Sentenza n. 6 del 1994

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SENTENZA N. 6

ANNO 1994

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

Avv. Massimo VARI

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 7, settimo comma, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonche' disposizioni fiscali), convertito, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438, e dell'art. 2, quarto comma, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, promossi con ordinanze emesse il 26 febbraio 1993 dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia - sezione di Brescia, il 15 luglio / 18 novembre 1992 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, l'8 gennaio 1993 dal Tribunale amministrativo regionale della Liguria, l'11 marzo 1993 dal Tribunale amministrativo regionale del Veneto (n. 8 ordinanze), il 26 febbraio 1993 dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia - sezione di Brescia e il 25 gennaio 1993 ed il 18 dicembre 1992 (n. 2 ordinanze) dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, rispettivamente iscritte ai nn. 236, 358, 380, 382, 384, 385, 386, 395, 455, 456, 457, 583, 585, 586 e 587 del registro ordinanze 1993 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 22, 28, 29, 36 e 41 dell'anno 1993.

 

Visti gli atti di costituzione di Gallo Fabio Massimo, di Mammone Giovanni ed altri, di Eramo Federico, di Romeo Maria Giovanna ed altri nonche' gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella udienza pubblica del 30 novembre 1993 il Giudice relatore Enzo Cheli;

 

uditi l'avvocato Giovanni Di Gioia per Gallo Fabio Massimo, Mammone Giovanni ed altri, l'avvocato Giuseppe De Vergottini per Eramo Federico e l'Avvocato dello Stato Antonio Cingolo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

l. - Con due ordinanze del 26 febbraio 1993 (R.O. nn. 236 e 583 del 1993), il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia - Sezione distaccata di Brescia, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 97 e 113 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, settimo comma, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, sanità e di pubblico impiego, nonche' disposizioni fiscali), convertito dalla legge 14 novembre 1992, n.438, dove si dispone che < l'art. 2, quarto comma, del decreto- legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, va interpretato nel senso che dalla data di entrata in vigore del predetto decreto-legge non possono essere più adottati provvedimenti di allineamento stipendiale, ancorche' aventi effetti anteriori all'11 luglio 1992>.

 

La questione trae origine da due giudizi instaurati da alcuni magistrati ordinari nei confronti del Ministero di grazia e giustizia per richiedere il riconoscimento del loro diritto a percepire lo stesso trattamento di altro magistrato - nominato uditore giudiziario nel 1989 - di minore anzianità, che ha conservato il più favorevole trattamento economico maturato nella precedente carriera di referendario parlamentare presso il Senato della Repubblica.

 

Il giudice remittente premette che l'istituto dell'allineamento stipendiale, originariamente previsto per il personale militare dall'art. 4, terzo comma, della legge 20 novembre 1982, n. 869, e' stato successivamente esteso ad altre categorie del pubblico impiego dalla giurisprudenza, che ha riconosciuto in questa disposizione un principio di carattere generale < idoneo ad evitare un'ingiustificata disparità di trattamento derivante dalla conservazione di trattamenti retributivi personalizzati>. Tale principio e' stato recepito anche per il personale della magistratura dalla legge 8 agosto 1991, n.265, che ne ha, peraltro, delimitato il contenuto.

 

L'art. 1 di questa legge ha, infatti, escluso l'applicabilità dell'allineamento stipendiale con trattamenti economici conseguiti in settori diversi dalle carriere dirigenziali dello Stato o equiparate, nonche', in caso di accesso alla magistratura mediante concorso di primo grado, la valutazione di trattamenti già acquisiti nella precedente carriera mediante allineamento.

 

Ad avviso del giudice a quo nessuna di queste limitazioni può applicarsi ai casi in esame, dal momento che la carriera di referendario al Senato e' stata equiparata dalla giurisprudenza amministrativa a quella dirigenziale (v. Cons. St., sez. IV, n.64/1985) e il miglior trattamento retributivo conservato dal magistrato già referendario al Senato non e' derivato da un allineamento stipendiale conseguito nella precedente carriera, ma solo dalla maggiore entità del relativo stipendio.

 

Al riconoscimento del diritto non sarebbe neppure di ostacolo l'art. 2, quarto comma, del decreto-legge 11 luglio 1992, n.333, emanato nelle more del giudizio e convertito dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, che ha abrogato le disposizioni sull'allineamento.

 

Tale abrogazione non aveva eliminato, infatti, i diritti sorti prima della sua entrata in vigore, dei quali si controverte nei giudizi a quo. Il riconoscimento dell'allineamento e' stato, invece, precluso dalla norma impugnata che ha abrogato con effetto retroattivo il diritto all'allineamento o che, comunque, ha vietato all'amministrazione di procedere ad operazioni di allineamento stipendiale riferite a situazioni pregresse.

 

Di conseguenza, secondo il giudice remittente, la norma impugnata risulterebbe lesiva dell'art. 3 della Costituzione, dal momento che con la sua emanazione il legislatore ha inteso bloccare ogni ulteriore applicazione dell'istituto dell'allineamento, anche se fondata su diritti acquisiti derivanti dalle norme abrogate. La disposizione in questione, pur essendo formulata come un'interpretazione autentica, avrebbe in realtà carattere innovativo, dal momento che ha esteso la decorrenza della legge interpretata.

 

Nell'ordinanza si afferma anche che l'irretroattività costituisce un principio generale dell'ordinamento, derogabile solo per cause eccezionali, non rilevabili nel caso di specie.

 

La norma retroattiva in questione produrrebbe inoltre un'ingiustificata disparità di trattamento tra coloro che, in base al medesimo presupposto - costituito dall'accesso in magistratura del suddetto referendario del Senato - abbiano già ottenuto l'applicazione amministrativa dell'allineamento o una sentenza favorevole passata in giudicato e tutti gli altri.

 

Infine, nelle ordinanze si riconosce che la Costituzione non pone un divieto alle leggi retroattive (salvo che per la materia penale), ma si ribadisce che tali leggi devono corrispondere al generale criterio di ragionevolezza e non devono violare altri principi costituzionali. Nel caso di specie, la norma impugnata risulterebbe lesiva, oltre che dell'uguaglianza, dei principi di imparzialità, di buon andamento e di pienezza della tutela giurisdizionale, in violazione degli artt. 97 e 113 della Costituzione.

 

2. - Con otto ordinanze di contenuto identico a quelle del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia sopra ricordate (R.O. nn. 382, 384, 385, 386, 395, 455, 456 e 457 del 1993), il Tribunale amministrativo regionale del Veneto ha sollevato la medesima questione di legittimità costituzionale già sollevata dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia nei confronti dell'art. 7, settimo comma, del decreto-legge n.384 del 1992, convertito dalla legge n. 438 del 1992.

