Sentenza n. 128 del 1993

CONSULTA ONLINE

 

SENTENZA N. 128

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1, terzo e quarto comma, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), nonchè della legge 8 agosto 1992, n.359, nella parte in cui dispone la conversione delle disposizioni impugnate, promossi con ricorsi delle Regioni Lombardia e Toscana, notificati il 7, 10 agosto e 12 settembre 1992, depositati in cancelleria il 14, 18 agosto e 19 settembre 1992 ed iscritti ai nn. 61, 62 e 65 del registro ricorsi 1992.

 

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 26 gennaio 1993 il Giudice relatore Antonio Baldassarre;

 

uditi l'Avvocato Valerio Onida per la Regione Lombardia e l'Avvocato Alberto Predieri per la Regione Toscana e l'Avvocato dello Stato Gaetano Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

l.- Con ricorso regolarmente notificato e depositato la Regione Lombardia ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, terzo e quarto comma, del decreto- legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito con modificazioni nella legge 8 agosto 1992, n. 359, per violazione degli artt. 117, 118, 119 e 81, quarto comma, della Costituzione (in connessione, sotto quest'ultimo profilo, con l'art. 27 della legge 5 agosto 1978, n. 468 e con l'art. 3, sesto comma, della legge 14 giugno 1990, n. 158).

 

l.l.- Secondo la ricorrente, l'autonomia finanziaria garantita alle regioni dall'art. 119 della Costituzione risulterebbe lesa dall'art. 1, terzo comma, del decreto-legge contestato, il quale modifica l'art. 6, secondo e terzo comma, della legge 31 dicembre 1991, n. 415 (Legge finanziaria per il 1992), nel senso che la quota dell'imposta di fabbricazione sugli oli minerali, sui loro derivati e sui prodotti analoghi, è decurtata per l'anno 1992 dall'11,678 per cento al 10,50 per cento, con la consequenziale riduzione del fondo comune, sempre per l'anno 1992, da 6.957 miliardi a 6.632 miliardi. La ricorrente sottolinea che l'art.119 della Costituzione, nell'attuazione ad esso data dalle leggi nn. 281 del 1970 e 158 del 1990, garantisce l'autonomia finanziaria anche mediante la previsione del conferimento in un fondo comune di quote di tributi erariali, tra cui rientra l'imposta di fabbricazione sugli oli minerali.

 

Dopo aver ricordato che negli ultimi anni il legislatore statale, in contrasto con i principi stabiliti dall'art. 119 della Costituzione, ha fatto ricorso all'espediente di fissare annualmente, in sede di legge finanziaria o di legge di accompagnamento o di legislazione speciale, la quota del gettito dell'imposta di fabbricazione sugli oli minerali confluente nel fondo comune, determinandola addirittura in cifra, la ricorrente osserva che la disposizione impugnata incide sulla predetta quota, già sensibilmente decurtata da una precedente riduzione accettata dalle regioni in spirito di collaborazione nella comune azione di contenimento del deficit statale, introducendo un elemento di novità profondamente lesivo dell'autonomia finanziaria regionale: la disposizione impugnata, infatti, interviene nel luglio del 1992 pretendendo di ridurre per l'esercizio già in corso dello stesso anno 1992, il fondo comune, peraltro già ripartito fra le regioni, destinato al finanziamento delle spese necessarie a far fronte alle normali funzioni regionali, compresi i servizi di rilevanza nazionale. E tutto ciò avviene, precisa la ricorrente, nello stesso momento in cui questa Corte ha auspicato una compiuta razionalizzazione del sistema di finanziamento per le regioni, al fine di assicurare la necessaria corrispondenza tra bisogni della collettività regionale e mezzi finanziari, e nel momento in cui la legge n.142 del 1990 ha affermato per le province e per i comuni, che non godono certo dell'autonomia finanziaria costituzionalmente assicurata alle regioni, l'esigenza di godere di risorse proprie e trasferite.

