Sentenza n. 82 del 1996

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SENTENZA N.82

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 19 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei Tribunali amministrativi regionali) promosso con ordinanza emessa l'11 novembre 1994 dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia sul ricorso proposto dall'Istituto Bancario San Paolo di Torino s.p.a. contro il Comune di Santo Stefano Ticino ed altro, iscritta al n. 244 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 febbraio 1996 il giudice relatore Riccardo Chieppa.

Ritenuto in fatto

1.-- Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia ha sollevato -- in riferimento agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione -- questione di legittimità costituzionale dell'art. 19 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei Tribunali amministrativi regionali), "nella parte in cui, per effetto del rinvio alle norme di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato (artt. 35 del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054 e 6 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642), non consente alla parte di stare in giudizio con l'assistenza di un difensore munito di procura generale alle liti".

La questione si radica nel corso di un giudizio, promosso dall'Istituto Bancario S. Paolo di Torino s.p.a. contro il Comune di Santo Stefano Ticino nonché contro la Banca Popolare di Milano, avente per oggetto l'annullamento della deliberazione del Consiglio comunale con cui è stata affidata alla Banca popolare di Milano la gestione del servizio di Tesoreria e Cassa per il periodo 1994-1998.

Nella fase decisoria della causa il giudice a quo rileva che il ricorso introduttivo del giudizio risulta sottoscritto dal solo difensore, munito di procura generale alle liti. Senonché l'art. 35 del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054 nonché l'art. 6 del r.d. 17 agosto 1907, n. 642, applicabili -- per effetto del rinvio contenuto nell'art. 19, primo comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 -- anche al giudizio davanti al Tribunale amministrativo regionale, dispongono che il ricorso, sia giurisdizionale sia amministrativo, deve essere sottoscritto dalla parte ricorrente e firmato da un avvocato; in alternativa il ricorso può essere sottoscritto dal solo avvocato purché munito di mandato speciale.

Il giudice a quo è ben consapevole del fatto che, in assenza di sottoscrizione del ricorso da parte dell'interessato, la giurisprudenza ha costantemente affermato la insufficienza della procura generale ad lites, sia per i giudizi proposti al Consiglio di Stato quale giudice unico, prima dell'avvento dei Tribunali amministrativi regionali, sia per i giudizi promossi dinanzi al Tribunale amministrativo regionale dopo la loro istituzione, ed ha conseguentemente ritenuto la inammissibilità del ricorso e della costituzione in giudizio, per difetto di valida rappresentanza processuale, rilevabile in ogni stato e grado del giudizio. Il remittente, tuttavia, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 19 citato nella parte in cui -- attraverso un "rinvio globale ed indiscriminato" alle norme che regolano il procedimento davanti al Consiglio di Stato (e quindi agli artt. 35 del regio decreto n. 1054 del 1924 e 6 e 17 del regio decreto n. 642 del 1907) -- impone la necessità della procura speciale anche per il processo amministrativo di primo grado.

In particolare -- premessa la rilevanza della questione, ai fini della definizione del giudizio, attesoché l'applicazione della norma "sospettata" precluderebbe l'esame del merito e quindi della fondatezza della pretesa sostanziale azionata -- il Tribunale amministrativo regionale remittente ritiene che l'art. 19 succitato contrasti con gli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione.

Al riguardo si rileva che l'introduzione del doppio grado di giudizio, nell'ambito della giurisdizione amministrativa, ha agevolato l'accesso alla giustizia amministrativa, accentuando il controllo giurisdizionale sull'attività della pubblica amministrazione e correlativamente moltiplicando "le occasioni di contenzioso, cui si connettono ovvie esigenze di tutela giudiziale, costituzionalmente garantite" (artt. 24 e 113 della Costituzione).