 

3. - Anche il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, con due ordinanze del 18 dicembre 1992, di identico contenuto (R.O. nn. 586 e 587 del 1993), ha sollevato, in riferimento agli artt.3, 24, 97 e 113 della Costituzione, la questione di costituzionalità della disposizione impugnata con le ordinanze sopra richiamate.

 

Condividendo i dubbi di legittimità costituzionale avanzati dai ricorrenti - magistrati ordinari che richiedono il riconoscimento dell'allineamento stipendiale con il medesimo magistrato proveniente dalla carriera del Senato considerato nelle altre ordinanze - il Tribunale remittente espone che l'intento perseguito dal legislatore con la norma impugnata e' evidentemente quello di bloccare ogni ulteriore applicazione dell'istituto dell'allineamento fondato su norme abrogate.

 

Per raggiungere tale effetto si e' introdotta una disposizione formulata come un'interpretazione autentica, ma avente in realtà carattere innovativo, consistente nell'estensione della decorrenza retroattiva della legge interpretata. Si osserva anche, a questo proposito, che se la norma impugnata fosse di interpretazione autentica la sua retroattività dovrebbe arrestarsi al momento dell'entrata in vigore della disposizione interpretata.

 

Anche il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia sottolinea che l'irretroattività costituisce un principio dell'ordinamento, derogabile solo per cause eccezionali considerate prevalenti sui rapporti preteriti e sul principio dell'affidamento. Nel caso di specie, non rinvenendosi tali presupposti, si rileva la violazione di vari principi di rilevanza costituzionale, come quelli dell'affidamento, della certezza dei diritti maturati e della correttezza della funzione giurisdizionale che, a causa della norma impugnata, sarebbe impedita nel suo lineare svolgimento.

 

Con argomentazioni analoghe a quelle svolte nelle precedenti ordinanze, anche il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia censura la disparità di trattamento prodotta dalla disposizione in questione tra coloro che, alla stregua del medesimo presupposto verificatosi prima della sua entrata in vigore, avevano già ottenuto il richiesto allineamento stipendiale per via amministrativa o in base a sentenza passata in giudicato e gli altri aventi diritto che, invece, non hanno ottenuto l'allineamento.

 

Sotto tali profili la disposizione di cui all'art. 7, settimo comma, del decreto-legge n. 384 del 1992 e' ritenuta lesiva dei principi di uguaglianza, di ragionevolezza, di imparzialità e di buon andamento dell'amministrazione, nonche' di pienezza della tutela giurisdizionale.

 

4.- Con ordinanza 15 luglio - 18 novembre 1992 (R.O. n.358 del 1993), il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 36, 73, 97, 101, 108 e 113 della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale degli artt.7, settimo comma del decreto-legge n.384 del 1992, convertito dalla legge n. 438 del 1992, e dell'art.2, quarto comma, del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito dalla legge n. 359 del 1992.

 

Il giudice remittente premette che nel corso di un giudizio instaurato da alcuni magistrati ordinari nei confronti del Ministero di grazia e giustizia per richiedere l'allineamento stipendiale con il trattamento economico riconosciuto ad altro magistrato proveniente dalla carriera di referendario del Senato, era dapprima intervenuto il decreto-legge n. 333 del 1992, che all'art. 2, quarto comma, conteneva modifiche al sistema previgente di allineamento stipendiale - basato sull'art. 4, terzo comma, della legge n. 869 del 1982 - e, successivamente, il decreto-legge n. 384 del 1992, che, all'art. 7, settimo comma, (mediante interpretazione autentica del citato art. 2, quarto comma, del precedente decreto) ha disposto che dalla sua entrata in vigore non possono più essere adottati provvedimenti di allineamento stipendiale, ancorche' aventi effetti anteriori all'entrata in vigore del decreto-legge n.333 del 1992.

 

Il giudice a quo puntualizza quindi che al momento della decisione della causa non si può prescindere dall'esame della nuova normativa, della cui costituzionalità si dubita.

 

Un primo profilo esaminato concerne la violazione degli artt.3, 24 e 113 della Costituzione. Ad avviso del giudice remittente la norma impugnata inibirebbe al giudice amministrativo la pronuncia su questioni già sottoposte al suo giudizio e lederebbe l'art. 113, secondo comma, la cui finalità sarebbe quella di evitare che il legislatore possa sottrarre da rapporti giuridici complessi ed articolati aree nelle quali e' esclusa la tutela giurisdizionale.

 

In secondo luogo, si dubita della legittimità della norma in questione in riferimento agli artt. 3, 101 e 108 della Costituzione, dal momento che essa, inibendo al giudice di tener conto della legislazione vigente al momento della presentazione del ricorso, lederebbe l'indipendenza, l'autonomia e la pienezza della giurisdizione amministrativa ed avrebbe lo scopo di elidere indirizzi giurisprudenziali consolidati.

 

Altro aspetto considerato nell'ordinanza e' quello della incidenza sui diritti quesiti dei ricorrenti, operata con una norma retroattiva, idonea a determinare discriminazioni lesive degli artt. 3 e 73 della Costituzione.

 

Una ulteriore violazione del principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione consisterebbe nell'assoluta mancanza di contenuto interpretativo della norma in esame, attraverso cui si realizzerebbe un'ipotesi di eccesso di potere legislativo.

 

Infine, il Tribunale amministrativo regionale del Lazio dubita anche della costituzionalità della disciplina sostanziale prevista dall'art. 2, quarto comma, del decreto- legge n. 333 del 1992, dal momento che il mantenimento di meccanismi di "trascinamento" delle anzianità pregresse suscettibili di determinare forti differenze retributive all'interno della magistratura, verrebbe a incidere sul principio di unicità della giurisdizione e sulla necessità di uniformità di trattamento economico dei magistrati a parità di funzioni. E questo in violazione degli artt. 3, 36, 97 e 101 della Costituzione.

 

5. - Con altra ordinanza del 25 gennaio 1993 (R.O. n. 585 del 1993), il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia ha sollevato, nel corso di un giudizio proposto da alcuni magistrati amministrativi, la stessa questione di costituzionalità sollevata con le ordinanze nn. 586 e 587 del 1993, sopra richiamate al punto 3.

 

In questa ordinanza si premette che i ricorrenti precedono in ruolo un loro collega che gode di un più favorevole trattamento economico attribuitogli in relazione al servizio prestato, precedentemente all'ingresso nella magistratura amministrativa, nel ruolo legale della Banca d'Italia.

