Sentenza n. 462 del 1995

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SENTENZA N. 462

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO, Presidente

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, 3, comma 1, 5, commi 1, 2, 3 e 4, 6 e 8, comma 3, della deliberazione legislativa della Regione Toscana riapprovata il 7 marzo 1995 dal Consiglio regionale, avente per oggetto: "Attribuzione ai comuni e alle province di beni immobili regionali", promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 27 marzo 1995, depositato in cancelleria il 5 aprile 1995, ed iscritto al n. 20 del registro ricorsi 1995. Visto l'atto di costituzione della Regione Toscana; udito nell'udienza pubblica del 3 ottobre 1995 il Giudice relatore Cesare Ruperto; uditi l'Avvocato dello Stato Oscar Fiumara per il ricorrente, gli avv.ti Massimo Ramalli e Fabio Lorenzoni per la Regione.

Ritenuto in fatto

1. Con ricorso notificato il 27 marzo 1995, il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato gli artt. 1, comma 2, 3, comma 1, 5, 6 ed 8, comma 3, della deliberazione legislativa approvata il 31 gennaio 1995 dal Consiglio regionale della Toscana e riapprovata con modificazioni, a seguito di rinvio governativo, in data 7 marzo 1995, concernente "Attribuzione ai comuni e alle province di beni immobili regionali", deducendo la violazione degli artt. 117, 119, primo e quarto comma, 42, primo, secondo e terzo comma, e 121, quarto comma, della Costituzione, in riferimento agli artt. 826 e 832 del codice civile. Premesso che l'art. 1, comma 1, della deliberazione legislativa impugnata prevede che i beni immobili appartenenti al patrimonio disponibile della regione possono essere attribuiti in proprietà, a titolo gratuito, ai comuni ed alle province che li utilizzano direttamente per l'erogazione di servizi o per lo svolgimento di funzioni istituzionali, il ricorrente censura in primo luogo l'art. 5 della predetta deliberazione legislativa. Il quale nel sancire che gli enti cessionari, una volta acquisita la proprietà dei menzionati beni, sono obbligati a mantenerne la destinazione (comma 1), con divieto di alienazione e di costituzione su di essi di diritti reali o personali senza la previa autorizzazione del Consiglio regionale (comma 2), e nel sanzionare l'eventuale intervenuto mutamento di destinazione con il riacquisto della proprietà da parte della regione (comma 3), per effetto di un decreto del Presidente della Giunta regionale, costituente titolo per la relativa trascrizione nei registri immobiliari e per la volturazione catastale del bene a favore della regione (comma 4) contrasta con i richiamati parametri costituzionali, ed in particolare con il "limite del diritto privato", ponendo all'ente proprietario vincoli (di destinazione e di disposizione) tali da impedire il pieno esercizio delle facoltà dominicali di cui all'art. 832 del codice civile. Ciò darebbe luogo ad una figura della proprietà diversa da quella "tipica", con la contestuale introduzione, in violazione di una riserva di legge statale di un'ipotesi di espropriazione senza indennizzo, realizzata mediante un atto (non chiaramente qualificabile come di diritto amministrativo ovvero privato) produttivo di effetti traslativi della proprietà e suscettibile di essere trascritto, con conseguente ingerenza del legislatore regionale nella disciplina delle trascrizioni immobiliari. Rilevato, inoltre, che l'art. 1, comma 2, del provvedimento normativo impugnato contempla la previsione della possibilità per l'ente regionale di attribuire in proprietà ai comuni ed alle province, a titolo oneroso, gli altri beni del patrimonio disponibile "con le condizioni e le procedure previste dalla presente legge", il ricorrente impugna altresì con esclusivo riferimento agli artt. 117 e 119, primo e quarto comma, della Costituzione gli artt. 3, comma 1, 6 ed 8, comma 3, della deliberazione legislativa de qua, anch'essi ritenuti lesivi (seppure in forma meno grave) della tipica configurazione del diritto di proprietà, là dove gli stessi prevedono rispettivamente una irrazionale limitazione temporale alla facoltà di disposizione dei beni da parte della regione proprietaria, alla quale sarebbe vietato di venderli altrimenti entro un anno dalla entrata in vigore della legge (art. 3, comma 1), un divieto di alienazione e di costituzione di diritti di superficie posto a carico degli enti acquirenti per il periodo di venti anni (art. 6), nonchè l'apposizione ad opera del Consiglio regionale deliberante la cessione di "condizioni" e "riserve" all'attribuzione dei beni, che non parrebbero dover risultare anche dal rogito notarile di compravendita (art. 8. comma 3).

