Sentenza n. 236 del 1994

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SENTENZA N. 236

 

ANNO 1994

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

Avv. Massimo VARI

 

Dott. Cesare RUPERTO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 12, quinto comma, del decreto legge 27 aprile 1990, n. 90 (Riforma tributaria e provvedimenti vari), convertito nella legge 26 giugno 1990, n. 165, promosso con ordinanza emessa il 1° febbraio 1993 dal Tribunale superiore delle acque pubbliche nel procedimento civile vertente tra la s.r.l. "Imprese Borghi" ed il Ministero delle Finanze ed altro, iscritta al n. 482 del 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell'anno 1993.

 

Visto l'atto di costituzione della s.r.l. "Imprese Borghi" nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 26 aprile 1994 il Giudice relatore Fernando Santosuosso;

 

uditi l'avv. Valerio Onida per la s.r.l. "Impresa Borghi" e l'Avvocato dello Stato Giuseppe O. Russo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un giudizio avente ad oggetto l'impugnazione da parte dell'"Impresa Borghi s.r.l." dei decreti 19 marzo 1991, n. 32105 e 10 settembre 1991, n. 32109, con i quali sono stati rideterminati i canoni dovuti per l'estrazione di materiale limo- sabbioso dal greto del fiume Po alla stregua dei criteri fissati nel decreto -pure impugnato-, emesso dal Ministero delle Finanze in data 20 luglio 1990, a sua volta emanato in forza dell'art.12, quinto comma, del decreto-legge 27 aprile 1990 n. 90, il Tribunale superiore delle acque pubbliche ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, quinto comma, del decreto legge 27 aprile 1990, n. 90 (Riforma tributaria e provvedimenti vari), convertito nella legge 26 giugno 1990, n.165. Si sospetta la violazione, in via principale, dell'art. 23 della Costituzione, nella parte in cui demanda ad un regolamento ministeriale la fissazione dei criteri di determinazione dei canoni dovuti per l'estrazione di materiale limo sabbioso dal greto dei fiumi; nonchè, in via subordinata, dell'art. 53 della Costituzione, nella parte in cui stabilisce che gli aumenti dei canoni suddetti abbiano efficacia retroattiva.

 

Circa la prima questione, ritiene il giudice a quo che la disposizione impugnata, con il demandare ad un regolamento ministeriale la fissazione dei criteri per la rideterminazione dei canoni stabilendo solo due multipli massimi, si porrebbe in contrasto con l'art. 23 della Costituzione, in base al quale in tema di prestazioni imposte (quali sono quelle in oggetto, essendo l'importo relativo unilateralmente fissato) la legge deve fissare con adeguata determinatezza il contenuto della prestazione ed i criteri idonei a regolare l'eventuale margine di discrezionalità consentito alla pubblica amministrazione.

 

Con la seconda questione, si rileva che la norma in questione, con il prevedere che le rideterminazioni dei canoni abbiano effetto "a decorrere dall'anno 1990", anzichè da un momento successivo all'entrata in vigore del decreto-legge, contrasta con l'art. 53 della Costituzione, dal momento che dovrebbe ritenersi preclusa la retroattività di una prestazione patrimoniale sinallagmatica il cui corrispettivo (nel caso di specie rappresentato dal limo sabbioso estratto dal greto del fiume Po) sia stato già ricevuto dal soggetto onerato.

 

2. - Si è costituita in giudizio la società "Impresa Borghi s.r.l." chiedendo l'accoglimento della questione. Rileva al riguardo che la fondatezza delle censure sarebbe avvalorata dal modo con cui il legislatore ha provveduto a disciplinare la medesima materia relativamente ai periodi di contribuzione successivi all'anno 1990: nel nuovo regime normativo, infatti, è la stessa fonte legislativa a porre i criteri di riferimento da rispettare in sede di disciplina tariffaria regolamentare.

 

3. - É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la inammissibilità o per l'infondatezza delle questioni.

 

Ha osservato l'Avvocatura dello Stato che la questione sarebbe inammissibile per diversi motivi.

 

Nel merito, ha concluso per l'infondatezza, osservando che ai canoni di concessione in oggetto non può essere riconosciuta la natura di "imposizione" essendo gli stessi semplicemente dei corrispettivi.