 

Il giudice remittente osserva che la limitazione al riconoscimento dell'allineamento di cui all'art. 1, primo comma, della legge n. 265 del 1991 non rileva nel caso in esame, dal momento che la qualifica di legale della Banca d'Italia abilitato a patrocinare in Cassazione e' da ritenere equiparata a quella dirigenziale dello Stato, dato il carattere di "ente-organo" che va riconosciuto alla Banca d'Italia.

 

Inoltre, il giudice a quo ritiene che l'art. 1 della legge n. 265 del 1991 e l'art. 2, quarto comma, del decreto-legge n.333 del 1992 non abbiano carattere retroattivo ma siano innovativi, e come tali non applicabili a situazioni in cui i presupposti per l'allineamento si erano compiutamente realizzati in precedenza.

 

Il giudice remittente svolge poi argomentazioni analoghe a quelle esposte nelle sue precedenti ordinanze concernenti la medesima norma impugnata.

 

6. - Con ordinanza dell'8 gennaio 1993 (R.O. n. 380 del 1993) anche il Tribunale amministrativo regionale della Liguria ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità nei confronti dell'art. 7, settimo comma, del decreto-legge n. 438 del 1992.

 

Dopo aver sottolineato, ai fini della rilevanza, che la disposizione impugnata sarebbe ostativa all'accoglimento del ricorso con il quale un primo dirigente dell'amministrazione periferica del Ministero delle finanze ha richiesto l'equiparazione stipendiale con colleghi di pari o minore anzianità, il giudice remittente espone che la disposizione medesima inciderebbe negativamente su posizioni giuridiche aventi natura di diritti soggettivi perfetti. Tale disposizione avrebbe un evidente carattere innovativo, dal momento che nessun dubbio interpretativo emergeva dal testo dell'art. 2 del decreto-legge n.333 del 1992, che si limitava a sopprimere, dalla sua entrata in vigore, l'istituto dell'allineamento stipendiale. Il Tribunale amministrativo regionale della Liguria rileva poi che la norma impugnata violerebbe l'art. 3 della Costituzione, comportando una ingiustificata disparità di trattamento tra i dipendenti pubblici che abbiano già ottenuto un provvedimento di allineamento stipendiale prima dell'entrata in vigore della disposizione in esame e coloro che, magari a causa di ritardi burocratici, si siano visti negare il beneficio.

 

La situazione di sperequazione così realizzatasi avrebbe conseguenze negative anche sull'efficienza della pubblica amministrazione - con violazione dell'art. 97 della Costituzione - poiche' il rendimento del dipendente al quale non e' stato riconosciuto l'allineamento sarebbe influenzato negativamente dal constatare che altri colleghi per ragioni casuali si sono giovati del beneficio in questione.

 

7. - In tutti i giudizi ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, per richiedere che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.

 

In linea pregiudiziale l'Avvocatura eccepisce la non rilevanza della questione nei giudizi a quo, dal momento che le particolari disposizioni applicabili con riferimento all'allineamento stipendiale non consentirebbero, comunque, ai ricorrenti di ottenere il beneficio richiesto. Riferendosi alla posizione dei magistrati ordinari la difesa dello Stato osserva che per tale categoria trova applicazione l'art. 1 della legge n.265 del 1991, che al primo comma esclude la valutazione di elementi retributivi derivanti da posizioni personali di stato, ovvero derivanti dal mantenimento di più favorevoli trattamenti economici comunque conseguiti in settori diversi dalle carriere dirigenziali dell'Amministrazione dello Stato o equiparate.

 

Poi che' nel caso di specie i ricorrenti hanno richiesto l'allineamento con lo stipendio percepito da un collega proveniente da un settore (ruolo del Senato della Repubblica) non equiparato alle carriere dirigenziali dello Stato, non sarebbe potuto sorgere il diritto al beneficio invocato.

 

Si sostiene, inoltre, che l'art. 1 della legge n. 265 del 1991 avrebbe natura retroattiva, essendo destinato a fornire l'interpretazione corretta della normativa ivi citata, in passato oggetto di contrastanti pronunce giurisprudenziali.

 

Nel merito, l'Avvocatura precisa che già l'art. 2, quarto comma, del decreto-legge n. 333 del 1992 era volto a precludere la possibilità di procedere ulteriormente ad allineamenti stipendiali, ma poiche' tale norma ha dato luogo ad interpretazioni difformi, si e' chiarito con la disposizione impugnata il reale contenuto del precetto, senza con questo voler minimamente incidere sui presupposti dell'istituto che si era inteso abrogare e sull'epoca di maturazione dei presupposti stessi.

 

Nell'atto di intervento relativo al giudizio di costituzionalità instaurato dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio (R.O. n. 358 del 1993), oltre alle argomentazioni già descritte, l'Avvocatura contesta anche i dubbi di costituzionalità concernenti l'art. 2, quarto comma, del decreto-legge n. 333 del 1992 - impugnato solo nell'ordinanza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio - rilevando che la diversificazione nel tempo di trattamenti economici non e' censurabile allorquando, come nella specie, non incida sulle esigenze essenziali di vita del lavoratore e della sua famiglia.

 

8. - Nel giudizio davanti alla Corte si sono costituiti alcuni magistrati ricorrenti nel giudizio instaurato dinanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, insistendo per l'accoglimento delle questioni sollevate.

 

In primo luogo, le parti private rilevano che lo strumento dell'allineamento stipendiale - introdotto dall'art. 4, terzo comma, del decreto-legge n. 681 del 1982, ma espressamente previsto per il personale della magistratura dalla legge n.265 del 1991 - costituisce un rimedio di carattere generale volto a far rispettare il principio del pari trattamento a parità di funzioni.

 

Dopo aver ribadito le censure già svolte nell'ordinanza di remissione, relative alla violazione del diritto di difesa ed al principio di uguaglianza, si riafferma il carattere innovativo della disposizione dell'art. 7, settimo comma, del decreto- legge n. 384 del 1992, dal momento che il chiaro disposto dell'art.2, quarto comma, del decreto-legge n. 333 del 1992 non rendeva necessario alcun intervento interpretativo del legislatore.

 

La disposizione impugnata, ad avviso dei ricorrenti, modificherebbe integralmente il dato testuale dell'art. 2, quarto comma, del decreto-legge n. 333 allo scopo di impedire al giudice amministrativo l'accoglimento dei ricorsi proposti dai magistrati interessati. In tal modo si sarebbe realizzato uno < sviamento strumentale della funzione legislativa>, non conforme al sistema costituzionale.

