Sentenza n. 447 del 1995

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SENTENZA N. 447

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO, Presidente

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 9, secondo comma, legge 7 febbraio 1990, n. 19 ((Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti) promosso con ordinanza emessa il 25 febbraio 1994 dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto dal Comune di Pozzuolo del Friuli contro Pravisani Walter, iscritta al n. 91 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di costituzione del Comune di Pozzuolo del Friuli nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 3 ottobre 1995 il Giudice relatore Renato Granata;

udito l'avv. Claudio Mussato per il Comune di Pozzuolo del Friuli e l'Avvocato dello Stato Gaetano Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Con ordinanza del 25 febbraio 1994 il Consiglio di Stato ha sollevato questione incidentale di legittimità dell'art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, in riferimento agli artt. 3, 4 e 97 della Costituzione, nella parte in cui prevede per la pubblica amministrazione l'obbligo indiscriminato di riammettere nel posto di lavoro il dipendente - già sospeso dal servizio per essere stato sottoposto a procedimento penale e successivamente condannato, ancorchè con sentenza non ancora passata in giudicato - alla scadenza del termine di cinque anni dall'inizio del periodo di sospensione.

1.1. - Premette il giudice rimettente che il ricorrente (in primo grado) Pravisani Walter - vigile urbano alle dipendenze del Comune di Pozzuolo del Friuli, già condannato (con sentenza non ancora definitiva) per il reato di peculato continuato - chiedeva all'Amministrazione comunale di essere riammesso in servizio ex art. 9, comma 2, cit., che prevede che la sospensione cautelare a causa di procedimento penale perde efficacia dopo che sia decorso un periodo di cinque anni da quando la sospensione stessa sia stata applicata. L'Amministrazione comunale, con delibera del 17 gennaio 1991, disponeva invece il rinnovo della sospensione cautelare osservando che fra il Pravisani e l'Amministrazione medesima era venuta a crearsi una situazione tale da precludere un qualsiasi rapporto fiduciario; delibera questa che veniva annullata dal TAR del Friuli- Venezia Giulia con sentenza poi appellata innanzi al Consiglio di Stato rimettente.

1.2. - Quest'ultimo osserva poi in diritto che la previsione della revoca di diritto della sospensione cautelare dopo il decorso del termine quinquennale comporta un rigido automatismo (in favore del dipendente inquisito), che fa sorgere dubbi di legittimità costituzionale della citata disposizione per irragionevolezza laddove essa pone sul medesimo piano tutti i tipi di reato senza differenziarli secondo la loro gravità. Inoltre la norma non tiene conto se vi sia stata già una pronuncia, sia pure non ancora passata in giudicato, oppure se l'imputazione si trovi ancora nella fase dell'istruttoria, ponendo sul medesimo piano tutti gli accertamenti e le valutazioni fatte in proposito da parte degli organi giudiziari. Inoltre - secondo il giudice rimettente - vi sarebbe violazione dell'art. 4 della Costituzione in quanto la norma richiamata darebbe facoltà ad un cittadino di svolgere una funzione pubblica senza che si avverino i presupposti di dignità e di capacità; ed infine la norma censurata si pone anche in contrasto con l'art. 97 della Costituzione perchè verrebbe inficiato il buon andamento e l'imparzialità dell'Amministrazione.

2. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

2.1. - Ha in via pregiudiziale eccepito l'inammissibilità della questione perchè il Comune di Pozzuolo del Friuli ha adottato un nuovo provvedimento cautelare applicando non la sospensione obbligatoria dell'art. 91 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, ma la sospensione facoltativa del successivo art. 92, che non è soggetta ai limiti temporali dell'art. 9, comma 2, censurato. Inoltre con l'entrata in vigore della legge 18 gennaio 1992, n. 16 è stata introdotta un'ipotesi di sospensione di diritto per fattispecie tra cui quella (oggetto del giudizio a quo) della condanna non definitiva per il reato di peculato.