 

Considerato in diritto

 

1. - Il Tribunale superiore delle acque pubbliche solleva la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, quinto comma, del decreto-legge 27 aprile 1990, n. 90 (Riforma tributaria e provvedimenti vari) convertito nella legge 26 giugno 1990, n. 165, in via principale, in riferimento all'art. 23 della Costituzione, nella parte in cui demanda ad un regolamento ministeriale di stabilire i criteri per le rideterminazioni di canoni, proventi, diritti erariali ed indennizzi comunque dovuti per la utilizzazione dei beni immobili del demanio e del patrimonio indisponibile dello Stato; nonchè, in via subordinata, in riferimento all'art. 53 della Costituzione, nella parte in cui dispone che la rideterminazione dei canoni e proventi suddetti abbia effetto a decorrere dall'anno 1990 e quindi con efficacia retroattiva.

 

2. - L'Avvocatura dello Stato eccepisce preliminarmente l'inammissibilità della questione sotto un triplice profilo: a) per difetto di giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, dal momento che la competenza in tema di diritti soggettivi appartiene, a norma dell'art. 5, secondo comma, della legge n. 1034 del 1971, al giudice ordinario o, al più, al Tribunale regionale delle acque pubbliche; in caso contrario, la competenza dovrebbe ritenersi del giudice amministrativo, non riguardando la materia delle acque; b) per irrilevanza della questione stessa, poichè il giudice a quo, dopo aver ritenuto infondati i motivi di ricorso della società ricorrente, non avrebbe potuto (andando ultra petita) sollevare questione di legittimità costituzionale relativamente ad un motivo diverso;c) infine perchè dall'ordinanza di rimessione non risulterebbe se la richiesta del nuovo canone fosse riferita effettivamente ad estrazioni di materiali relative a periodi anteriori alla data di entrata in vigore dell'impugnato decreto-legge.

 

3. - Tali eccezioni non possono essere accolte.

 

In ordine alla prima, va rilevato che la giurisprudenza di questa Corte (cfr. da ultimo ordinanza n. 14 del 1993) è nel senso che il difetto di giurisdizione del giudice a quo fa escludere la rilevanza della questione solo ove esso risulti chiaramente dalla legge, ovvero corrisponda ad un univoco orientamento giurisprudenziale sì da rivestire il carattere dell'evidenza.

 

Nel caso di specie, al contrario, il giudice a quo ha affermato con sentenza la propria giurisdizione motivando ampiamente sul punto, circostanza questa che fa venir meno la suddetta evidenza.

 

Anche la seconda eccezione non merita accoglimento poichè, mentre rientra nella competenza del giudice a quo determinare il thema decidendum del giudizio di legittimità costituzionale devoluto alla Corte, questa, in sede di verifica della sussistenza della rilevanza, non può, con proprie valutazioni, sindacare l'iter logico seguito dal giudice nella impostazione prescelta per pervenire alla decisione sul merito, dovendo tale controllo contenersi nei limiti della verifica della effettiva possibilità di fare applicazione della norma denunciata ai fini della definizione del giudizio.

 

Riguardo infine all'eccezione di inammissibilità per difetto di motivazione sulla rilevanza, formulata solo in ordine alla questione della retroattività degli aumenti dei canoni, va osservato come dall'ordinanza di rimessione -contrariamente a quanto rilevato dall'Avvocatura dello Stato- emerge chiaramente che gli aumenti in questione si riferiscono anche al periodo gennaio- luglio dell'anno 1990 pur non essendo stato espressamente indicato l'anno "1990".

 

4. - Riguardo al merito della questione, va premesso che l'ordinanza di rimessione fa riferimento agli indicati parametri costituzionali partendo dal presupposto che nella specie trattasi di una ipotesi di "prestazione patrimoniale imposta" poichè "il corrispettivo in questione viene mutato unilateralmente dalla pubblica autorità".

 

Deve questa Corte anzitutto verificare se tale impostazione pregiudiziale sia giuridicamente corretta, dal momento che dal predetto presupposto è condizionato l'esame di entrambi i profili della sollevata questione.

 

Nell'economia della presente decisione ci si può limitare ad osservare che la norma costituzionale contenuta all'art. 23 ha formato oggetto di un vasto dibattito dottrinale, sul quale non è qui il caso di soffermarsi, nonchè di numerose pronunce di questa Corte, che saranno ora richiamate.