 

In secondo luogo, ad avviso della Regione Lombardia, la disposizione impugnata renderebbe evidente che il sistema di finanza regionale si basa su una finzione, consistente nel continuare a ritenere che il fondo comune sia finanziato con quote di tributi erariali (come imposto dall'art. 119 della Costituzione). La finzione, osserva la Regione, viene disvelata dal meccanismo contenuto nella disposizione contestata, in base al quale il legislatore statale determina in cifra fissa l'importo del fondo, per commisurare poi a questa la percentuale della quota di tributi erariali conferiti al fondo stesso. In tal modo, non si ha una predeterminazione della quota e l'attribuzione alle regioni del gettito effettivamente corrispondente a quella quota, ma si predefinisce l'entità del fondo prescindendo del tutto dal gettito di un determinato tributo e si individua la quota in misura tale da creare un rapporto di corrispondenza con l'importo del fondo.

 

Se il sistema delle quote di gettito confluenti nel fondo, continua la ricorrente, è stato giudicato non contrario a Costituzione, sul presupposto che è comunque assicurato l'ancoraggio del fondo stesso alla quota dei tributi erariali (v. sent. n. 382 del 1990), la stessa cosa non potrebbe più dirsi di fronte a un meccanismo, come quello contenuto nella disposizione impugnata, in forza del quale, in corso d'anno e senza alcun nesso con l'effettivo andamento del gettito del tributo considerato, è stata decurtata la quota da devolvere al fondo al solo fine di ridurre di un importo dato e prestabilito l'ammontare del fondo stesso. In altri termini, precisa la Regione, se l'espressione usata nell'art.119 della Costituzione, per la quale "alle regioni sono attribuite (...) quote di tributi erariali", deve avere ancora un qualche significato, è chiaro che, una volta determinata la quota di riparto, l'entità del gettito devoluto non può che essere quello risultante dall'applicazione al gettito effettivo della percentuale di devoluzione stabilita e le variazioni successive non possono dipendere da interventi del legislatore statale ad nutum, ma devono seguire soltanto il dato fattuale dell'andamento del gettito.

 

Dopo aver ricordato che in un caso del tutto analogo questa Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della legge statale (v. sent. n.116 del 1991), affermando che una riduzione, effettuata in corso d'anno, di una somma da tempo stanziata per interventi connessi a competenze rimaste invariate determina uno squilibrio nell'autonomia finanziaria delle regioni, stante la possibile incidenza su programmi d'intervento e di spesa già adottati e in corso di svolgimento, la ricorrente osserva che la disposizione impugnata degrada le regioni a meri centri di spesa statale.

 

Nè, sempre a suo avviso, la norma contestata può esser giustificata dall'esigenza per lo Stato di contenere la spesa e di ridurre il deficit, poichè tale incontestabile obiettivo non potrebbe esser perseguito alterando le regole dell'autonomia finanziaria delle regioni. In proposito, la ricorrente sottolinea come la spesa regionale non è assimilabile a quella di altri settori, quali la sanità e la previdenza, dove è possibile contenere in concreto la spesa riducendo le prestazioni o prevedendo nuove forme di contribuzione. Al contrario, la riduzione della spesa regionale senza alcuna indicazione dei comparti nei quali dovrebbero operare le decurtazioni non sarebbe altro che un trasferimento alle regioni dell'onere di fronteggiare lo squilibrio finanziario che sulla carta si è inteso sanare. La semplice riduzione del fondo, anzi, si tradurrebbe immediatamente e necessariamente nell'addossamento sui bilanci regionali di un nuovo onere privo dell'indicazione dei mezzi per farvi fronte, con conseguente violazione anche dell'art.81, quarto comma, della Costituzione, come attuato, per le regioni, dall'art. 27 della legge 5 agosto 1978, n. 468.