2.2. - Nel merito l'Avvocatura ritiene destituita di fondamento la censura di violazione del principio di eguaglianza, giacchè alla stregua della normativa vigente l'Amministrazione di appartenenza, alla scadenza del quinquennio dell'art. 9, comma 2, non è costretta in ogni caso a riassumere l'impiegato già sospeso dal servizio, potendo sempre sospenderlo nuovamente, questa volta facoltativamente ai sensi dell'art. 92 cit., nelle ipotesi piu' gravi, discrezionalmente valutate, in cui la ripresa del rapporto di servizio sarebbe sconsigliabile. Inoltre, a decorrere dall'entrata in vigore della legge n. 16 del 1992, sono state contemplate ipotesi di sospensione automatica dall'impiego (non soggetta ai limiti temporali dell'art. 9, comma 2) in relazione a casi accuratamente differenziati sulla base della pericolosità sociale e criminale dei soggetti, di cui non si consente il mantenimento in attività di servizio, secondo una ampia e completa gamma di situazioni processuali. Non sussiste poi la violazione dell'art. 4 della Costituzione nella fattispecie disciplinata dall'art. 9, comma 2, per la diversità degli ambiti in cui i rispettivi precetti operano. Nè sussiste violazione dell'art. 97 della Costituzione, dovendo tenersi conto dell'esigenza di porre un limite massimo di durata alla sospensione cautelare dal servizio, al fine di tutelare l'interesse del dipendente di non essere privato, a tempo indeterminato, della possibilità di svolgere la sua normale attività lavorativa, fonte di sostentamento per sè e per la sua famiglia, a causa della lentezza della giustizia penale.

3. - Si è costituito il Comune di Pozzuolo del Friuli, che, in adesione alle argomentazioni svolte nell'ordinanza di rimessione, ha concluso per la dichiarazione di incostituzionalità della disposizione censurata.

Considerato in diritto

1. - È stata sollevata questione incidentale di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 4 e 97 della Costituzione, dell'art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti), nella parte in cui prevede per la pubblica amministrazione l'obbligo indiscriminato di riammettere nel posto di lavoro il dipendente - già sospeso dal servizio per essere stato sottoposto a procedimento penale e successivamente condannato, ancorchè con sentenza non ancora passata in giudicato - alla scadenza del termine di cinque anni dall'inizio del periodo di sospensione per sospetta violazione del principio di ragionevolezza (perchè non distingue le diverse situazioni in cui può versare il dipendente sospeso secondo sia la maggiore o minore gravità del reato, sia l'esistenza, o meno, di una sentenza di condanna a suo carico, ancorchè non passata in giudicato), nonchè del principio di buon andamento e di imparzialità dell'amministrazione stessa e della necessaria sussistenza dei presupposti di dignità e di capacità del pubblico dipendente.

2. - Vanno preliminarmente respinte le eccezioni - sollevate dall'Avvocatura dello Stato - di inammissibilità della questione. Per un verso, infatti, dall'ordinanza di rimessione non risulta in punto di fatto che il Comune ricorrente abbia inteso applicare la sospensione facoltativa di cui all'art. 92 cit., facendosi in essa unicamente riferimento al rinnovo della sospensione cautelare, inizialmente adottata ex art 91 cit.; sicchè la questione va esaminata in questa prospettazione offerta dal giudice rimettente che è centrata sul disposto dell'art. 91 (sospensione cautelare obbligatoria) senza possibilità di qualificare il provvedimento di rinnovo come un'ipotesi di ricorso alla sospensione cautelare facoltativa (art. 92). Altra questione, attinente al merito e non piu' all'ammissibilità, è quella della astratta possibilità per il Comune ricorrente di adottare la sospensione cautelare facoltativa del dipendente, profilo questo del quale si dirà oltre. Per altro verso, la successiva entrata in vigore della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali) - che, all'art. 1, comma 4-septies, ha previsto che si fa luogo alla immediata sospensione, dalla funzione e dall'ufficio ricoperti, dal pubblico dipendente qualora ricorra alcuna delle condizioni di cui alle lettere a), b), c) e) ed f) del primo comma della medesima disposizione - non rileva vuoi perchè, secondo la giurisprudenza amministrativa in materia, trova comunque applicazione la disposizione censurata, vuoi perchè nella specie una tale sospensione, ancorchè obbligatoria, deve comunque costituire oggetto di un espresso provvedimento, che nella specie - come risulta dall'ordinanza di rimessione - manca.

