trascurato come ugualmente pleonastica si sarebbe rivelata un'espressa previsione legislativa ove si ritenesse concepibile - conformemente a talune prese di posizione della giurisprudenza - la revoca soltanto parziale della sentenza, in tal modo facendo coincidere l'effetto demolitorio del provvedimento del giudice dell'esecuzione con l'effetto rideterminativo della pena. Anche seguendo una simile ricostruzione, infatti, la revoca parziale non avrebbe avuto necessità di apposita previsione derivando la coincidenza di effetti ora ricordata dal semplice richiamo alle regole che disciplinano la condanna per una pluralità di reati e, con riferimento alla specifica fattispecie, dai principi desumibili dal rapporto fra abolitio criminis e continuazione.

5. -- Così introdotto il secondo profilo di censura, diviene subito chiaro come le perplessità avanzate dal giudice a quo, oltre ad apparire come rivolte a proporre un mero dubbio interpretativo - pure qui fondato su presupposti non corrispondenti né alla lettera né alla ratio del precetto della norma denunciata - si rivelano anche del tutto divergenti rispetto alla linea interpretativa tracciata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di rapporti tra continuazione e cosa giudicata.

Dopo un lungo travaglio ermeneutico iniziato a partire dai primi anni ottanta e culminato verso la fine di tale decennio, la Corte di cassazione si è assestata sulla regula iuris in base alla quale anche nell'ipotesi in cui il reato per il quale il giudice procede è più grave di quello già giudicato con sentenza irrevocabile di condanna è applicabile la continuazione, purché venga accertata l'identità del disegno criminoso dell'uno e dell'altro fatto: con l'effetto, in tema di determinazione della pena, che, individuata la pena base per il reato più grave sottoposto al suo esame, il giudice vi apporterà l'aumento giudicato equo per la continuazione con il reato già giudicato e meno grave. Il che conduce - a fortiori - a ritenere del tutto ininfluente il quesito sollevato dal giudice a quo, ancora una volta, concernente in via esclusiva la tematica della determinazione della pena.

La stessa tematica viene, poi, evocata anche con l'argomento che la pronuncia del giudice dell'esecuzione viene adottata con ordinanza e non con sentenza.

A tale proposito l'enfatizzazione della tipologia provvedimentale prevista dalla legge appare in tutta la sua evidenza solo considerando che, in tal modo, viene a mettersi in discussione la stessa disciplina della statuizione che pronuncia l'abolizione del reato. Si omette, infatti, di considerare come il procedimento di esecuzione, da attivare per pervenire all'applicazione dell'art. 673 del codice di procedura penale, è contrassegnato (salvo che per i casi di richiesta manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge e di riproposizione di una richiesta già rigettata basata sui medesimi motivi) dall'assoluta osservanza del principio del contraddittorio proprio dei procedimenti in camera di consiglio, con in più la partecipazione necessaria del difensore e del pubblico ministero. Del resto, che l'osservazione del giudice a quo sia davvero esorbitante rispetto alla questione proposta risulta confermato dal rilievo che trattasi di un provvedimento la cui denominazione va coordinata con i tipi di provvedimento del giudice dell'esecuzione, la forza demolitoria dei quali dovrà poi essere documentata secondo il disposto dell'art. 193 delle norme di attuazione.

6. -- Pure l'ultima questione problematicamente introdotta dal giudice a quo, quella concernente la prospettata incompatibilità dell'art. 673 del codice di procedura penale nei confronti della sentenza, passata in giudicato, di applicazione della pena su richiesta delle parti ove l'abolitio criminis non concerna tutti i reati ai quali la pena è stata applicata, per il fatto che potrebbe anche profilarsi, nell'ipotesi di applicabilità "parziale" dell'art. 673 del codice di procedura penale, la necessità di far nuovamente verificare alle parti la rispondenza al loro interesse dell'accordo, non ha fondamento.

A parte la considerazione che le perplessità sollevate risultano già di per sé contraddittorie rispetto alle premesse, in quanto si darebbe per scontata proprio quella revoca totale che il rimettente mostra di escludere, i dubbi sollevati dal giudice a quo non hanno assolutamente ragion d'essere.

Priva di consistenza è, infatti, la dedotta comparazione con l'art. 188 delle norme di attuazione del codice di procedura penale, quanto alla problematicamente evidenziata necessità di un nuovo consenso delle parti nel caso di più sentenze di applicazione della pena su richiesta pronunciate in procedimenti distinti contro la stessa persona.