 

Sotto diverso profilo le parti private affermano che il carattere retroattivo della norma contenuta nel decreto-legge n.384 del 1992 violerebbe il fondamentale principio di civiltà giuridica in virtù del quale la legge non dispone che per l'avvenire, nonche' i diritti quesiti dei magistrati interessati.

 

9. - Nel giudizio instaurato con l'ord. n. 385 del 1993 del Tribunale amministrativo regionale del Veneto si e' costituito il ricorrente, per chiedere l'accoglimento della questione.

 

Nell'atto di costituzione si osserva in via preliminare che le norme abrogative dell'istituto dell'allineamento stipendiale contenute nell'art. 2, quarto comma, del decreto- legge n. 333 del 1992 e nell'art.7, settimo comma, del decreto- legge n. 384 del 1992 non dovrebbero ritenersi applicabili nel giudizio a quo, dal momento che tali disposizioni non fanno alcun riferimento esplicito alle leggi nn. 425 del 1984 e 265 del 1991 che hanno dettato norme speciali per i magistrati.

 

Ad avviso della parte privata, gli artt. 4 della legge n.425 e 1 della legge n. 265 realizzerebbero una forma di produzione normativa mediante rinvio materiale o recettizio all'art. 4 della legge n.869 del 1982, del cui contenuto si sarebbero appropriati in modo definitivo. La regolamentazione dell'allineamento stipendiale per il settore delle carriere dei magistrati avrebbe, quindi, avuto fin dall'emanazione della legge n. 425 un carattere di assoluta specialità, così da non poter essere abrogato da una disposizione successiva di carattere generale, quale quella risultante dal combinato disposto degli artt. 2, quarto comma, del decreto-legge n. 333 e 7, settimo comma, del decreto-legge n.384. La peculiarità del regime giuridico della carriera dei magistrati rispetto agli altri pubblici impiegati sarebbe, d'altro canto, giustificata dalla necessità di garantire la loro indipendenza, assicurata dagli artt. 106, 107 e 108 della Costituzione.

 

Passando all'esame del merito della questione sollevata, nell'atto di costituzione si ribadisce che la norma impugnata violerebbe il principio di uguaglianza e che non sussisterebbe una ragionevole giustificazione per la sua efficacia retroattiva.

 

Se il legislatore ha facoltà di dettare disposizioni retroattive, queste non potrebbero, comunque, pregiudicare valori costituzionalmente garantiti - quali quelli in tema di pari trattamento retributivo del personale di magistratura a parità di progressione in carriera - ne' l'affidamento creatosi sotto la vigenza della normativa anteriore.

 

La norma impugnata contrasterebbe, pertanto, in riferimento al rapporto di impiego pubblico, con gli artt. 3, 36 e 97 della Costituzione e, in relazione allo specifico settore della magistratura, con gli artt. 101, 102 e 107 della Costituzione.

 

10. - Si sono, infine, costituiti alcuni magistrati ricorrenti nel giudizio instaurato davanti al Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, che ha dato luogo alla questione di costituzionalità sollevata con l'ord. n. 385 del 1993.

 

Nell'atto di costituzione si osserva che la norma impugnata, avendo indubbio carattere innovativo, non potrebbe comunque applicarsi ai giudizi in corso.

 

Le parti private rilevano, a questo proposito, che il legislatore, quando ha voluto negare con effetto retroattivo il diritto all'azione, ha esplicitamente disposto l'estinzione dei giudizi in corso. Poiche' nella specie non si e' provveduto in tal senso, si dovrebbe ritenere che la norma in questione si sia limitata a disporre il limite temporale dopo il quale non possono più essere proposte nuove domande in sede giurisdizionale.

 

Per converso, però, proprio perche' nulla il legislatore ha previsto in ordine ai giudizi in corso, non potrebbe dubitarsi che gli stessi debbano essere decisi sulla scorta della disciplina in precedenza vigente.

 

11. - In prossimità dell'udienza sia l'Avvocatura generale dello Stato sia le parti private ricorrenti nel giudizio instaurato davanti al Tribunale amministrativo regionale del Lazio hanno presentato memoria, dove vengono ribadite e approfondite le rispettive tesi.

 

Considerato in diritto

 

l. - Le ordinanze sopra richiamate sollevano questioni che sono o identiche o connesse o analoghe. I giudizi relativi vanno, pertanto, riuniti al fine di poter adottare un'unica pronuncia.

 

2. - Tutte le questioni di costituzionalità di cui e' causa investono l'art. 7, settimo comma, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonche' disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438, dove si dispone che < l'art. 2, comma quarto, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, va interpretato nel senso che dalla data di entrata in vigore del predetto decreto-legge non possono essere più adottati provvedimenti di allineamento stipendiale, ancorche' aventi effetti anteriori all'11 luglio 1992>.

 

In un caso (ordinanza n. 358/93, promossa dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio) l'impugnativa viene estesa anche alla norma "interpretata" (art. 2, comma quarto, del decreto-legge n. 333 del 1992), dove e' statuito che "a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono soppressi: il secondo periodo del terzo comma dell'art. 4 del decreto-legge 27 settembre 1982, n. 681, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 1982, n. 869...".

 

Le questioni sono state sollevate dai Tribunali amministrativi regionali della Lombardia, del Veneto, del Lazio, della Sicilia e della Liguria nel corso di giudizi promossi da magistrati ordinari e amministrativi (e, in un caso, da un dirigente dell'Amministrazione finanziaria) al fine di sentirsi riconoscere il diritto all'allineamento stipendiale con colleghi che, pur inquadrati nella stessa qualifica con minore o pari anzianità, godono di trattamenti economici più favorevoli maturati in precedenti carriere (quali quella di referendario parlamentare presso il Senato della Repubblica, cui fanno riferimento i ricorrenti magistrati ordinari; o di funzionario dell'ufficio legale della Banca d'Italia, cui fanno riferimento i ricorrenti magistrati amministrativi) e conservati "ad personam" nel nuovo inquadramento in magistratura.

 

4. - L'istituto dell'allineamento stipendiale - come si ricorda nelle ordinanze di rimessione - e' stato introdotto, per la prima volta, a favore del personale militare dall'art.4, terzo comma, del decreto-legge 27 settembre 1982, n.681 (convertito dalla legge 20 novembre 1982, n. 869), dove si disponeva che "al personale con stipendio inferiore a quello spettante al collega con pari o minore anzianità di servizio, ma promosso successivamente, e' attribuito lo stipendio di quest'ultimo".