 

Nell'intento di precisare gli essenziali elementi per individuare le prestazioni patrimoniali imposte che giustificano la garanzia della riserva di legge prevista dall'art. 23 della Costituzione ed i conseguenziali limiti alla discrezionalità della pubblica amministrazione, la giurisprudenza costituzionale aveva originariamente fatto riferimento solo alla natura autoritativa dell'atto che costituisce la prestazione, in quanto tale emesso indipendentemente dalla volontà del soggetto passivo (sentenze nn. 4, 30, 47, 122 del 1957; n. 36 del 1959; nn. 51 e 70 del 1960; n. 65 del 1962; n. 55 del 1963).

 

Successivamente, questa Corte ha ravvisato la natura di prestazione imposta anche nelle ipotesi in cui la prestazione stessa, pur nascendo da un contratto privatistico volontariamente stipulato dall'utente col titolare del bene o del servizio, e quindi dando luogo ad un rapporto negoziale di diritto privato, si riferisca ad un "servizio che, in considerazione della sua particolare rilevanza, venga riservato alla mano pubblica e l'uso di esso sia da considerare essenziale ai bisogni della vita", sicchè "il cittadino è libero di stipulare o non stipulare il contratto, ma questa libertà si riduce alla possibilità di scegliere fra la rinunzia al soddisfacimento di un bisogno essenziale e l'accettazione di condizioni e di obblighi unilateralmente e autoritativamente prefissati" (sentenza n. 72 del 1969 in tema di tariffe del servizio telefonico; e sostanzialmente anche sentenza n.127 del 1988 che ha inquadrato il pagamento del "diritto di approdo" nelle prestazioni patrimoniali obbligatorie per l'utente del bene demaniale).

 

5. - Dal complesso della giurisprudenza della Corte in questa materia -che ha qualificato prestazioni imposte ai sensi dell'art. 23 della Costituzione, oltre che le menzionate tariffe per il servizio telefonico e il diritto di approdo, anche i canoni per la derivazione dai bacini imbriferi montani (sentenza n. 122 del 1957), per le pubbliche affissioni (sentenza n. 36 del 1959), per lo sconto obbligatorio sui prezzi dei medicinali (sentenza n. 70 del 1960), per l'occupazione di suolo pubblico (sentenza n. 2 del 1962), per i contributi ad un consorzio di bonifica (sentenza n. 55 del 1963)- si possono dedurre e precisare alcuni principi-guida per la individuazione di questo tipo di prestazioni, e quindi per l'applicazione della riserva di legge prevista dall'art. 23 della Costituzione, considerando distintamente gli elementi secondari da quelli decisivi.

 

Ed invero, ai fini dell'individuazione delle prestazioni patrimoniali imposte non costituiscono elementi determinanti, ma secondari e supplementari, le formali qualificazioni delle prestazioni (sentenza n.4 del 1957), la fonte negoziale o meno dell'atto costitutivo (sentenza n.72 del 1969), il dato empirico dell'inserimento di obbligazioni ex lege in contratti privatistici, nonchè la maggiore o minore valenza sinallagmatica delle rispettive prestazioni (sentenza n. 55 del 1963).

 

Ai predetti fini va invece riconosciuto un peso decisivo agli aspetti pubblicistici dell'intervento delle autorità, ed in particolare alla disciplina della destinazione e dell'uso di beni o servizi, per i quali si verifica che, in considerazione della loro natura giuridica (sentenze n.122 del 1957 e n. 2 del 1962), della situazione di monopolio pubblico o della essenzialità di alcuni bisogni di vita soddisfatti da quei beni o servizi (sentenze n. 36 del 1959, 72 del 1969, 127 del 1988), la determinazione della prestazione sia unilateralmente imposta con atti formali autoritativi, che, incidendo sostanzialmente sulla sfera dell'autonomia privata, giustificano la previsione di una riserva di legge.

 

Alla stregua degli orientamenti desumibili dalla citata giurisprudenza può concludersi che nella fattispecie ci si trova di fronte alla determinazione di una prestazione patrimoniale imposta, dal momento che il canone è, con atto formalmente autoritativo, stabilito unilateralmente dalla pubblica amministrazione e viene ad incidere sulla sfera dell'autonomia dei privati, i quali non possono soddisfare altrimenti in modo adeguato l'esigenza di procurarsi il materiale limo-sabbioso estraibile dal greto dei fiumi. Tale situazione richiede, di conseguenza, la garanzia della riserva di legge prevista per tali ipotesi dall'art. 23 della Costituzione.