3. - Nel merito la questione non è fondata nei termini che saranno appresso precisati.

3.1. - Non sussiste innanzi tutto la denunciata violazione del principio di ragionevolezza. La finalità cui si ispira la disposizione censurata - che è quella di eliminare o ridimensionare gli automatismi per cui dalla condanna penale o dall'assoggettamento a procedimento penale del pubblico dipendente derivano conseguenze sul piano disciplinare quanto al rapporto di pubblico impiego - è pienamente coerente con la giurisprudenza di questa Corte, che ha ritenuto l'illegittimità costituzionale della destituzione di diritto del pubblico dipendente come conseguenza automatica di una condanna penale (sentenze n. 971 del 1988; n. 40 del 1990). Il legislatore, quindi, ha provveduto ad eliminare (al comma 1 della disposizione censurata) la destituzione di diritto, sicchè ora tale grave provvedimento, che comporta l'estromissione del pubblico dipendente dal posto di lavoro, può essere adottato soltanto all'esito di un procedimento disciplinare e sulla base di specifici addebiti che, ancorchè per altro verso idonei ad integrare gli estremi di un reato, debbono essere valutati sotto il (diverso ed autonomo) profilo disciplinare. Nello stesso contesto di riforma della materia ed ispirandosi al medesimo principio di privilegiare la valutazione degli addebiti disciplinari in sè piuttosto che far discendere conseguenze di natura disciplinare da addebiti mossi in sede penale, il legislatore - con la disposizione censurata (secondo e terzo periodo) - ha parimenti limitato quel particolare potere (dell'amministrazione) di sospensione cautelare del dipendente, previsto dal primo comma, prima parte, dell'art. 91 citato (la seconda parte concerne la diversa ipotesi di sospensione, questa si', autenticamente obbligatoria come recita la rubrica dell'articolo perchè vincolativamente adottata "ove sia stato emesso mandato o ordine di cattura"); potere fondato sul mero dato formale della pendenza di un procedimento penale a carico del dipendente senza necessità di alcuna sommaria cognitio in ordine nè alla responsabilità dell'imputato, nè al (maggiore o minore) rilievo disciplinare della condotta delittuosa, e solo condizionato - oltre che, appunto, alla sussistenza di tale presupposto formale - all'apprezzamento della particolare gravità della natura del reato per il quale si procede. Relativamente a questa ipotesi il legislatore ha posto un limite massimo al protrarsi - in ragione della mancata conclusione del procedimento penale - della situazione di estromissione dal posto di lavoro del pubblico dipendente, la cui aspettativa ad una valutazione nel merito del profilo disciplinare degli addebiti mossigli in sede penale non può ragionevolmente essere procrastinata sine die. Nel doveroso bilanciamento (sentenza n. 374 del 1995) tra gli opposti interessi - nella specie: quello del dipendente di riprendere il servizio (che riflette la tutela del diritto al lavoro garantito dall'art. 35 della Costituzione) e quello dell'amministrazione (il cui buon andamento ha rilievo anch'esso costituzionale ex art. 97 della Costituzione) di escludere temporaneamente dal servizio il dipendente sul quale faccia ombra il solo fatto dell'imputazione per un grave reato suscettibile di essere valutato sotto il profilo disciplinare - il legislatore non irragionevolmente ha fissato un (peraltro congruo) termine massimo quinquennale, scaduto il quale il dato formale dell'imputazione penale cessa di avere quella idoneità, originariamente riconosciuta dall'art. 91, a legittimare il perdurare della sospensione cautelare, salva rimanendo peraltro, come subito sarà precisato, la potestà della amministrazione di tutelare diversamente l'interesse ad un corretto svolgimento della funzione pubblica.