2. Si è costituita in giudizio la Regione Toscana per sostenere l'infondatezza del ricorso. Quanto alle censurate disposizioni di cui all'art. 5 della deliberazione legislativa impugnata, sostiene la regione che esse non hanno alcun effetto conformativo del diritto di proprietà, quale disciplinato dall'art. 832 del codice civile, poichè il vincolo finalistico impresso ed assicurato ai beni oggetto del trasferimento di proprietà valutato anche alla luce della peculiare funzione assunta dalla regione nel sistema delle autonomie locali in virtù della legge 8 giugno 1990, n. 142 indica chiaramente come essi siano destinati a far parte del patrimonio indisponibile degli enti cessionari, ai sensi dell'art. 826 del codice civile. Per cui, venuta meno la loro concreta destinazione, è pienamente legittima (e non qualificabile in termini di espropriazione senza indennizzo) la previsione del rientro di siffatti beni, per effetto di un provvedimento amministrativo, nel patrimonio disponibile della regione dal quale sono usciti soltanto per soddisfare esigenze pubbliche. Analoghe considerazioni vengono, inoltre, svolte dalla regione convenuta a sostegno della legittimità anche delle ulteriori disposizioni censurate, relative alla cessione a titolo oneroso dei beni facenti parte del patrimonio disponibile (con condizioni e procedure previste in quanto applicabili alla diversa categoria di beni pubblici), le quali non pongono indebiti limiti alla proprietà privata, attesa la loro classificazione nell'àmbito delle leggi speciali contemplate dal secondo comma dell'art. 830 del codice civile.

3. In una memoria depositata nell'imminenza dell'udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri contesta il tentativo della regione convenuta di ricondurre la normativa sub judice entro lo schema concettuale del patrimonio indisponibile e precisa che derivando l'indisponibilità del singolo bene, ex art. 826 del codice civile, da un atto amministrativo, di competenza dell'ente proprietario, che ne imprime la "destinazione" ad ufficio o servizio e che viene meno per effetto di un "atto contrario" il quale ne fa cessare la "destinazione" l'attribuzione ad un organo di un altro ente (nella specie, il Presidente della Giunta regionale) del potere di "dichiarare il trasferimento del bene nel patrimonio regionale" in conseguenza dell'"atto contrario" compiuto dall'ente cessionario, sembra costituire ingerenza asistematica e quindi non consentita, idonea, tra l'altro, a produrre l'effetto di un antieconomico irrigidimento "da manomorta" delle situazioni in essere. Pertanto la deliberazione legislativa in esame introdurrebbe, in parte qua, un vincolo singulatim, contrario alla disciplina civilistica che stabilisce che i beni del patrimonio indisponibile possono essere sottratti alla loro destinazione attraverso leggi di settore che riguardano categorie generali di beni. Rilevata, inoltre, l'inconferenza del richiamo operato dalla regione costituita all'art. 830, secondo comma, del codice civile, riguardante solo gli enti pubblici non territoriali, il ricorrente riafferma la gravità delle deviazioni relative ai "modi di acquisto" delle proprietà contenute negli artt. 1, comma 2, e 5, comma 4, della deliberazione de qua.

4. In altra memoria depositata nell'imminenza dell'udienza, la Regione Toscana conferma come non possa essere disconosciuta al legislatore regionale la possibilità di disciplinare in ordine ai propri beni, appartenenti al patrimonio disponibile, anche con riferimento alla loro destinazione a fini pubblici. Ciò anche in relazione a quanto affermato dalla Corte costituzionale (sent. n. 379 del 1994) circa la attuabilità attraverso la legislazione regionale della riserva di legge stabilita dall'art. 42 della Costituzione, per quanto attiene alla normazione conformativa del contenuto dei diritti di proprietà allo scopo di assicurare la funzione sociale. Sottolinea, inoltre, la regione costituita la configurabilità della propria potestà di porre una disciplina del demanio e del patrimonio regionale, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 119 della Costituzione, ribadendo la piena legittimità e razionalità rispetto alla finalità di impedire eventuali azioni speculative degli enti cessionari dell'intera disciplina dettata in materia di cessione a titolo oneroso degli altri beni dell'Amministrazione regionale, che giustifica i (peraltro temporanei e limitati) vincoli imposti.

