Sentenza n. 220 del 1995

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SENTENZA N. 220

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1258, primo comma, del codice della navigazione e dell'art. 152 numero 4 del d.P.R. 15 febbraio 1952, n. 328 (Approvazione del regolamento per l'esecuzione del codice della navigazione) pro mosso con ordinanza emessa il 27 luglio 1994 dal Tribunale amministrativo regionale del Friuli-Venezia Giulia sul ricorso proposto da Baldè Vojko contro il Ministero dei trasporti e della navigazione ed altri iscritta al n. 694 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 1994. Udito nella camera di consiglio del 3 maggio 1995 il Giudice relatore Renato Granata.

Ritenuto in fatto

Con ordinanza del 27 luglio 1994 il Tribunale amministrativo regionale del Friuli-Venezia Giulia - premesso che con decreto ministeriale del 17 febbraio 1994 Baldè Vojko era stato cancellato dal registro della Compagnia unica dei lavoratori portuali ai sensi del combinato disposto dell'art. 1258 cod. nav. e dell'art. 152 numero 4 del relativo regolamento (d.P.R. 15 febbraio 1952, n. 328) per essere stato condannato con sentenza passata in giudicato per il reato di contrabbando di armi da guerra, provvedimento questo impugnato dal Baldè eccependo in particolare la violazione dei principi generali concernenti il divieto di automatica destituzione dall'impiego - ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale di entrambe le disposizioni (art. 1258, primo comma, cod. nav. e art. 152 numero 4 reg.), nella parte in cui, nel caso di condanna passata in giudicato per uno dei reati di cui al citato numero 4 dell'art. 152 , prevedono la cancellazione del condannato dal registro dei lavoratori portuali di cui al precedente art. 150. Il TAR rimettente invoca soprattutto la giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di destituzione automatica nel pubblico impiego (sentenza n. 971 del 1988) e ritiene che analoghi principi debbano trovare applicazione anche al lavoro portuale, ancorchè non sia qualificabile come rapporto di pubblico impiego. Anche nella specie infatti in forza del combinato disposto censurato si ha una vera e propria estinzione automatica del rapporto di lavoro giacchè la cancellazione dal registro dei lavoratori portuali viene disposta d'autorità e necessariamente (art. 1258, primo comma, cod. nav.) ove venga a mancare, in seguito a condanna penale, il requisito per l'iscrizione nel registro stesso, requisito costituito dalla "assenza di condanna" per un delitto punibile con pena non inferiore nel minimo a tre anni di reclusione, oppure per contrabbando, furto, truffa, appropriazione indebita, ricettazione o per un delitto contro la fede pubblica, salvo che sia intervenuta la riabilitazione".

Tale disposizione esclude in capo all'Amministrazione ogni discrezionalità e, segnatamente, qualsiasi possibilità di graduare la sanzione disciplinare in relazione al concreto atteggiarsi degli eventi.

Sussiste quindi la violazione dell'art. 3 Cost. sia sotto il profilo dell'irragionevolezza intrinseca sia per violazione del principio di eguaglianza in ragione del deteriore trattamento del lavoratore portuale rispetto al pubblico impiegato nella specifica materia della destituzione dall'impiego pur essendo sostanzialmente identiche le posizioni dell'uno e dell'altro. Prosegue poi il TAR rimettente osservando che l'automatica risoluzione del rapporto di lavoro è incompatibile con la tutela del lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) per la sproporzione che può determinarsi tra fatto commesso ed estrema gravità della sanzione, concretantesi nella perdita dei mezzi di sussistenza. Osserva infine il TAR che il lavoratore portuale viene privato altresì del diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.) in quanto, anche se sussiste, nel caso di specie, una sorta di procedimento disciplinare (ex art. 1263 cod. nav.), la decisione dell'Amministrazione è comunque assoluta mente vincolata per cui il procedimento si risolve in una vacua ritualità priva di qualsiasi contenuto sostanziale.

