Sentenza n. 83 del 1996

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SENTENZA N.83

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge della Regione Lazio 3 gennaio 1986, n. 1 (Regime urbanistico dei terreni di uso civico e relative norme transitorie), promosso con due ordinanze emesse: 1) il 25 marzo 1995 dal Commissario per la liquidazione degli usi civici della Toscana, del Lazio e dell'Umbria, nel procedimento civile vertente tra Filippeschi Mario contro il Comune di Sutri, iscritta al n. 406 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 1995; 2) il 27 marzo 1995 dal Commissario per la liquidazione degli usi civici della Toscana, del Lazio e dell'Umbria, nel procedimento civile vertente tra Trasatti Maria ed altri contro il Comune di Sutri, iscritta al n. 407 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visti gli atti di intervento della Regione Lazio;

udito nella camera di consiglio del 21 febbraio 1996 il giudice relatore Luigi Mengoni.

Ritenuto in fatto

 

1.- Nel corso di due analoghe controversie, promosse rispettivamente da Mario Filippeschi e da Maria Trasatti e altri contro il Comune di Sutri per opporsi alle proposte di liquidazione in via amministrativa degli usi civici gravanti su alcuni terreni di proprietà degli attori siti nel territorio comunale, il Commissario per la liquidazione degli usi civici della Toscana, del Lazio e dell'Umbria, con due ordinanze del 25 e del 27 marzo 1995, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 42, terzo comma, e 117, primo comma, Cost. (quest'ultimo in relazione alle norme di principio di cui agli artt. 5, 6 e 7 della legge 16 giugno 1927, n. 1766), questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge della Regione Lazio 3 gennaio 1986, n. 1, il quale dispone: "Allorché si procede alla liquidazione degli usi civici, le zone gravate di uso civico che, per la destinazione del piano regolatore generale o di altre norme urbanistiche oppure per la naturale espansione dell'abitato e per l'edificazione di fatto che si sia su di esse verificata in mancanza di strumento urbanistico generale, abbiano acquistato un carattere edificatorio, sono stimate secondo il loro valore attuale, tenendo conto anche dell'incremento di valore che esse hanno conseguito per effetto della destinazione o delle aspettative edificatorie".

2.- Ad avviso del giudice rimettente la disposizione, nel significato ad essa attribuito dalla prassi amministrativa, viola l'art. 117 Cost. in quanto comporta che nel caso - ricorrente nella fattispecie oggetto dei giudizi principali - di liquidazione degli usi civici mediante imposizione di canone, quest'ultimo debba essere calcolato in misura corrispondente al valore venale del terreno, anziché al valore dei diritti, come dispone l'art. 7 della legge 16 giugno 1927, n. 1766, avente valore di principio fondamentale vincolante per il legislatore regionale.

Poiché il diritto regionale applicato appare sostitutivo, non integrativo, della normativa statale, il giudice a quo, ritenendo di non avere il potere di disapplicarla, ha sospeso il giudizio per sottoporla al vaglio di costituzionalità indicando come parametri, oltre all'art. 117, anche gli artt. 3 e 42, terzo comma, Cost.

Sarebbe violato il principio di eguaglianza perché il medesimo diritto civico dovrebbe essere compensato in misura diversa da zona a zona, a seconda che sia intervenuta o no l'urbanizzazione; sarebbe violata la garanzia del diritto di proprietà perché il criterio di calcolo fondato sul valore del fondo comporterebbe l'espropriazione di una quota della rendita urbana senza indennizzo per il proprietario.

3. - Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale si è costituita la Regione Lazio chiedendo che la questione sia dichiarata infondata. In una memoria aggiunta la Regione ha dedotto, senza però riprodurla nelle conclusioni, anche l'inammissibilità della questione, sul rilievo che "l'art. 4 della legge regionale n. 1 del 1986 ha riguardo esclusivamente al valore del terreno, non anche alla valutazione del diritto di uso civico, che rimane rimessa alla vigente legge n. 1766 del 1927".

Nel merito la Regione osserva che la questione sollevata dal Commissario muove da due presupposti errati: irrilevanza del valore del terreno secondo la legislazione nazionale; riferimento esclusivo a questo valore secondo la legge regionale. In realtà, il criterio del valore del terreno, richiamato dall'art. 6 per la liquidazione mediante scorporo, concorre col criterio del valore dei diritti di uso civico anche nella liquidazione mediante imposizione di canone: trattandosi di una specie del medesimo genere, il criterio di determinazione del compenso non può non essere il medesimo. La norma regionale ha una funzione integrativa, non sostitutiva della disciplina statale.

Inconsistente, secondo la Regione, è altresì la pretesa violazione degli artt. 3 e 42 Cost. Non è leso il principio di eguaglianza, perché l'urbanizzazione di certe zone le differenzia dalle altre; non è leso il principio del terzo comma dell'art. 42 Cost., perché la liquidazione degli usi civici è una figura giuridica diversa dall'espropriazione per pubblica utilità, sia per la natura (non ablatoria) sia per il fine (ordinato a un interesse privato).

Considerato in diritto

 

1. - L'art. 4 della legge della Regione Lazio 3 gennaio 1986, n. 1, dispone: "Allorché si procede alla liquidazione degli usi civici, le zone gravate di uso civico che, per la destinazione del piano regolatore generale o di altre norme urbanistiche oppure per la naturale espansione dell'abitato e per l'edificazione di fatto che si sia su di esse verificata in mancanza di strumento urbanistico generale, abbiano acquistato un carattere edificatorio, sono stimate secondo il loro valore attuale, tenendo conto anche dell'incremento di valore che esse hanno conseguito per effetto della destinazione o delle aspettative edificatorie".