Considerato in diritto

1. Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato alcune norme della deliberazione legislativa della Regione Toscana, riapprovata il 7 marzo 1995, concernente l'attribuzione ai comuni e alle province di beni immobili regionali. In particolare è sospettato d'illegittimità costituzionale l'art. 5 in relazione agli artt. 42, primo, secondo e terzo comma, 117, 119, primo e quarto comma, e 121, quarto comma, della Costituzione, nonchè agli artt. 826 e 832 del codice civile, in quanto imporrebbe all'ente divenuto proprietario vincoli di destinazione e di disposizione del bene ceduto a titolo gratuito, ostativi al pieno esercizio delle facoltà dominicali e creativi di una specie di proprietà diversa da quella tipica. Con la stessa norma sarebbe stata altresì introdotta una forma di espropriazione senza indennizzo, attraverso un atto produttivo di effetti traslativi e suscettibile di essere trascritto. Sono inoltre censurati, in relazione agli artt. 117 e 119, primo e quarto comma, della Costituzione: l'art. 1, comma 2, nella parte in cui contempla la previsione della possibilità per la regione di attribuire in proprietà ai predetti enti, a titolo oneroso, gli altri beni del patrimonio disponibile "con le condizioni e le procedure previste" dall'impugnato provvedimento normativo; l'art. 3, comma 1, in quanto prevede un limite temporale alla possibilità di disporre dei propri beni da parte della regione, che non potrebbe altrimenti alienarli entro un anno dall'entrata in vigore della legge; l'art. 6, là dove pone un divieto di alienazione e di costituzione di diritti di superficie a carico degli enti acquirenti per il periodo di venti anni; l'art. 8, comma 3, secondo cui l'apposizione, ad opera del consiglio regionale deliberante la cessione, di "condizioni" e "riserve" all'attribuzione dei beni non parrebbe dover risultare anche dal rogito notarile di compravendita.

2. Le censure non meritano accoglimento.

2.1. L'art. 1 della deliberazione legislativa in argomento, nell'enunciarne le finalità, pone due distinti principi: si afferma anzitutto nel comma 1, che i beni immobili del patrimonio disponibile della regione utilizzati direttamente dai comuni e dalle province per l'erogazione dei servizi o per lo svolgimento di funzioni istituzionali possono essere attribuiti in proprietà a titolo gratuito agli enti stessi. Nel comma 2 è poi prevista la possibilità che gli altri beni del patrimonio disponibile della regione vengano attribuiti in proprietà ai comuni e province a titolo oneroso, secondo le modalità descritte nei successivi arti coli. Alla prima delle due disposizioni (non assoggettata a censure di incostituzionalità) si riferisce l'impugnato art. 5, che obbliga gli enti cessionari al mantenimento della destinazione de qua, condizionando altresì l'alienazione dei beni e la costituzione di diritti reali o personali al con senso della regione. In caso di mutamento di destinazione, accertato secondo un procedimento da svolgersi in contraddittorio con i rappresentanti dell'ente interessato, la regione riacquista la proprietà del bene ed il relativo decreto di trasferimento del presidente della giunta costituisce titolo per la trascrizione. Alla seconda disposizione (censurata autonomamente) si ricollega la disciplina riguardante i tempi, le condizioni e le modalità del procedimento di trasferimento del bene, di cui agli impugnati artt. 3, comma 1, 6 ed 8, comma 3.