Ciò posto, il giudice a quo ritiene che i Tribunali amministrativi regionali siano assimilabili ai giudici che nell'ambito del processo civile svolgono funzioni di merito e dinanzi ai quali -- prescindendo dalle peculiarità del giudizio pretorile e di conciliazione (art. 82 del codice di procedura civile) -- sarebbe "generalizzata" la regola che consente di stare in giudizio col ministero di un difensore munito, indifferentemente, di procura generale o speciale (art. 83 del codice di procedura civile).

Ad avviso del giudice a quo, la procura generale sarebbe uno strumento atto a facilitare la difesa della parte affrancandola, per così dire, dalla necessità di conferire volta per volta apposito mandato. Il che assumerebbe particolare rilievo nell'ipotesi di enti giuridici, strutturalmente complessi (ipotesi ricorrente nel giudizio a quo), i quali, operando sistematicamente e quotidianamente nel mondo giuridico, avrebbero particolare necessità di assistenza legale e giudiziale continua, "senza l'intralcio derivante dalla reiterazione di un mandato ad litem per ogni atto che lo richieda".

Queste esigenze, che si porrebbero come "manifeste" nel processo civile, sarebbero, altresì, presenti nel processo amministrativo, in ragione dello sviluppo del contenzioso amministrativo, come più sopra evidenziato.

Il mandato speciale, invece, ovvero la necessità del mandato speciale -- rispondendo alla esigenza di richiamare l'attenzione dell'agente sull'atto che compie e quindi attestando la volontà del ricorrente di provocare l'esercizio della tutela giurisdizionale, in relazione ad una specifica e determinata controversia -- connoterebbe, nell'ordinamento positivo, le controversie instaurate dinanzi alle giurisdizioni superiori.

Ma, secondo il giudice a quo, sarebbe illogico applicare al Tribunale amministrativo regionale le regole proprie delle giurisdizioni superiori, quale quella che richiede il mandato speciale e che sarebbe, peraltro, costantemente collegata alla necessità di avvalersi di avvocato iscritto nell'albo speciale delle giurisdizioni superiori. Regola, quest'ultima, non valevole per il Tribunale amministrativo regionale dove la parte può stare in giudizio anche con il ministero di un procuratore legale (art. 19, secondo comma, della legge n. 1034 del 1971). Tutto ciò, secondo il remittente violerebbe l'art. 3 della Costituzione sotto un duplice profilo: innanzi tutto perché sarebbe irrazionale "accomunare" e quindi disciplinare allo stesso modo situazioni obiettivamente diverse. In secondo luogo si verificherebbe una disparità di trattamento degli utenti, nelle condizioni di accesso alla giurisdizione, a seconda che venga adito il giudice civile ovvero quello amministrativo, con conseguente violazione del principio di uguaglianza.

Secondo il giudice a quo detta disparità sarebbe, altresì, apprezzabile anche con riferimento agli artt. 24 e 113 della Costituzione. In particolare, la preclusione della procura generale nei giudizi amministrativi concreterebbe un ostacolo alla difesa giudiziale degli interessi legittimi la cui "diversità ontologica", rispetto ai diritti soggettivi, non costituirebbe ragione sufficiente per rendere più difficoltosa la difesa giudiziale. E ciò avuto, altresì, riguardo alla pari sindacabilità degli atti della pubblica amministrazione, dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa, quale che sia la natura della posizione soggettiva incisa (art. 113 della Costituzione).

2.-- Nel giudizio dinanzi alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la inammissibilità "almeno in parte" e comunque per la non fondatezza della questione.

In ordine all'inammissibilità, l'Avvocatura ritiene che l'art. 6 del r.d. 17 agosto 1907, n. 642 cui rinvia l'art. 19 della legge n. 1034 del 1971, non può essere sottoposto al sindacato di questa Corte perché atto regolamentare.

Sicché il giudizio di costituzionalità dovrebbe riguardare soltanto l'art. 35, primo comma, del testo unico approvato con r.d. 26 giugno 1924, n. 1054.

Quanto ai parametri invocati, l'Avvocatura ritiene che non sussiste, nella specie, la identità delle situazioni poste a raffronto e che quindi non possa evocarsi l'art. 3 della Costituzione.

