Sentenza n.433 del 1994

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SENTENZA N. 433

ANNO 1994

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

Avv. Massimo VARI

Dott. Cesare RUPERTO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 10, ultimo comma, del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17 (Misure per il contenimento del costo del lavoro e per favorire l'occupazione), come convertito nella legge 25 marzo 1983, n.79 e dell'art. 22 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), promosso con ordinanza emessa il 27 ottobre 1993 dalla Corte dei conti sul ricorso proposto da Feliziani Marco, iscritta al n. 222 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.19, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Udito nella camera di consiglio del 9 novembre 1994 il Giudice relatore Gabriele Pescatore.

Ritenuto in fatto

1. La Corte dei conti, sul ricorso prodotto dal maggiore dell'esercito Mario Feliziani, cessato dal servizio permanente a domanda, avverso il provvedimento di sospensione del trattamento di pensione, disposto dall'amministrazione militare a seguito di comunicazione dell'interessato di svolgere attività lavorativa alle dipendenze di terzi, con ordinanza del 27 ottobre 1993 (R.O. n. 222 del 1994), ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, dell'art.10, ultimo comma, del d.l. 29 gennaio 1983, n. 17 (Misure per il contenimento del costo del lavoro e per favorire l'occupazione), conv., con modif., nella legge 25 marzo 1983, n. 79, nonchè dell'art.22 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), nella parte in cui dette norme dispongono il divieto di cumulo di trattamento pensionistico anticipato con redditi di lavoro dipendente.

Secondo il Collegio remittente, tale previsione darebbe luogo ad un trattamento differenziato rispetto ai pensionati che svolgono lavoro autonomo che sarebbe irragionevole, in quanto basato su d'una diversificazione di situazioni non rispondente alle finalità della legge, da ricondursi al contenimento del costo del lavoro e all'adozione di misure a favore dell'occupazione.

Arbitraria sarebbe, altresì, la differenziazione, operata dalla normativa in questione, tra chi, avendo presentato dichiarazione di dimissioni, e svolgendo attività retribuita alle dipendenze di terzi, si veda opporre il divieto di cumulo, e chi, assentatosi dal servizio oltre il tempo massimo previsto, sia incorso nella decadenza dell'impiego, cui il divieto non si applica.

La normativa denunciata violerebbe, inoltre, l'art. 36 della Costituzione, sotto un duplice profilo, e cioé sopprimendo la pensione, che è retribuzione differita, e comportando la decurtazione del trattamento pensionistico senza stabilire il limite minimo dell'emolumento dell'attività esplicata in relazione al quale tale decurtazione diviene operante. Il legislatore non potrebbe, infatti, violare il principio di proporzionalità che sorregge il sistema pensionistico e non tener conto delle contribuzioni dei prestatori di lavoro.

Considerato in diritto

1. La Corte è chiamata a decidere se gli artt. 10, ultimo comma, del d.l.29 gennaio 1983, n. 17, come convertito nella legge 25 marzo 1983, n. 79, e 22 della legge 30 aprile 1969, n. 153, nella parte in cui dispongono il divieto di cumulo di trattamento pensionistico anticipato con redditi di lavoro dipendente, violino l'art. 3 della Costituzione per l'ingiustificata disparità di trattamento nei confronti dei pensionati che svolgono lavoro autonomo e dei dipendenti che non abbiano presentato la dichiarazione di dimissioni, ma che siano decaduti dall'impiego per essersi arbitrariamente assentati dal servizio oltre il tempo massimo consentito, ai quali non si applica il divieto di cumulo; nonchè l'art.36 della Costituzione, sotto il duplice pro filo della soppressione del diritto alla pensione, che è retribuzione differita, e della decurtazione del trattamento pensionistico senza determinazione di un limite minimo dell'emolumento dell'attività esplicata, in relazione al quale tale decurtazione diventa operante.

2. In via preliminare, va dichiarata la inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 22 della legge 30 aprile 1969, n. 153, in riferimento agli artt.3 e 36 della Costituzione.

Nel giudizio all'esame del collegio remittente non deve, infatti, farsi applicazione della predetta norma, che regola fattispecie diverse (pensioni erogate agli iscritti alle assicurazioni obbligatorie per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, dei lavoratori delle miniere, cave e torbiere, dei coltivatori diretti, mezzadri e coloni, degli artigiani e degli esercenti attività commerciali).

Manca, pertanto, una delle condizioni per l'ammissibilità della sollevata questione di costituzionalità, quella della rilevanza, facendo difetto il rapporto di pregiudizialità tra giudizio costituzionale e giudizio a quo.

3. La questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, ultimo comma, del d.l. 29 gennaio 1983, n. 17, come convertito nella legge 25 marzo 1983, n. 79, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, non è fondata.

L'art. 10, ultimo comma, del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17, recante misure per il contenimento del costo del lavoro e per favorire l'occupazione, nel testo risultante dalla legge di conversione 25 marzo 1983, n. 79, stabilisce che nei confronti dei soggetti fruenti di pensionamento anticipato di cui allo stesso articolo - e cioé del personale avente diritto all'indennità integrativa speciale di cui alla legge n. 324 del 1959 che ha presentato domanda di pensionamento a partire dalla data di entrata in vigore del decreto stesso - opera il divieto di cumulo tra pensione liquidata ed eventuale retribuzione percepita in costanza di rapporto di lavoro alle dipendenze di terzi.

La disposizione in esame, quindi, come emerge in modo univoco dal dato letterale, esclude da siffatto divieto, per un verso, i redditi da lavoro autonomo, per l'altro quelli derivanti da attività lavorativa prestata, anche alle dipendenze di terzi, da coloro che non abbiano presentato formale domanda di pensionamento.