2.1.1. Nell'esercizio della propria potestà legislativa in tema di beni patrimoniali, direttamente derivantele dall'art. 119, ultimo comma, della Costituzione, la Regione Toscana ha ritenuto, con la norma dell'art. 1, primo comma, dell'impugnata deliberazione, di prevedere la possibilità d'attribuire la proprietà dei beni immobili facenti parte del suo patrimonio disponibile, a quei comuni e province che ne fossero gli utilizzatori attuali e diretti; e ciò sull'evidente premessa della configurabilità del nesso di strumentalità tra il bene stesso e l'erogazione di servizi o lo svolgimento di funzioni istituzionali. Il trasferimento si attua tra soggetti pubblici, ha ad oggetto beni già destinati a pubbliche finalità e si giustifica in ragione della permanenza di tale destinazione. Il perseguimento di evidenti economie di gestione si coniuga con la salvaguardia dell'interesse generale che si intende garantire attraverso il controllo sull'immutabilità della detta destinazione, il cui venir meno priva di causa il trasferimento determinando il riacquisto della proprietà in capo alla regione cedente. L'intera vicenda nella quale gli strumenti privatistici risultano destinati a produrre effetti circoscritti ai soli enti coinvolti riveste dunque un carattere marcatamente pubblicistico, avente come oggetto esclusivamente un rapporto tra enti territoriali, tipico dell'attività di gestioneamministrazione del patrimonio, a pieno titolo ricompresa tra le funzioni regionali. A tale àmbito resta viceversa del tutto estraneo l'approccio del ricorrente, che appare fuorviante siccome basato su una lettura delle norme in chiave di compatibilità delle stesse con la disciplina di cui agli artt. 826 e 832 del codice civile e, più in generale, motivato da un'asserita invasione della sfera del diritto privato, inteso come limite alla potestà legislativa regionale. Questa Corte ha da tempo e più volte precisato che "il limite del diritto privato" si basa sull'esigenza che sia assicurata in tutto il territorio nazionale una uniformità di disciplina e di trattamento riguardo ai rapporti intercorrenti tra i soggetti privati, i quali attengono allo svolgimento delle libertà giuridicamente garantite e sono dunque legati al correlativo requisito costituzionale del godimento di tali libertà in condizioni di formale eguaglianza, ai sensi degli art. 2 e 3 della Costituzione (v. in particolare la sentenza n. 35 del 1992). Nella normativa in esame detti rapporti non vengono in alcun modo implicati, essendo essa volta a disciplinare solo le relazioni fra enti pubblici territoriali in modo da consentire ad uno di essi (quello di livello superiore) d'imporre all'altro la conservazione del ruolo strumentale che è proprio di determinati suoi beni. L'intera deliberazione legislativa deve essere considerata nell'ampio ed interconnesso quadro di dette relazioni, necessariamente dinamiche, e non già isolando staticamente un singolo istituto giuridico, proprio perchè si è in presenza di semplici norme di azione poste dalla regione per mantenere l'indirizzo di beni già facenti parte del suo patrimonio ad una finalità raggiungibile attraverso l'osservanza di determinate condizioni, da versarsi negli atti pubblici con cui i beni stessi vengano trasferiti.

2.1.2. Osservate in tale prospettiva, le previsioni di cui all'art. 5 della denunziata deliberazione legislativa, non solo si sottraggono ai dubbi di legittimità costituzionale avanzati dal ricorrente, siccome concernenti unicamente l'area dell'organizzazione pubblica regionale (anche in considerazione della nuova veste assunta dalla regione quale centro propulsore e di complessivo coordinamento dell'intero sistema delle autonomie locali, ai sensi dell'art. 3 della legge 8 giugno 1990, n. 142: v. sentenza n. 343 del 1991), ma risultano altresì conformi alla generale disciplina civilistica cui esse alludono. Ciò, in quanto è la stessa destinazione già impressa ai beni in oggetto a determinare il regime giuridico cui essi devono essere sottoposti, allo scopo conservativo della loro strumentalità, attraverso l'assoggettamento a quelle "regole particolari" ammesse dall'art. 828, primo comma, del codice civile. Del resto, la verifica della permanenza di tali fini è implicita nella possibilità per l'ente cessionario di ottenere dalla regione il consenso alla vendita: previsione, questa, che circoscrive temporalmente il relativo divieto e impedisce il contrasto con l'art. 1379 del codice civile, la cui mancata evocazione da parte della ricorrente appare come riprova dell'oggettiva inadeguatezza di una lettura in termini squisitamente privatistici di un complesso di prescrizioni aventi al contrario natura pubblicistica. Talchè, anche la paventata limitazione del diritto dominicale ravvisata nella possibilità di riacquisto del bene, sancita per il caso di mutamento di destinazione rappresenta solo un corollario del vincolo a fini pubblici che costituisce la ratio della cessione e ne conforma il titolo traducendosi in un obbligo di conservazione per l'ente proprietario. Ragion per cui l'eventuale vicenda risolutiva non può essere vista nella prospettata ottica di una espropriazione senza indennizzo, ricollegandosi invece, esclusivamente, ad una condotta inadempiente del soggetto onerato, della quale vengono sanzionati gli effetti.