 

l.2. La Regione Lombardia contesta altresì la legittimità costituzionale dell'art. 1, quarto comma, del decreto-legge n. 333 del 1992, il quale stabilisce che "le misure previste dall'articolo 4, comma 5, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, si applicano, per l'anno 1992, anche in assenza dei livelli obbligatori uniformi di assistenza di cui al comma 1 dello stesso articolo".

 

L'estensione dell'operatività dell'art. 4, quinto comma, della legge n.412 del 1991, che permette alle regioni di ricorrere alla propria e autonoma capacità impositiva ovvero alle altre misure previste dall'art.29 della legge n. 41 del 1986 (erogazione di prestazioni in forma indiretta, maggiorazione delle quote di partecipazione dei cittadini al costo delle prestazioni, eliminazione di alcune prestazioni o loro configurazione come prestazioni aggiuntive a carico del bilancio regionale), pur in mancanza della fissazione, ad opera del Governo, dei livelli obbligatori di uniformità sull'intero territorio nazionale e degli standard organizzativi e operativi da utilizzare per il calcolo del parametro capitario di finanziamento di ciascun livello assistenziale per l'anno 1992, determinerebbe l'addossamento a carico delle regioni di un onere indeterminato, non dipendente da decisioni imputabili alle regioni stesse. In altri termini, conclude la ricorrente, poichè sussiste uno stretto rapporto tra i parametri fissati dallo Stato e la responsabilità finanziaria delle regioni per la spesa eccedente, in conseguenza della mancanza della determinazione dei parametri corrispondenti ai livelli obbligatori uniformi si avrebbe la duplice violazione dell'autonomia finanziaria regionale (art.119 della Costituzione) e del vincolo dell'indicazione dei mezzi di copertura per nuovi oneri gravanti sui bilanci regionali.

 

2. Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, che, riservandosi di sviluppare le proprie difese in successivi scritti, ha comunque chiesto che le questioni sollevate sia no dichiarate inammissibili o infondate.

 

3. Con un distinto ricorso, contenente gli stessi argomenti enunciati nella precedente impugnazione, la Regione Lombardia ha sollevato identiche questioni di legittimità costituzionale nei confronti della legge 8 agosto 1992, n.359, la quale ha convertito, senza modificare le disposizioni impugnate, il decreto-legge n. 333 del 1992.

 

4. Costituitosi anche in questo giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri ha rinnovato la propria richiesta di non fondatezza delle questioni di costituzionalità sollevate.

 

Riguardo alle contestazioni mosse all'art. 1, terzo comma, l'Avvocatura dello Stato osserva in via generale che i rilievi concernenti i profili quantitativi degli stanziamenti statali - peraltro irrilevanti in sede di giudizio di legittimità costituzionale - non tengono conto del fatto che nel fondo comune sono confluiti altri finanziamenti settoriali (la qual cosa avrebbe giustificato l'aumento dell'aliquota del 15 per cento fissata dall'art. 8 della legge n. 281 del 1970) e che, in ogni caso, il fondo comune negli anni 1982-1988 è stato incrementato in misura pari al tasso programmato d'inflazione.

 

Più in particolare, poi, l'Avvocatura dello Stato rileva come la disposizione contestata, lungi dal voler addossare alle regioni maggiori oneri sotto forma di minori entrate, ha invece inteso chiedere alle stesse un doveroso, ancorchè modesto, contributo per il risanamento del disavanzo pubblico, come, del resto, aveva già fatto la legge n. 415 del 1991, giudicata non incostituzionale con la sentenza n. 369 del 1992.