 

Dopo l'entrata in vigore di questa disposizione numerose pronunce della giurisprudenza amministrativa e contabile individuavano nella stessa un principio di carattere generale, suscettibile di valere per l'intera sfera del pubblico impiego, in quanto idoneo ad evitare, tra gli appartenenti alla medesima qualifica in possesso della stessa anzianità, disparità di trattamento derivanti dalla conservazione, a favore di alcuni, di trattamenti retributivi "personalizzati" maturati in ruoli e qualifiche diverse.

 

Tale principio, diversamente interpretato e applicato nelle varie pronunce adottate in materia, veniva, infine, per il personale di magistratura, espressamente riconosciuto e positivamente regolato con la legge 8 agosto 1991, n. 265, dove, all'art. 1, si estendeva a questo personale l'istituto dell'allineamento previsto dall'art. 4, terzo comma, del decreto- legge n. 681 del 1982, escludendosi, di contro, "la valutazione di elementi retributivi derivanti da posizioni personali di stato, ovvero spettanti per effetto di incarichi o funzioni non aventi carattere di generalità, ovvero derivanti dal mantenimento di più favorevoli trattamenti economici comunque conseguiti in settori diversi dalle carriere dirigenziali dell'amministrazione dello Stato o equiparate, ovvero dalle carriere di cui alla legge 2 aprile 1979, n. 97".

 

Nel corso dei giudizi di cui e' causa interveniva il decreto- legge n. 333 del 1992 che, all'art. 2, quarto comma, disponeva la soppressione, a decorrere dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto (11 luglio 1992), dell'istituto dell'allineamento stipendiale così come previsto dal terzo comma dell'art. 4 del decreto-legge n. 681 del 1982. Nelle ordinanze di rimessione si rileva che questa norma, in quanto destinata ad operare soltanto per il futuro, non avrebbe rappresentato ostacolo all'accoglimento delle domande dei ricorrenti, essendo le stesse fondate su un presupposto (collocamento nello stesso ruolo di un collega dotato di anzianità minore, ma di più favorevole trattamento economico) verificatosi prima di questa data.

 

Così come - aggiungono le stesse ordinanze - non avrebbero potuto rappresentare ostacolo all'accoglimento le condizioni poste per il personale di magistratura dall'art. 1 della legge n.265 del 1991, dal momento che anche questa legge e' intervenuta successivamente all'evento che avrebbe determinato nei ricorrenti la maturazione del diritto all'allineamento e dal momento che tale evento potrebbe, comunque, ricondursi entro i limiti tracciati per i magistrati dallo stesso art. 1 della legge n.265.

 

Un ostacolo al riconoscimento del diritto sarebbe, invece, derivato - sempre ad avviso dei giudici remittenti - dalla norma "interpretativa" introdotta con l'art. 7, settimo comma, del decreto legge n. 384 del 1992, che ha sanzionato un divieto assoluto e generalizzato di adottare provvedimenti di allineamento stipendiale "ancorche' aventi effetti anteriori all'11 luglio 1992". Senonche' tale norma - per il suo contenuto retroattivo (e falsamente interpretativo) - verrebbe a violare gli artt. 3, 24, 36, 73, 97, 101, 108 e 113 della Costituzione in quanto: a) risulterebbe viziata da irragionevolezza e da eccesso di potere legislativo, non essendo fondata su di una adeguata causa giustificativa e risultando, comunque, priva di natura interpretativa; b) si presenterebbe lesiva di vari principi di rilievo costituzionale, quali quelli dell'affidamento, della trasparenza dei rapporti tra Stato e cittadini, della certezza dei diritti maturati, del diritto di difesa, della sindacabilità degli atti amministrativi, dell'indipendenza e dell'autonomia della funzione giurisdizionale, dell'imparzialità e buon andamento della amministrazione; c) sarebbe suscettibile di produrre un'ingiustificata disparità di trattamento tra coloro che hanno già conseguito, in sede amministrativo o giurisdizionale, l'allineamento stipendiale e coloro che, pur trovandosi nella stessa situazione, non possono, invece, più conseguirlo.

 

Nell'ordinanza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio l'impugnativa viene altresì estesa all'art. 2, quarto comma, del decreto legge n. 333 del 1992, nei cui confronti viene contestata la violazione degli artt. 3, 36, 97 e 101 della Costituzione, dal momento che la stessa disposizione, mediante la soppressione dell'istituto dell'allineamento, ma non dei trattamenti "personalizzati", avrebbe reintrodotto la possibilità, nell'ambito della magistratura, di forti differenze retributive, lesive dei principi di unicità della giurisdizione e di uniformità del trattamento economico a parità di funzioni e di anzianità nella funzione.

 

5. - Vanno preliminarmente prese in esame le eccezioni di inammissibilità per difetto di rilevanza che - con riferimento ai ricorsi proposti da magistrati - sono state sollevate, sotto profili diversi, sia dall'Avvocatura dello Stato che da alcune parti private.

 

Ad avviso dell'Avvocatura la non rilevanza delle questioni discenderebbe dal fatto che la disciplina sanzionata, con riferimento al personale di magistratura, dalla legge 8 agosto 1991, n. 265, non consentirebbe ai ricorrenti di ottenere l'allineamento stipendiale richiesto: e questo in relazione ai divieti posti nell'art. 1 di tale legge, dove, ai fini del riconoscimento dell'allineamento, viene esclusa la possibilità di valutare elementi retributivi derivanti da posizioni personali di stato ovvero da più favorevoli trattamenti economici conseguiti in settori diversi dalle carriere dirigenziali dell'amministrazione statale (primo comma), mentre, d'altro canto, - nel caso di accesso alla magistratura mediante concorso di primo grado - viene preclusa anche l'applicabilità di trattamenti di maggior favore maturati in conseguenza di allineamenti conseguiti in precedenti carriere (terzo comma). Limiti questi che - ad avviso dell'Avvocatura - si verrebbero tutti a manifestare in relazione alla posizione dei ricorrenti ed a quella dei loro colleghi (già appartenenti uno al ruolo dei referendari presso il Senato della Repubblica e l'altro al ruolo legale presso la Banca d'Italia) il cui trattamento stipendiale e' stato assunto come parametro di riferimento. Tali limiti -sempre ad avviso dell'Avvocatura - verrebbero a operare nonostante che, rispetto alle domande avanzate nei giudizi a quibus, i presupposti per l'allineamento fossero venuti a maturare anteriormente alla data di entrata in vigore di questa legge, dal momento che alla legge n. 265 del 1991 andrebbe, comunque, riconosciuta una natura interpretativa e, pertanto, un'efficacia retroattiva.

 

L'eccezione non può essere accolta.