Tale precetto che, come è stato rilevato, costituisce, a un tempo, applicazione e completamento dell'art. 671 del codice di procedura penale, proprio per prevedere l'irrogazione di una pena diversa in relazione a reati già giudicati, non può operare attraverso l'intervento unilaterale del giudice, postulando invece il nuovo assetto da comporre che tanto il condannato quanto il pubblico ministero valutino, in relazione ad un momento che appartiene alla fase dell'esecuzione, ciascuno con riguardo all'interesse di cui è portatore, se procedere o no all'unificazione per la continuazione di fatti giudicati con separate sentenze di applicazione della pena. Fermo restando nel giudice dell'esecuzione il potere-dovere, non soltanto "di verificare in concreto la sussistenza di tutti i presupposti cui l'ordinamento subordina l'applicazione della disciplina del reato continuato, fra i quali anche, attesi i limiti inerenti alla fase, la mancanza della condizione ostativa espressa dall'art. 671, comma 1, cod. proc. pen., ma anche quello di valutare la congruità della pena indicata dalle parti ai fini di quanto previsto dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, tenuto conto della portata generale che assume il principio affermato e il decisum espresso nella sentenza n. 313 del 1990" (v. ordinanza n. 37 del 1996).

Una vicenda, quindi, che non rivela affinità di sorta con quella ora al vaglio della Corte, rispetto alla quale i termini dell'accordo non possono essere in alcun modo chiamati in causa occorrendo soltanto verificare se una o taluna delle imputazioni relativamente alla quale è stata applicata la pena concerna un fatto non più costituente reato per abrogazione della norma incriminatrice o per dichiarazione di illegittimità della norma stessa. Senza contare che gli interventi in executivis sulla pronuncia del giudice della cognizione costituiscono l'espressione di un potere eccezionalmente conferito dalla legge e, come tale, non suscettibile di applicazione analogica.

7. -- Del resto, che questa debba essere la scelta interpretativa cui affidare la soluzione della questione sollevata dal giudice a quo, non soltanto sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza, ma anche sotto il profilo del prospettato vulnus all'art. 25 della Costituzione, appare chiaro dall'esame della giurisprudenza della Corte di cassazione circa i poteri del giudice dell'esecuzione in caso di abolitio criminis.

Pure se talune pronunce giurisprudenziali escludono la possibilità per il giudice dell'esecuzione di scindere l'unità dell'imputazione nel caso in cui una sola parte di essa risulti coinvolta nell'abolitio criminis, così da non consentire in tali ipotesi l'applicazione dell'art. 673 del codice di procedura penale, la ratio decidendi di tali statuizioni non è certo rinvenibile in una esclusione di quella che viene definita "revoca parziale della sentenza"; ché, anzi, nel caso di plurime imputazioni una od alcuna soltanto delle quali concerna una fattispecie di reato abrogata o dichiarata costituzionalmente illegittima, è pressoché incontrastata l'affermazione che in simili ipotesi la revoca andrà disposta limitatamente ai detti reati ed alla pena ad essi relativa.

Le statuizioni ora rammentate vanno ricollegate piuttosto all'affermato principio - che, peraltro, non sembra rispondere agli scopi perseguiti dal legislatore con la previsione dell'istituto della revoca della sentenza di condanna per abolizione del reato - della inscindibilità dell'imputazione: una regola ritenuta ineludibilmente ostativa, per essersi formato il giudicato sull'intero oggetto del rapporto processuale concernente una singola imputazione, alla possibilità di fare ricorso al precetto di cui all'art. 673, comma 1, del codice di procedura penale (cfr. Cass., Sez. VI, 3 giugno 1994, Cappelli). Ma, più ancora, va ricordata un'ulteriore presa di posizione della Corte di cassazione che, proprio nell'ipotesi di riconoscimento in sede di cognizione ed a seguito di sentenza di applicazione della pena su richiesta della continuazione fra un reato, considerato più grave, ed altro reato meno grave, ha ritenuto applicabile l'art. 673 del codice di procedura penale in relazione a tale ultimo reato per intervenuta abolitio criminis, con eliminazione della pena relativa. Per di più additando anche le prescrizioni da adottare per la determinazione della pena residua in osservanza del principio di legalità; nel senso che alla regola secondo cui il trattamento sanzionatorio originariamente previsto per i cosiddetti reati satelliti non esplica più alcuna efficacia, deve essere sostituito il principio che, venuto meno il presupposto per l'applicabilità della detta regola costituito dalla continuazione, il reato satellite recupera la propria autonomia sotto il profilo sanzionatorio, non essendo consentito stabilire per esso una pena diversa, per specie e qualità, da quella edittale senza violare il principio di legalità (Cass., Sez. I, 7 marzo 1995, Parisi).

8. -- Così interpretata, la norma denunciata si sottrae, dunque, a qualsiasi dubbio di legittimità costituzionale, sia in relazione all'art. 3 sia in relazione all'art. 25 della Costituzione, un parametro, quest'ultimo, solo indirettamente chiamato in causa in quanto riferibile alla illegittimità del denunciato perdurare dell'assoggettamento a quella parte di pena che corrispondeva alla fattispecie abrogata o dichiarata incostituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 673 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Ascoli Piceno con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 marzo 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 3 aprile 1996.