Con riguardo agli artt. 24 e 113 della Costituzione, si rileva che è compito del legislatore disciplinare le modalità di svolgimento delle attività processuali e che, comunque, il fatto che nei giudizi, davanti al Tribunale amministrativo regionale, non sia prevista la procura generale non costituirebbe un ostacolo alla tutela giudiziale degli interessi legittimi.

L'Avvocatura sottolinea, altresì, che l'art. 35 succitato è stato interpretato (anche prima dell'istituzione dei Tribunali amministrativi regionali) nel senso della inidoneità della procura generale e della conseguente nullità o inammissibilità del ricorso. Da ultimo, inoltre, si osserva che -- attesa la struttura del processo amministrativo, fondamentalmente connotabile come processo di impugnazione di atti dell'autorità amministrativa -- apparirebbe razionale e giustificata una maggiore e più specifica responsabilizzazione della parte ricorrente.

In ogni caso, comunque, la "intrinseca diversità" del processo civile rispetto a quello amministrativo escluderebbe la comparabilità e trasponibilità delle rispettive normative processuali.

Considerato in diritto

1.-- La questione sottoposta all'esame della Corte costituzionale -- con l'ordinanza 11 novembre 1994 del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia -- riguarda l'art. 19 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, nella parte in cui -- per effetto del rinvio alle norme che regolano la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato (art. 35 del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054 e art. 6 del r.d. 17 agosto 1907, n. 642) -- non consente alla parte di stare in giudizio con l'assistenza di un difensore munito di procura generale alle liti. Detta mancata previsione violerebbe, secondo il giudice a quo, gli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione ed in particolare: a) l'art. 3 della Costituzione, attesa la sostanziale assimilabilità del giudizio davanti al Tribunale amministrativo regionale al giudizio civile di merito, per il quale ultimo vige la regola che consente di stare in giudizio col ministero di un difensore munito, indifferentemente, di procura generale o speciale, ex art. 83 del codice di procedura civile; b) l'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della irrazionalità della disposizione censurata, attesoché, nell'ordinamento positivo, la procura speciale connoterebbe le controversie instaurate dinanzi alle giurisdizioni superiori; c) l'art. 24 della Costituzione, in quanto la predetta irrazionale disparità si risolverebbe in un ostacolo alla difesa giudiziale degli interessi legittimi, vulnerando, altresì, l'art. 113 della Costituzione, ovvero la eguale sindacabilità degli atti della pubblica amministrazione, dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa, quale che sia la natura della posizione soggettiva incisa.

2.-- Preliminarmente deve essere disattesa l'eccezione di inammissibilità dedotta dall'Avvocatura generale dello Stato in ordine all'art. 6 del r.d. 17 agosto 1907, n. 642 cui rinvia l'art. 19 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, avuto riguardo al fatto che il predetto art. 6 è comunque norma di dettaglio rispetto all'art. 35 del t.u. 26 giugno 1924, n. 1054 cui fa espresso rinvio la disposizione censurata dal giudice a quo.

Nel merito la questione, come prospettata nei diversi profili dal giudice a quo, è priva di fondamento, in quanto si basa su di un erroneo presupposto, cioè che la rappresentanza processuale, quale prevista nel sistema di diritto processuale amministrativo (nella specie per i giudizi avanti ai Tribunali amministrativi regionali), si concreti in un ostacolo alla difesa giudiziale degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi, ostacolo non sussistente nel processo civile (in particolare nei gradi di merito).