 

In proposito, si può solo osservare che le ordinanze di rimessione hanno adeguatamente motivato in ordine alla rilevanza delle questioni sollevate, escludendo che le limitazioni di cui all'art. 1 della legge n. 265 del 1991 potessero applicarsi nei giudizi a quibus: e questo in relazione sia alla possibilità di equiparare - alla luce degli indirizzi espressi dalla giurisprudenza amministrativa - le carriere svolte presso il Senato e la Banca d'Italia alle carriere dirigenziali dello Stato, sia alla legittimità del riferimento, anche per quanto concerne il personale di magistratura, a migliori trattamenti retributivi conseguiti da colleghi in precedenti carriere e conservati ad personam ai sensi dell'art. 202 del d.P.R.10 gennaio 1957, n. 3 e dell'art. 12 del d.P.R. 28 dicembre 1970 n.1079. A tale rilievo va aggiunto il fatto che le condizioni fatte valere dai ricorrenti a fondamento delle proprie domande sono venute a maturare prima dell'entrata in vigore della legge n.265 del 1991, la cui disciplina - a differenza di quanto affermato dalla difesa dello Stato - non ha assunto i caratteri della legge interpretativa dotata di forza retroattiva. Questa natura e questa forza risultano, infatti, escluse dagli stessi contenuti innovativi della legge, che, nei primi tre commi dell'art. 1, ha, per la prima volta, esteso al personale di magistratura, con una serie di limitazioni particolari, l'operatività del principio già introdotto per il personale militare dall'art. 4, terzo comma, del decreto-legge n. 681 del 1982 (mentre una disposizione di contenuto interpretativo e' stata, di contro, esplicitamente enunciata soltanto nel quarto comma dello stesso articolo, con riferimento specifico all'art. 5 della legge 6 agosto 1984, n. 425).

 

Alcune parti private (costituitesi nei giudizi promossi dal Tribunale amministrativo regionale del Veneto e dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, rispettivamente con le ordinanze nn. 385 e 587 del 1993) hanno, a loro volta, contestato la rilevanza delle questioni sollevate facendo riferimento al carattere speciale della disciplina che e' stata posta, in tema di allineamento stipendiale dei magistrati, dalla legge 6 agosto 1991, n. 265 (e, già in precedenza, in tema di riconoscimento dell'anzianità, dall'art. 4, nono comma, della legge 6 agosto 198, n.425): disciplina che, in assenza di una abrogazione esplicita, non sarebbe stata intaccata dalle disposizioni di carattere generale successivamente introdotte sia dall'art. 2, quarto comma, del decreto-legge n. 384 del 1992, oggetto di impugnativa.

 

Anche questa eccezione non può essere accolta.

 

Se e' vero, infatti, che la legge n. 265 del 1991 ha dettato una disciplina di carattere speciale riferita al solo personale di magistratura, e' anche vero che il primo comma dell'art. 1 di tale legge, nell'estendere l'applicazione dell'art. 4, terzo comma, del decreto legge n. 681 del 1982 al personale di cui alla legge 2 aprile 1979, n. 97 (magistrati ordinari e amministrativi; magistrati della giustizia militare; avvocati dello Stato) ha operato un rinvio alla precedente normativa che non può essere qualificato di tipo materiale (o fisso), bensì di tipo formale (o dinamico). Interpretazione questa che viene a trovare fondamento, oltre che nella lettera della norma di richiamo, nei contenuti della norma richiamata, suscettibili di essere trasposti nell'ambito della prima non nella integralità del testo formulato con l'art. 4, terzo comma, del decreto-legge n. 681, quanto con riferimento generale all'istituto dell'allineamento stipendiale che in tale norma ha trovato la sua applicazione originaria. Di conseguenza, la soppressione di tale istituto operata dall'art. 2, quarto comma, del decreto-legge n.333 del 1992 (soppressione poi confermata ed ampliata nei suoi effetti dall'art. 7, settimo comma, del decreto-legge n. 384 del 1992) non può non avere inciso anche nel contenuto della disciplina posta dall'art.1 della legge n. 265 del 1991, determinando l'abrogazione implicita e indiretta di questa norma, nella parte in cui a tale istituto aveva fatto riferimento.

 

Si deve, dunque, riconoscere che le norme della cui legittimità costituzionale si controverte - in quanto applicabili nei confronti delle posizioni fatte valere dai ricorrenti - assumono rilevanza ai fini della definizione dei giudizi a quibus.

 

6.- Nel merito, le questioni non sono fondate.

 

Per quanto concerne l'art. 7, settimo comma, del decreto- legge 19 settembre 1992, n. 384, tutte le censure prospettate nelle varie ordinanze trovano la loro premessa comune nel carattere retroattivo della disciplina posta con tale disposizione o, più precisamente, nel fatto che la stessa disposizione, pur utilizzando il modulo formale proprio della norma interpretativa abbia, in realtà, introdotto una disciplina del tutto nuova, dotata di forza retroattiva. Tale disciplina, proprio in relazione alla sua retroattività - oltre a incorrere in un eccesso di potere conseguente all'uso deviato dello strumento dell'interpretazione autentica - avrebbe operato una lesione di alcuni valori costituzionali (affidamento e certezza dei rapporti giuridici, per quanto concerne l'incidenza della norma su diritti già maturati; diritto di difesa e autonomia della funzione giurisdizionale, per quanto concerne gli effetti preclusivi prodotti dalla stessa norma sulle controversie giudiziarie già iniziate), configurandosi altresì viziata da irragionevolezza, anche in relazione ai principi di eguaglianza e di buon andamento della pubblica amministrazione di cui agli artt. 3 e 97 della Costituzione.

 

Di tale prospettazione possono essere condivise le premesse, ma non le conseguenze.

 

In realtà, nessun dubbio può sussistere in ordine al fatto che l'art. 7, settimo comma, del decreto-legge n. 384 non configuri, al di là della formula lessicale adottata, una norma di interpretazione autentica, bensì una norma del tutto nuova destinata a svolgere i propri effetti ex tunc, mediante un'estensione retroattiva della sfera di efficacia dell'art. 2, quarto comma, del decreto-legge n. 333 del 1992. Concorrono a convalidare questa lettura tanto il rilievo che la norma "interpretata" - molto lineare nella sua enunciazione - non dava adito a divergenze tali da richiedere una soluzione in via normativa, quanto la considerazione che la norma "interpretante", anziche' far emergere uno dei possibili significati della norma "interpretata", ha aggiunto un elemento del tutto nuovo ed estraneo alla norma "interpretata", consistente nel conferimento a tale norma di una forza retroattiva: con la conseguenza - estranea di massima ai caratteri propri dell'interpretazione autentica - di estendere la propria efficacia non fino alla data di entrata in vigore della norma "interpretata" (e cioe' fino all'11 luglio 1992), ma anche ai rapporti insorti anteriormente a tale data.