2.1.3. È poi appena il caso di rilevare come il decreto del Presidente della giunta, che dispone il riacquisto da parte della stessa, è provvedimento avente efficacia traslativa, idoneo quindi ad integrare uno degli atti trascrivibili ai sensi dell'art. 2645 del codice civile, con la cui norma il legislatore ha inteso escludere la tassatività dell'indicazione contenuta nel precedente art. 2643, collegando l'onere della trascrizione piuttosto agli effetti (costitutivi o traslativi) che alla natura dell'atto.

2.1.4. Agevole è altresì ritenere che nè la lettera nè la ratio dell'art. 3, comma 1, della denunciata deliberazione legislativa soccorrano la tesi peraltro solo assertivamente enunciata dal ricorrente che lo spatium deliberandi di un anno concesso agli enti locali precluda di per sè alla regione di disporre diversamente degli immobili entro tale periodo.

2.1.5. Quanto infine al rischio ventilato in memoria che la normativa de qua produca un irrigidimento "da manomorta" delle situazioni in atto, è evidente come l'argomento si traduca, più che in una censura in relazione al peraltro non evocato art. 97 della Costituzione, in una critica circa il merito delle scelte del legislatore regionale.

2.2. Di segno diverso è la previsione di cui al citato comma 2 dell'art. 1, cui fa riscontro l'impugnativa dell'art. 6, che impone ai comuni e alle province l'obbligo di non alienare per un periodo di 20 anni i beni ad essi venduti e di non costituire su di essi diritti di superficie se non con l'autorizzazione della regione. Premesso che il comma 2 dell'art. 1 palesemente si sottrae a censure di incostituzionalità (peraltro neppure prospettate in modo diretto), poichè i vincoli e la procedimentalizzazione della vicenda traslativa ivi disciplinata risultano del tutto ragionevolmente connaturati ad essa, resta solo da prendere in considerazione l'art. 6, direttamente investito da censura. Ma anche con riguardo ad esso va osservato che, pur in assenza del vincolo di destinazione, non è possibile prescindere dalla qualità dei soggetti e dalla loro vocazione al perseguimento di fini d'interesse generale. Se la mancanza dell'anzidetto connotato di strumentalità motiva l'onerosità del trasferimento ed esclude in radice la possibilità della retrocessione della proprietà alla regione cedente, appare viceversa evidente e giustificato l'intento di limitare la circolazione dei beni, siccome volto ad impedire possibili speculazioni e a non ridurre la vendita entro una logica puramente dismissiva del patrimonio. Anche in questo caso l'utilizzazione della categoria civilistica della compravendita ed il conseguente richiamo ad oneri e condizioni servono a finalità prevalentemente nominalistiche. Ben lungi dal voler alterare gli istituti o modificare gli schemi entro cui debbono attuarsi i rapporti giuridici, l'indicazione di specifiche forme contrattuali che nel caso in esame risultano peraltro rispettate è operata al fine di meglio descrivere, in termini di tecnica legislativa, il passaggio nella titolarità dei beni tra soggetti pubblici. Fenomeno, quest'ultimo, non infrequente nel disegno di attuazione delle regioni a statuto ordinario, nelle leggi di riforma economico-socia le, nonchè nelle ipotesi di soppressione di enti.

2.3. Infine è chiaro che l'atto pubblico di trasferimento contenente, ai sensi del censurato art. 8, comma 3, l'indicazione degli obblighi di cui all'art. 6 non può non richiamare la deliberazione che dispone l'attribuzione del bene, in quanto su di essa si fonda il potere dispositivo e la legittimazione della regione alienante. E tale deliberazione, giusto espresso disposto dell'art. 8, comma 2, deve riportare le condizioni e le riserve alle quali è sottoposta l'attribuzione medesima.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, 3, comma 1, 5, 6 ed 8, comma 3, della deliberazione legislativa riapprovata il 7 marzo 1995 dalla Regione Toscana (Attribuzione ai comuni e alle province di beni immobili regionali), sollevate, con il ricorso in epigrafe, dal Presidente del Consiglio dei ministri in relazione agli artt. 42, primo, secondo e terzo comma, 117, 119, primo e quarto comma, 121, quarto comma, della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19/10/95.

Vincenzo CAIANIELLO, Presidente

Cesare RUPERTO, Redattore

Depositata in cancelleria il 26/10/95.