Innanzitutto, il sistema proprio del processo amministrativo assicura, per il profilo della rappresentanza processuale, che qui interessa, una serie di alternative più ampie rispetto al processo civile, in quanto non vi è una previsione generale di necessità di conferimento di rappresentanza al difensore (avvocato o procuratore nel processo amministrativo di primo grado), con obbligo di rilasciare procura al difensore, essendo la parte libera di firmare il ricorso (e la firma secondo una giurisprudenza costante può valere se apposta in qualsiasi parte del ricorso, anche nella sola procura a margine o in calce al ricorso), purché vi sia contestualmente la firma dello stesso ricorso da parte di un avvocato (o procuratore per i giudizi avanti ai Tribunali amministrativi regionali). In questo ultimo caso il difensore esercita solo funzione di assistenza, cioè coadiuva e non sostituisce la parte e ciò a garanzia tecnico-giuridica del ricorso stesso. La procura (e questa nel giudizio amministrativo deve essere speciale, con una interpretazione di collegamento molto ampia) è, invece necessaria qualora la parte non intervenga personalmente con la firma del ricorso (sottoscrizione del ricorso).

Peraltro, deve essere sottolineato che l'esigenza di procura speciale non è una previsione esclusiva né delle giurisdizioni superiori, né del processo amministrativo, a parte alcuni casi eccezionali del processo civile, riscontrandosi anche in non isolate ipotesi di impugnazioni, opposizioni e istanze in campo processuale penale.

In secondo luogo non esiste affatto un principio (costituzionalmente rilevante) di necessaria uniformità di regole processuali tra i diversi tipi di processo, rispettivamente davanti alla giurisdizione civile e alla giurisdizione amministrativa o alle giurisdizioni speciali sopravvissute, potendo i rispettivi ordinamenti processuali differenziarsi sulla base di una scelta razionale del legislatore, derivante dal tipo di configurazione del processo e dalle situazioni sostanziali dedotte in giudizio (sentenza n. 191 del 1985), anche in relazione all'epoca della disciplina e alle tradizioni storiche di ciascun procedimento, avuto riguardo, nella specie, al fatto che il processo amministrativo è strutturato come processo prevalentemente di impugnazione.

In altri termini il legislatore può regolare in modo non rigorosamente uniforme i modi della tutela giurisdizionale a condizione che non siano vulnerati i principi fondamentali di garanzia ed effettività della tutela medesima (sentenze n. 251 del 1989; n. 38 del 1988; n. 49 del 1979).

Neppure esiste la necessità (sotto il profilo dell'art. 3 della Costituzione) di differenziare, in ordine al conferimento della procura, la disciplina dei procedimenti di primo grado rispetto a quelli di grado superiore, come avviene nell'ambito del processo civile. In realtà, come già sopra osservato, l'esistenza di una differente tipologia di processi, legata alla obiettiva diversità delle situazioni e alle peculiari caratteristiche dei singoli procedimenti, non contrasta con l'art. 24 della Costituzione, non essendovi una necessità di coincidenza con la norma del processo civile.

Infine, nella realtà vivente del processo amministrativo non è esclusa la considerazione di situazioni che esigono, specie per le persone giuridiche, la presenza anche decentrata di soggetti, muniti di rappresentanza sostanziale, secondo gli ordinamenti dei singoli soggetti pubblici o privati; così, è ammessa la rappresentanza negoziale in base a mandato o a conferimento di funzioni institorie di preposizione a un determinato settore di attività o a sede, con poteri sostanziali anche in ordine alla promozione di liti e con conseguente facoltà di firmare il ricorso con la contestuale assistenza di legale o di rilasciare la relativa procura speciale.

3.-- L'ordinanza del giudice a quo sottolinea un aspetto, non rilevante tuttavia in questa sede in quanto rientra nella mera discrezionalità legislativa, e cioè quello di facilitare ulteriormente l'accesso alla giustizia agevolando e semplificando le forme di rappresentanza processuale delle parti.

Infatti è compito esclusivo del legislatore quello di aggiornare taluni aspetti processuali del mandato al difensore, nel campo non solo della giurisdizione amministrativa (ma anche di quella civile), eliminando discrasie dissonanti con una società, quale quella attuale, improntata ad esigenze di dinamismo e speditezza.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 19 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei Tribunali amministrativi regionali), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, con ordinanza 11 novembre 1994.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Riccardo CHIEPPA, Redattore

Depositata in cancelleria il 19 marzo 1996.