La mancata estensione del divieto di cumulo tra pensione e retribuzione ad entrambe le categorie menzionate è oggetto, da parte della Corte dei conti, di dubbio di legittimità costituzionale sotto il profilo di una ingiustificata disparità di trattamento in ambito pensionistico.

Osserva la Corte che è del tutto ragionevole la diversità di disciplina in relazione alle differenti situazioni. Diversificate sono anzitutto le posizioni dei pensionati che svolgono lavoro autonomo rispetto a quelli che prestano attività retribuita alle dipendenze di terzi, per la stessa diversità, ripetutamente affermata anche dalla Corte, dei rispettivi rapporti che danno causa al reddito percepito oltre la pensione, e specificamente, quanto al profilo che qui interessa, per la diversità dei relativi sistemi contributivi. E ciò anche a prescindere dalla considerazione, pur di non lieve momento, che lo scopo di disincentivare l'attività lavorativa prestata, successivamente al collocamento a riposo, in posizione subordinata, potrebbe costituire l'espressione di un indirizzo di politica legislativa, inteso a rimuovere ostacoli all'accesso dei giovani ad occasioni lavorative. Tali ostacoli quasi sempre non sono costituiti dall'espletamento di un'attività libero professionale, dato il carattere della relativa prestazione che normalmente implica l'impiego di risorse specifiche al soggetto che la fornisce e, quindi, non attuabile da parte di qualsiasi soggetto.

4. Non ingiustificatamente discriminatoria si appalesa del pari la limitazione del divieto di cumulo tra pensione e retribuzione ai dipendenti collocati anticipatamente in quiescenza a seguito di formale domanda in tal senso, con conseguenziale esclusione dei casi di pensionamento anticipato che trovano origine in cause diverse dalle dimissioni volontarie, e, in particolare, del caso di decadenza per assenza ingiustificata dal servizio.

La disciplina di cui all'ultimo comma dell'art. 10 del d.l. n. 17 del 1983, come convertito dalla legge n. 17 del 1983, è stata dettata specificamente per i pensionamenti avvenuti a domanda prima del compimento dell'età massima di pensionamento e della maturazione di quaranta anni di servizio utile ai fini del trattamento di quiescenza (primo comma), nonchè per quelli derivanti dalla applicazione a domanda dell'art. 42 del d.P.R. 29 dicembre 1973 (quinto comma).

Il successivo d.l. n. 49 del 1986, allo scopo di scoraggiare il ricorso ad ogni forma di pensionamento anticipato e di limitare la spesa in quel settore, ha disposto che i primi quattro commi dell'art. 10 del d.l. n.17 del 1983, e cioé le norme restrittive del trattamento economico sotto la specie di una limitazione della indennità integrativa speciale, si applicano a tutti i casi di pensionamento anticipato, a qualunque causa dovuti, con la eccezione di quelli di cessazione dal servizio per morte o per invalidità derivanti o meno da causa di servizio, purchè tali da impedire la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Ebbene, proprio il richiamo ai primi quattro commi del citato art. 10 del d.l. n. 17 del 1983 pone in luce l'intenzione del legislatore di limitare ai soli effetti in quei commi previsti l'assimilazione della ipotesi di pensionamento anticipato derivante da formale domanda a tutte le altre cause di cessazione anticipata dal servizio.

Quanto, invece, alla ulteriore limitazione costituita dal divieto di cumulo tra pensione e retribuzione da altro lavoro dipendente, si è inteso porla esclusivamente a carico del personale che abbia compiuto una manifestazione univoca e formale della volontà di rinunciare all'impiego.

Tale limitazione ha una sua struttura procedimentale, e la conseguente diversificazione rispetto al regime applicabile alle altre ipotesi di pensionamento anticipato, e specificamente al caso di decadenza per assenza ingiustificata, non si pone, quindi, in contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Si è inteso, invero, riconnettere in tal modo l'effetto di cui è questione ad un atto tipico, la domanda di dimissioni, espressione sicura ed inequivocabile della volontà di abbandonare il posto, anzichè collegarlo a comportamenti dai quali solo in via presuntiva e con valutazione rimessa all'amministrazione, possa desumersi l'intendimento dell'impiegato di sottrarsi ai doveri del suo ufficio. Sì che viene ad attenuarsi il collegamento tra volontà di recedere e cessazione del rapporto.

5. Non fondato è, infine, l'altro profilo di illegittimità costituzionale dell'art. 10, ultimo comma, del d.l. n. 17 del 1983, come convertito nella legge n. 79 del 1983, concernente un presunto contrasto con l'art. 36 della Costituzione.

La Corte non ha condiviso questo dubbio nella sentenza n.576 del 1989, confermata poi dalla ordinanza n. 47 del 1994, nella considerazione che la disposizione di cui all'indicato art. 10 è diretta a scoraggiare il ricorso ai pensionamenti anticipati a domanda, previsti da una normativa di particolare favore, e che il divieto di cumulo da essa istituito, che opera solo per i pensionamenti avvenuti dopo la sua entrata in vigore, è determinato da una scelta del lavoratore tra la sospensione del trattamento pensionistico e la rinuncia ad assumere un nuovo rapporto di lavoro alle dipendenze di terzi.

Nelle argomentazioni oggi addotte, non si ravvisa alcun valido motivo per discostarsi da tale indirizzo.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 22 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, dalla Corte dei conti con l'ordinanza in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, ultimo comma, del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17 (Misure per il contenimento del costo del lavoro e per favorire l'occupazione), come convertito nella legge 25 marzo 1983, n. 79, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, con la medesima ordinanza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 06/12/94.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Gabriele PESCATORE, Redattore

Depositata in cancelleria il 20/12/94.