La disposizione è impugnata, con due ordinanze del medesimo tenore, dal Commissario per la liquidazione degli usi civici della Toscana, del Lazio e dell'Umbria, nel significato ad essa attribuito dalla prassi amministrativa, secondo cui, nel caso - ricorrente in entrambi i giudizi principali - di liquidazione mediante imposizione di canone, quest'ultimo si determina in proporzione al valore del terreno (tenuto conto della sopravvenuta destinazione edificatoria), mentre, secondo l'art. 7, primo comma, della legge 16 giugno 1927, n. 1766, avente valore di principio fondamentale, va commisurato "al valore dei diritti". Sarebbero così violati il limite della competenza concorrente della Regione indicato nell'art. 117, primo comma, Cost., nonché il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) e la tutela del diritto di proprietà di cui all'art. 42, terzo comma.

2. - I giudizi introdotti dalle due ordinanze, aventi ad oggetto la medesima questione, possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.

3. - La questione non è fondata nei sensi di seguito precisati.

Il giudice rimettente muove da due premesse che non possono essere condivise:

a) il significato attribuito alla norma sotto esame dalla prassi amministrativa costituisce "diritto vivente", il quale preclude al giudice la possibilità di una diversa interpretazione "adeguatrice", o almeno lo autorizza a sottoporre senz'altro alla Corte costituzionale la questione di legittimità del significato normativo applicato, indipendentemente dalla possibilità di un'altra interpretazione;

b) i due modi di liquidazione, previsti rispettivamente dagli artt. 5 e 6 e dall'art. 7 della legge n. 1766 del 1927, seguono metodi distinti di calcolo del compenso, i quali si escludono reciprocamente: nel caso di liquidazione mediante divisione (o scorporo) si determina una porzione del fondo da assegnare al Comune sulla base del valore del terreno (art. 6), nei limiti delle quote, minima e massima, fissate dall'art. 5; nel caso di liquidazione mediante imposizione di canone (art. 7), unico referente di calcolo è il valore dei diritti di uso civico estinti.

Alla premessa sub a) va obiettato che la prassi amministrativa non è tale, né nella forma di regolamenti esecutivi o di circolari (cfr. sentenza n. 86 del 1982), né, tanto meno, nella forma di singoli provvedimenti, da precludere al giudice una interpretazione diversa. Essa può valere soltanto come dato fattuale concorrente con i dati linguistici del testo normativo ad orientare l'interpretazione, sempreché si mantenga nei limiti consentiti dal dettato della legge (cfr. sentenza n. 177 del 1973) e non trovi controindicazioni nella giurisprudenza.

La premessa sub b) aderisce a una posizione del Consiglio di Stato (cfr. Sez. VI, n. 232 del 1950) che oggi può considerarsi superata. Poichè l'affrancazione mediante imposizione di canone è un surrogato del modo di liquidazione previsto dall'art. 5 della legge del 1927 (rispetto al quale ha carattere di eccezione: arg. ex art. 12, primo comma, del regolamento di esecuzione, approvato con r.d. 26 febbraio 1928, n. 332), il canone capitalizzato deve risultare pari al valore della quota del fondo che sarebbe spettata al Comune se si fosse proceduto all'affrancazione mediante divisione, di guisa che pure nel caso dell'art. 7 della legge n. 1766 è rilevante quale coefficiente di calcolo il valore del fondo, come si argomenta a chiare lettere dall'art. 10, relativo all'affrancazione di terre di uso civico occupate. Viceversa del valore dei diritti estinti dovrà tenersi conto in entrambi i casi quale criterio concorrente di proporzionamento della quota o del capitale del canone tra il minimo e il massimo indicati dall'art. 5. I due criteri di calcolo non già si escludono, bensì si integrano a vicenda.

4. - Dopo queste precisazioni, l'interpretazione della norma impugnata procede pianamente in termini scevri da ogni contrasto con i parametri costituzionali evocati. La norma non incide sul metodo di calcolo del compenso dell'affrancazione, ma si limita a precisare che l'in- cremento di valore prodotto da una sopravvenuta destinazione edificatoria, a differenza di quello prodotto dalle migliorie apportate dal proprietario, non va dedotto dal valore del fondo ai fini della determinazione del compenso, la quale poi seguirà secondo le regole degli artt. 5, 6 e 7 della legge statale.

La non deducibilità di questo tipo di incremento di valore risponde a equità. L'affrancazione libera in favore del proprietario un terreno non più agricolo o boschivo o pascolivo, ma divenuto area fabbricabile, che non potrebbe essere sfruttato, secondo la nuova più lucrosa destinazione, senza l'estinzione dei diritti di uso civico da cui è gravato: è giusto, perciò, che della sopravvenienza profitti proporzionalmente anche la popolazione titolare dei diritti estinti.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge della Regione Lazio 3 gennaio 1986, n. 1 (Regime urbanistico dei terreni di uso civico e relative norme transitorie), sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 42, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dal Commissario per la liquidazione degli usi civici della Toscana, del Lazio e dell'Umbria con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Conusulta, il 7 marzo 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Luigi MENGONI, Redattore

Depositata in cancelleria il 19 marzo 1996.