 

Da tale natura, innovativa e retroattiva, della norma impugnata non possono, peraltro, farsi discendere le conseguenze di illegittimità che le ordinanze di rinvio hanno inteso affermare.

 

Questa Corte ha ripetutamente riconosciuto sia la legittimità di norme legislative dotate di efficacia retroattiva, dal momento che il principio di irretroattività della legge - pur riconosciuto come principio generale dall'art. 11, primo comma, delle disposizioni preliminari del codice civile - non ha ottenuto in sede costituzionale (salvo quanto espresso nell'art.25 della Costituzione con riferimento alla materia penale) una garanzia specifica: di talche' - come e' stato più volte sottolineato (v. sentt. n.283 del 1993; nn. 190 e 822 del 1988; n. 36 del 1985) - la possibilità di adottare norme dotate di efficacia retroattiva (anche indipendentemente dal loro eventuale carattere interpretativo) non può essere esclusa, ove le norme stesse vengano a trovare un'adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si pongano in contrasto con altri principi o valori costituzionali specificamente protetti, così da evitare che la disposizione retroattiva possa "trasmodare in un regolamento irrazionale ed arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti" (v.sentt.nn. 822 del 1988 e 349 del 1985).

 

D'altro canto, rispetto alla fattispecie in esame, non può assumere rilievo il fatto che la norma impugnata si sia venuta, nella sostanza, a configurare come norma innovativa dotata di forza retroattiva anziche' come vera e propria norma interpretativa. Questo elemento, assunto isolatamente, non appare, infatti, idoneo a integrare un vizio della legge (sotto il profilo denunciato dell'eccesso di potere legislativo), ove si consideri che tanto nel caso della norma retroattivamente innovativa che in quello della norma propriamente interpretativa (equivalenti nei loro effetti: v. sentt. nn. 118 del 1957, 36 del 1985 e 123 del 1988), la legge e' pur sempre "soggetta al controllo di conformità al principio di ragionevolezza secondo criteri analoghi" (v. sent. n. 402 del 1993). E questo tanto più ove si constati - come e' dato constatare attraverso l'interpretazione logica e sistematica della norma in questione - che, nella specie, l'impiego della formula propria dell'interpretazione autentica e' stato operato non tanto per aggirare il principio di irretroattività della legge, quanto per rendere più generali e incondizionati gli effetti di abrogazione in precedenza disposti.

 

7. - Poste queste premesse, occorre, dunque, verificare se la norma in esame, in relazione alla sua efficacia retroattiva, possa aver apportato lesione ai principi e valori costituzionali richiamati dalle ordinanze.

 

Su questo piano, va innanzitutto escluso che l'art.7, settimo comma, del decreto-legge n. 384 possa aver leso un principio costituzionale di affidamento o di certezza dei rapporti giuridici per il fatto di avere inciso su diritti già maturati o "quesiti". Anche a voler ammettere la possibilità di configurare - secondo taluni indirizzi emersi nella giurisprudenza - un diritto all'allineamento stipendiale maturato prima dell'entrata in vigore della legge n. 265 del 1991 (che, come si ricorda va, ha, per la prima volta, regolato l'istituto a favore del personale di magistratura), resta pur sempre il fatto che dalla disciplina costituzionale in vigore non e' dato desumere, per i diritti di natura economica connessi al rapporto di pubblico impiego, una particolare protezione contro l'eventualità di norme retroattive: di talche', su questo piano, il vero limite nei confronti di norme di tale natura non può essere ricercato altro che nell'esigenza del rispetto del principio generale di ragionevolezza.

 

Ma va anche escluso che la norma impugnata - per quanto suscettibile di trovare applicazione nei giudizi in corso - possa aver violato il diritto di difesa dei ricorrenti o l'autonomia del potere giurisdizionale. Il legislatore, nel formulare l'art. 7, settimo comma, del decreto-legge n.384, ha agito, infatti, nell'ambito naturale della sua funzione di produzione normativa senza ledere, di contro, la sfera propria del potere giurisdizionale. Basti solo considerare che la disciplina adottata mediante tale disposizione - oltre a non risultare lesiva di giudicati già formatisi - non ha sottratto ai ricorrenti alcun strumento di tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della pubblica amministrazione, ne' ha menomato l'autonomia riconosciuta al potere giurisdizionale nell'applicazione del diritto oggettivo ai fini della definizione delle singole controversie (v. sentt. nn. 39 del 1993; 455 del 1992; 155 del 1990).

 

Vanno, pertanto, disattese le censure formulate con riferimento agli artt. 24, 73, 101, 108 e 113 della Costituzione.

 

8. - La norma impugnata non appare, d'altro canto, viziata neppure sotto il profilo della irragionevolezza o della lesione dei principi di eguaglianza e di buon andamento di cui agli artt. 3 e 97 della Costituzione.

 

In proposito va ricordato che l'istituto dell'allineamento stipendiale veniva introdotto con l'art. 4, terzo comma, del decreto-legge n. 681 del 1982 - inizialmente con riferimento ad una particolare e limitata categoria di pubblici dipendenti - proprio al fine di ovviare a situazioni di disparità di trattamento retributivo determinatesi, nell'ambito di una stessa qualifica, in relazione al riconoscimento di trattamenti "personalizzati", non collegati a specifiche situazioni di stato del beneficiario e conseguenti al "trascinamento" di anzianità pregresse maturate in qualifiche e ruoli diversi.

 

Con l'applicazione di tale istituto s'intendeva cioe' restaurare il principio di eguaglianza (individuabile, nella specie, nella parità di retribuzione a parità di funzioni e di anzianità), principio che si riteneva leso dal fatto che soggetti dotati nella qualifica di anzianità pari o maggiore potessero godere di una retribuzione inferiore a quella di fatto goduta da soggetti inseriti nella stessa qualifica con anzianità pari o minore.

 

Senonche' tale istituto, nella sua applicazione pratica, mentre, da un lato, mirava a eliminare diseguaglianze insorte nell'ambito delle singole qualifiche, dall'altro faceva emergere nuove e maggiori diseguaglianze tra le diverse qualifiche e le diverse categorie: diseguaglianze, per di più, determinate da fattori del tutto casuali (oltre che imprevedibili e incontrollabili) quali quelli conseguenti all'assunzione nell'ambito di una determinata categoria o qualifica di soggetti dotati di trattamenti di maggiore favore conservati ad personam.