Considerato in diritto

1. - È stata sollevata questione incidentale di legittimità costituzionale - in riferimento agli artt. 3, 4, 24, secondo comma, e 35 Cost. - dell'art. 1258, primo comma, cod. nav. (r.d. 30 marzo 1942, n. 327) e dell'art. 152 numero 4, del relativo regolamento di esecuzione (d.P.R. 15 febbraio 1952, n. 328), nella parte in cui prevedono, nel caso di condanna passata in giudicato per uno dei reati di cui al citato numero 4 dell'art. 152, la cancellazione del condannato dal registro dei lavoratori portuali di cui al precedente art. 150 per sospetta violazione sia del principio di ragionevolezza, in ragione dell'automatismo della sanzione disciplinare senza possibilità di graduazione secondo la gravità del fatto addebitato; sia del principio di eguaglianza per disparità di trattamento rispetto ai dipendenti pubblici per i quali non è (più) prevista la destituzione automatica come effetto della condanna penale sul rapporto di lavoro; sia della tutela del lavoro, perchè potrebbe esservi sproporzione tra il fatto commesso e la sanzione della perdita del posto di lavoro; sia del diritto di difesa, perchè il procedimento disciplinare si riduce ad un inutile formalismo essendo assolutamente vincolata l'Amministrazione che non può non irrogare, come ha fatto nella specie, la sanzione della cancellazione dal registro suddetto.

2. - In via preliminare - chiarito che la legge 28 gennaio 1994, n. 84 di riordino della normativa in materia portuale non rileva come jus superveniens non essendo applicabile nella fattispecie atteso che il decreto ministeriale impugnato (del 17 febbraio 1994), per effetto del quale il ricorrente nel giudizio a quo è stato cancellato dal registro della Compagnia unica dei lavoratori portuali, è anteriore all'entrata in vigore della legge stessa - va dichiarata l'inammissibilità della censura afferente all'art. 152 n.4 del citato regolamento di esecuzione del codice della navigazione non costituendo questo un atto con valore di legge e quindi essendo inidoneo ad essere oggetto di giudizio incidentale di costituzionalità (cfr. ex plurimis sentenza n.484 del 1993).

3. - Nel merito quindi le censure mosse dal TAR rimettente vanno esaminate con riferimento al solo art. 1258, primo comma, cod. nav.; disposizione questa che prevede l'irrogazione della <pena disciplinare> alle persone iscritte nelle matricole o nei registri del personale marittimo e del personale della navigazione interna ovvero negli albi o nei registri della gente dell'aria ove riportino una condanna (penale) che determini l'incapacità all'iscrizione nelle matricole, negli albi o nel registro suddetti.

Tale incapacità si desume dall'art. 152 numero 4 del citato d.P.R. 15 febbraio 1952, n. 328 che prevede che per ottenere l'iscrizione nei registri suddetti occorre tra l'altro che il soggetto non sia stato condannato per un delitto punibile con una pena non inferiore nel minimo a tre anni di reclusione oppure per contrabbando, furto, truffa, appropriazione indebita, ricettazione, o per un delitto contro la fede pubblica. Si ha quindi che il lavoratore portuale, una volta divenuta definitiva la condanna penale per uno dei reati suddetti, è destinato in modo automatico a riportare anche la pena disciplinare della cancellazione, che comporta la perdita del posto di lavoro.

4. - La questione è fondata. In generale l'esercizio di un potere disciplinare riferito allo svolgimento di qualsiasi rapporto di lavoro subordinato (di diritto privato o di pubblico impiego) ovvero di lavoro autonomo e professionale - potere che implica un rapporto di supremazia per cui un soggetto (normalmente, ma non necessariamente, il datore di lavoro) può, con un suo atto unilaterale, determinare conseguenze in senso lato negative (quali quelle insite nelle sanzioni disciplinari) nella sfera soggettiva di un altro soggetto (il prestatore di lavoro) in ragione di un comportamento negligente o colpevole di quest'ultimo - deve rispondere al principio di proporzione e alla regola del contraddittorio. Il primo - che rappresenta una diretta espressione del generale canone di ragionevolezza (ex art. 3 Cost.), coniugato alla tutela del lavoro e della dignità del lavoratore (artt. 4 e 35 Cost.) - implica che il potere deve estrinsecarsi in modo coerente al fatto addebitato, che quindi deve necessariamente essere valutato e ponderato, nel contesto delle circostanze che in concreto hanno connotato il suo accadimento, per commisurare ad esso, ove ritenuto sussistente, la sanzione da irrogare parametrandola alla sua maggiore o minore gravità; sicchè - sotto questo primo profilo - non sono possibili automatismi sanzionatori che pretermettano l'indefettibile valutazione dell'addebito al fine specifico sia di apprezzarne la sanzionabilità, o meno, sul piano disciplinare, sia di calibrare la giusta e proporzionata sanzione da irrogare (sentenze n. 197 del 1993, n. 16 del 1991, n. 158 del 1990, n. 40 del 1990, n. 971 del 1988). Strettamente connesso al principio di proporzione, e quindi riferibile ai medesimi valori costituzionali che lo supportano, è la regola del contraddittorio secondo cui la valutazione dell'addebito, necessariamente prodromica all'esercizio del potere disciplinare, non è un mero processo interiore ed interno a chi tale potere esercita, ma implica il coinvolgimento di chi versa nella situazione di soggezione, il quale - avendo conosciuto l'addebito per essergli stato previamente contestato - deve poter addurre, in tempi ragionevoli, giustificazioni a sua difesa; sicchè - sotto questo secondo profilo - è necessario il previo espletamento di un procedimento disciplinare che, seppur variamente articolabile, sia rispettoso della regola <audiatur et altera pars> (sentenze n. 126 del 1995, n. 427 del 1989, n. 204 del 1982).