3.2. - Infatti, neppure è violato il principio (parimenti evocato dal giudice rimettente) del buon andamento dell'amministrazione (art. 97 della Costituzione), perchè la perdita automatica di efficacia della sospensione cautelare ex art. 91 cit. non comporta affatto che - perdurando, nonostante il non breve lasso di tempo trascorso, l'esigenza cautelare di non riammettere in servizio il dipendente in ragione della particolare gravità e dell'irrimediabile pregiudizio che all'attività dell'ente pubblico, datore di lavoro, deriverebbe dalla (seppur condizionata) riattivazione del rapporto di impiego - nessuno strumento residui all'amministrazione per contrastare ed evitare tale pregiudizio. Ed invero, come esattamente osserva l'Avvocatura di Stato, la sopravvenuta inefficacia di diritto della sospensione cautelare adottata ex art. 91 proprio perchè si fonda su un presupposto autonomo e diverso da quello della sospensione c.d. facoltativa di cui all'art. 92 - non esclude, nè preclude, il ricorso a quest'ultima come strumento alternativo di cautela e garanzia delle ragioni dell'amministrazione. È cioè possibile che, pur decorso il termine quinquennale suddetto, sussistano "gravi motivi" che, ancorchè non sia esaurito il procedimento penale, giustifichino la perdurante (ma non ancora definitiva) estromissione del dipendente dal posto di lavoro, motivi che però non possono consistere piu' nel mero dato formale dell'imputazione penale, ma possono (e debbono) riguardare la commissione dell'addebito disciplinare; ciò alla luce di una sommaria cognitio dei fatti che, valutando allo stato ogni aspetto soggettivo ed oggettivo della condotta del dipendente, rinvenga in quest'ultima un insuperabile ostacolo alla sua riammissione in servizio. Questo diverso tipo di sospensione però, proprio perchè si fonda su un presupposto sostanziale e non già (come quella dell'art. 91) formale, comporta - a garanzia del diritto di difesa del dipendente - che nel termine di quaranta giorni dalla data in cui il provvedimento stesso è stato comunicato all'interessato siano in ogni caso contestati gli addebiti al medesimo, il quale quindi - impugnando eventualmente il provvedimento - è posto in condizione di negarne la sussistenza o l'idoneità a valere come "gravi motivi" per la sospensione. Cosi' dispone il secondo comma dell'art. 92, che, nella parte in cui prescrive l'immediata e tempestiva contestazione degli addebiti, tuttora si pone rispetto al successivo art. 117 - ove questo si ritenga non abrogato, come peraltro è controverso nella giurisprudenza amministrativa, pur dopo l'entrata in vigore del nuovo processo penale - come norma speciale, sicchè in tal caso la obbligatoria sospensione del procedimento disciplinare in pendenza del procedimento penale si ha non appena comunicata tale contestazione. Non essendo poi questa sospensione ancorata ad un dato formale, non c'è neppure ragione di quel meccanismo risolutorio automatico quale quello previsto dalla disposizione censurata, che infatti contempla la sopravvenuta inefficacia di diritto non già di qualsiasi sospensione cautelare, ma soltanto di quella disposta "a causa del procedimento penale"; fermo però restando che, come riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa, il dipendente può sempre domandare la revoca del provvedimento cautelare per essere cessati i "gravi motivi" che - in considerazione appunto delle esigenze di buon andamento dell'amministrazione - prima lo giustificavano.

3.3. - La riconosciuta possibilità per l'amministrazione di ricorrere alla sospensione facoltativa esclude poi anche la denunciata irragionevolezza della disposizione censurata sotto l'ulteriore profilo che la norma non distinguerebbe le diverse situazioni in cui può versare il dipendente sospeso; ed infatti il ricorso testuale ad una clausola generale, insita nel sintagma "gravi motivi", di contenuto (non rigido, bensi') elastico, impone all'amministrazione di apprezzare (e quindi differenziare) le situazioni di fatto in ragione sia della maggiore o minore gravità degli addebiti, sia di ogni altra circostanza soggettiva od oggettiva della condotta quale risultante allo stato.

3.4. - E neppure, infine, è leso l'ulteriore parametro invocato (art. 4 della Costituzione), atteso che la valutazione dei "gravi motivi" della sospensione cautelare ex art. 92 cit. comporta anche la necessità di apprezzare se gli addebiti contestati al dipendente siano tali da influire negativamente sui presupposti di dignità e capacità dello stesso richiesti per la prosecuzione del rapporto di impiego.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti) sollevata, in riferimento agli articoli 3, 4 e 97 della Costituzione, dal Consiglio di Stato con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18/10/95.

Vincenzo CAIANIELLO, Presidente

Renato GRANATA, Redattore

Depositata in cancelleria il 24/10/95.