 

In altri termini, se il riconoscimento di trattamenti "personalizzati", nell'ambito del pubblico impiego, può trovare giustificazione in relazione alla giusta esigenza di evitare, nei confronti di singoli dipendenti, arretramenti retributivi conseguenti da sviluppi e mutamenti delle loro carriere, più difficile resta giustificare l'estensione di un trattamento riconosciuto ad personam ad una intera categoria di dipendenti conseguente al fatto, del tutto accidentale, che un soggetto dotato di un trattamento "personalizzato" più favorevole venga a inserirsi nell'ambito di tale categoria, affiancandosi a colleghi che, se pur in possesso di una maggiore anzianità, godono di una retribuzione minore. Questa estensione, pur diretta a eliminare una diseguaglianza, ha finito, infatti, per creare - come sopra si accennava - diseguaglianze ulteriori e per alterare il principio secondo cui la progressione nel trattamento economico deve corrispondere a criteri prefissati nella legge o nei contratti collettivi, e collegarsi, in ogni caso, a miglioramenti nella qualità e quantità delle prestazioni effettuate.

 

9. - L'irrazionalità della situazione che si e' andata determinando a mano a mano che l'istituto dell'allineamento stipendiale si e' esteso nelle sue applicazioni pratiche - con conseguenti difficoltà di controllo, previsione e programmazione della spesa per il settore del pubblico impiego - inducevano, dunque, il legislatore ad adottare la norma soppressiva di cui all'art. 2, quarto comma, del decreto-legge n. 333 del 1992: norma collegata al disegno generale di riforma del pubblico impiego - anche in vista del riequilibrio della finanza pubblica - che ha condotto all'adozione sia della legge di delegazione 23 ottobre 1992, n.421, che del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n.29, dove, tra l'altro, e' stata disposta l'abrogazione di tutte le disposizioni che prevedono "automatismi" suscettibili di influenzare il trattamento economico fondamentale ed accessorio dei dipendenti pubblici (art. 2, lett. o, L.n.421/92 e art. 72, secondo comma, D. Lgs. n. 29/93).

 

Senonche', con l'art. 2, quarto comma, del decreto-legge n.333 del 1992, la soppressione dell'istituto dell'allineamento stipendiale veniva prevista "a decorrere dalla data di entrata in vigore" dello stesso decreto (e cioe' dall'11 luglio 1992), con una limitazione temporale che, riducendo la portata generale della scelta abrogativa, rischiava, in pratica, di determinare "una parziale neutralizzazione degli effetti" della riforma (v.Relazione al disegno di legge n. 1581 presentato dal Governo alla Camera dei deputati il 19 settembre 1992). Da qui l'esigenza di intervenire nuova mente sulla norma abrogatrice, ampliandone la portata anche alle situazioni "aventi effetti anteriori all'11 luglio 1992".

 

Questa ulteriore scelta, operata con l'art. 7, settimo comma, del decreto-legge n. 384 del 1992 - verso cui s'incentra la censura in esame - non può, dunque, ritenersi viziata da irragionevolezza, essendo stata determinata dall'esigenza di impedire, con il massimo di efficacia generale, l'ulteriore applicazione di un istituto che, nella pratica, aveva determinato inconvenienti e distorsioni maggiori di quelle cui si intendeva ovviare. Inconvenienti e distorsioni che l'ulteriore sopravvivenza dell'istituto - per quanto limitata alle sole situazioni maturate prima dell'11 luglio 1992 - non avrebbe fatto altro che estendere ed aggravare.

 

Ne' - rispetto alla particolarità della situazione che il legislatore si e' trovato a dover affrontare - può assumere rilievo il richiamo al principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, principio che risulterebbe violato in conseguenza della disparità di trattamento determinatasi tra coloro che hanno potuto già acquisire l'allineamento (in conseguenza di un provvedimento amministrativo o di una sentenza definitiva che abbia riconosciuto il diritto) e coloro che, invece, pur trovandosi in posizione identica ai primi, non sono più in grado di ottenere lo stesso vantaggio. Tale disparità - oltre a fondarsi su evenienze di fatto la cui esistenza non risulta dimostrata - non potrebbe, infatti, giustificare la sopravvivenza, sia pure limitata, di un istituto che si e' voluto espungere radicalmente dall'ordinamento proprio in relazione alla sua intrinseca irrazionalità ed agli effetti sperequativi che andava determinando.

 

Risultano, di conseguenza, infondate anche le censure riferite all'art.3 (sotto i profili della ragionevolezza e dell'eguaglianza) ed all'art. 97 della Costituzione.10. - Si presenta, infine, infondata la questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio (R.O. n. 358/1993) nei confronti dell'art. 2, quarto comma, del decreto-legge n. 333 del 1992, per violazione degli artt. 3, 36, 97 e 101 della Costituzione.

 

Ad avviso del giudice remittente, questa norma, disponendo la soppressione dell'istituto dell'allineamento stipendiale, risulterebbe lesiva della necessaria uniformità di trattamento dei magistrati - conseguente dal principio di unicità della giurisdizione - dal momento che e' rimasta in vita la possibilità, nell'ambito della magistratura, di meccanismi di "trascinamento" di anzianità pregresse e di trattamenti economici "personalizzati" maturati prima dell'accesso alla funzione giurisdizionale.

 

In proposito può valere il richiamo a quanto sopra si osservava in ordine alla ragionevolezza delle scelte operate in materia dal legislatore sia con il decreto-legge n.333 che con il decreto-legge n. 384 del 1992: e cioe' al fatto che la soppressione dell'istituto dell'allineamento, operata con tali norme, si era imposta - oltre che per esigenze di contenimento della spesa pubblica - per la necessità di evitare sperequazioni ancora più gravi di quelle cui, in partenza, si voleva rimediare. Ed e' proprio il rispetto del principio di eguaglianza e di ragionevolezza a non consentire che una particolare disparità di trattamento possa essere superata mediante l'adozione di strumenti suscettibili di aggravare l'area della diseguaglianza, determinando disparità ulteriori, più diffuse e più irrazionali.

 

Anche rispetto alla norma in esame non possono, pertanto, valere le censure formulate dalla ordinanza di rinvio sotto i profili sopra richiamati.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi;

 

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate con le ordinanze di cui in epigrafe nei confronti dell'art. 7, settimo comma, del decreto- legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonche' disposizioni fiscali), convertito dalla legge 14 novembre 1992, n. 438, e dell'art. 2, quarto comma, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, in riferimento agli artt. 3, 24, 36, 73, 97, 101, 108 e 113 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14/01/94.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Enzo CHELI, Redattore

Depositata in cancelleria il 26/01/94.