5. - Nella fattispecie la cancellazione per condanna penale, sancita dalla disposizione censurata, costituisce esercizio di un potere disciplinare, essendo essa espressamente qualificata come <pena disciplinare> e soprattutto essendo tale nella sostanza perchè rappresenta una conseguenza negativa direttamente incidente sullo status del lavoratore e fondata su un comportamento negligente o colpevole di quest'ultimo. Nè la natura di sanzione disciplinare di tale misura può essere revocata in dubbio per il fatto che il potere disciplinare sia esercitato (non già direttamente dal datore di lavoro, ma) dall'autorità vigilante, ovvero per la specialità del rapporto di lavoro portuale, e in particolare per la sua natura privatistica, atteso il carattere generale delle garanzie suddette che, in quanto ancorate al principio di proporzione che è espressione del principio di uguaglianza (sentenze n. 16 del 1991, n. 158 del 1990), non possono non essere operanti, nel loro nucleo essenziale, come nel pubblico impiego e nelle libere professioni (sentenza n. 158 del 1990 cit.), così anche nel rapporto di lavoro di diritto privato. Sussiste quindi il presupposto perchè operino il principio di proporzione e la regola del contraddittorio. Mentre è rispettata quest'ultima, perchè l'art. 1263 cod. nav. prevede espressamente che il provvedimento di cancellazione dalle matricole, dagli albi o dai registri debba essere preceduto, a pena di nullità, dalla contestazione degli addebiti (garanzia questa che implica comunque anche la facoltà, per il lavoratore incolpato, di comunicare le sue giustificazioni), non è invece rispettato il principio di proporzione atteso che la cancellazione consegue automaticamente ad una condanna penale del tipo di quelle elencate nell'art. 152 numero 4 cit. e quindi mancano (per chi esercita il potere disciplinare ed a garanzia di chi lo subisce) la possibilità (e l'onere) di valutare la sussistenza e la gravità del fatto addebitato e la attendibilità delle eventuali giustificazioni del lavoratore incolpato. La disposizione censurata va quindi dichiarata illegittima - per contrasto con gli artt. 3, 4 e 35 Cost., assorbito l'ulteriore denunciato contrasto con l'art. 24, secondo comma, Cost. - in quanto prevede la pena disciplinare della cancellazione come effetto automatico di una condanna che determini la incapacità all'iscrizione, mentre è sempre necessaria una valutazione di merito, da parte dell'amministrazione competente, compiuta alla stregua del principio di proporzione della pena disciplinare al caso concreto.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1258, primo comma, del codice della navigazione nella parte in cui prevede la pena disciplinare della cancellazione come effetto automatico di una condanna che determini la incapacità all'iscrizione, anzichè sulla base di una valutazione da parte dell'amministrazione competente.

b) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 152 numero 4 del d.P.R. 15 febbraio 1952, n. 328 (Approvazione del regolamento per l'esecuzione del codice della navigazione) sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, secondo comma, e 35 della Costituzione dal Tribunale amministrativo regionale del Friuli-Venezia Giulia con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29/05/95.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Renato GRANATA, Redattore

Depositata in cancelleria il 01/06/95.