 

6. - Deve ora passarsi all'esame del primo profilo della questione di costituzionalità, secondo cui la norma impugnata non conterrebbe direttamente una sufficiente determinazione della prestazione patrimoniale, violando quindi l'art. 23 della Costituzione. In particolare, si osserva nell'ordinanza di rimessione, l'impugnato art. 12, quinto comma, demanda al regolamento ministeriale di fissare i criteri per la determinazione dei canoni in questione, limitandosi a stabilire che gli aumenti consequenziali non siano superiori a due multipli massimi.

 

La difesa dell'impresa soggiunge che la rideterminazione di dette prestazioni dovute per l'utilizzazione dei beni immobili dello Stato viene dalla legge stessa autorizzata con riferimento, non ai canoni precedentemente fissati in concreto, ma alle tariffe che prevedevano in astratto quelle misure, senza peraltro una corrispondenza proporzionale all'andamento dei prezzi di mercato, bensì con riguardo solo a due periodi, quello anteriore e quello posteriore al 1982. Tutto ciò confermerebbe ulteriormente l'insufficiente determinazione di criteri di limitazione legislativa alla discrezionalità dell'autorità amministrativa.

 

7. - Questi argomenti non sono condivisibili. Va in proposito riconfermata anzitutto la giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 90 del 1994; n. 34 del 1986; n. 67 del 1973 ed altre), secondo cui il principio della riserva di legge previsto dall'art. 23 della Costituzione, è di carattere relativo, essendo richiesto che la prestazione sia imposta "in base alla legge": come tale, esso può dirsi rispettato anche in assenza di una espressa indicazione legislativa dei criteri, limiti e controlli sufficienti a delimitare l'ambito di discrezionalità dell'amministrazione, purchè gli stessi siano in qualche modo desumibili (dalla composizione o funzionamento dell'autorità competente, dalla destinazione della prestazione, dal sistema procedimentale che prevede la collaborazione di più organi) al fine di evitare arbitrii dell'amministrazione.

 

Nella specie, questi principi non appaiono violati dall'art. 12, quinto comma, del decreto-legge n. 90 del 1990, dal momento che esso prende a base i canoni concretamente applicati, "derivanti dall'applicazione delle tariffe e misure stabilite in virtù di leggi e regolamenti" (e cioé, dal decreto-legge 2 ottobre 1981, n. 546, secondo cui i canoni erano "determinati, sentiti i competenti uffici tecnici erariali, tenuto conto dell'andamento dei prezzi dei materiali stessi sul libero mercato. Tali canoni, comunque, non potranno essere determinati in misura inferiore a L. 800 per ogni metro cubo di materiale estratto"). La norma impugnata, poi, in considerazione della diversa epoca di fissazione di dette tariffe e della sopravvenuta svalutazione monetaria con conseguente mutamento dei prezzi, autorizza il Ministro delle finanze, di concerto con il Ministro del tesoro, ad aumentare quelle misure entro limiti massimi che vengono precisati in una certa misura a seconda dei periodi di determinazione dei canoni-base.

 

8. - Con il secondo profilo di incostituzionalità, subordinatamente prospettato, pur riconoscendosi dal giudice rimettente che l'art. 53 della Costituzione "specificamente relativo alle prestazioni tributarie, di per sè non preclude la retroattività di disposizioni impositive", si soggiunge: "come la retroattività di disposizioni tributarie è preclusa dall'art. 53 quando essa finisca per gravare il soggetto d'imposta per una capacità contributiva non più esistente al momento dell'imposizione, così sembra che si debba ritenere preclusa la retroattività di una prestazione patrimoniale sinallagmatica la cui prestazione corrispettiva sia già stata ricevuta dal soggetto onerato".

 

Per ritenere infondato anche questo aspetto della questione - senza dover esaminare le condizioni di legittimità della eccezionale retroattività delle norme tributarie- è sufficiente rilevare che lo stesso giudice a quo riconosce che nella specie si tratta di imposizione di un altro tipo di prestazioni e che il parametro costituzionale che si ritiene violato (art. 53) in realtà si riferisce unicamente a quelle di carattere tributario, come affermato dalla costante giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, sentenza n. 500 del 1993).

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art.12, quinto comma, del decreto-legge 27 aprile 1990, n.90 (Riforma tributaria e provvedimenti vari) convertito nella legge 26 giugno 1990, n. 165, sollevate, in riferimento agli artt. 23 e 53 della Costituzione, dal Tribunale superiore delle acque pubbliche con l'ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 giugno 1994.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Fernando SANTOSUOSSO, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 10/06/1994.