 

Nè, sempre secondo l'Avvocatura dello Stato, potrebbe portare a una pronunzia di accoglimento il fatto che la riduzione del fondo comune sia avvenuta soltanto nel luglio del 1992, poichè questa data, oltre ad avere una giustificazione nelle vicende relative alla fine della passata legislatura e all'inizio della nuova, risponderebbe all'esigenza indilazionabile di avviare una manovra di contenimento del disavanzo pubblico a seguito di un impegno assunto in sede comunitaria. Tenuto conto che la spesa regionale è stata tagliata in conseguenza di una riduzione generalizzata in tutti i settori, non appare conferente all'Avvocatura dello Stato il richiamo alla sentenza n. 116 del 1991 di questa Corte, poichè quest'ultima si riferiva a uno stanziamento già disposto da tempo da una legge pluriennale di spesa incidente in uno specifico settore di competenza regionale. Nel caso, invece, oltre ad essere caratterizzata da una sostanziale esiguità, il taglio tocca spese in buona parte flessibili, cioè quelle di normale funzionamento, così da esaltare le scelte della regione nelle riduzioni da apportare al fine del contenimento del disavanzo pubblico.

 

Relativamente alle contestazioni riguardanti l'art. 1, quarto comma, l'Avvocatura dello Stato osserva che, al pari dell'art. 4 della legge n. 412 del 1991, la disposizione impugnata è caratterizzata dall'urgenza e dalla provvisorietà, così che non è possibile prospettare la lesione dell'art. 81 della Costituzione in presenza di oneri non esattamente definibili, nè la violazione dell'art. 119 della Costituzione, considerato che la discrezionalità delle regioni di avvalersi o meno delle misure previste dall'art. 4 della legge n. 412 del 1991 non appare compromessa.

 

5.- Le stesse questioni di legittimità costituzionale prospettate dalla Regione Lombardia sono state sollevate anche dalla Regione Toscana con un distinto ricorso regolarmente notificato e depositato. Oltre alla violazione degli artt. 81, quarto comma, e 119 della Costituzione, la ricorrente lamenta la lesione di qualsivoglia criterio di ragionevolezza e del principio del buon andamento della pubblica amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione).

 

In particolare, tali parametri sarebbero violati dall'art.1, terzo comma, il quale dispone dall'oggi al domani una riduzione delle somme necessarie a far fronte all'esercizio di funzioni attribuite dallo Stato alle regioni, senza che, re stando invariati gli oneri e i compiti attribuiti alle regioni, sia prevista alcuna forma sostitutiva di contributo statale. Anche a giudizio della Regione Toscana, il taglio di spesa regionale effettuato in corso d'anno, che importa di attingere retroattivamente ad erogazioni già impegnate, è stato dichiarato incostituzionale dalle sentenze nn. 98 e 116 del 1991 per violazione del principio della programmazione e del bilancio, nonchè dell'autonomia finanziaria regionale.

 

Gli stessi principi sarebbero violati, secondo la Regione Toscana, dall'art.1, quarto comma, del decreto-legge impugnato, poichè tale articolo, nel permettere il ricorso agli strumenti previsti dall'art. 4 della legge n.412 del 1991 anche in mancanza di livelli obbligatori uniformi, svincola quel potere regionale da parametri oggettivi capi tari di finanziamento del servizio e finisce con l'addossare per intero alle regioni l'onere dell'eccedenza della spesa sanitaria sulla quota del fondo sanitario nazionale attribuita dallo Stato, senza che la regione possa conservare quel potere di scelta che aveva indotto questa Corte a una pronunzia d'infondatezza in un caso simile (v. sent. n. 356 del 1992).

 

Anche la disposizione esaminata, pretendendo di operare in corso di esercizio finanziario, sarebbe irragionevole per violazione di ogni logica programmatoria.

 

Tutte e due le disposizioni impugnate, per il fatto di intervenire ad anno finanziario inoltrato, sarebbero, ad avviso della Regione Toscana, contrarie al principio dell'affidamento, che, a norma dell'art. 3 della Costituzione, dovrebbe operare nei rapporti fra i soggetti pubblici in relazione ad attività regolate da una logica programmatoria.

 

6.- Anche in questo giudizio si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri facendo riserva di svolgimento delle proprie difese e chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.

 

7.- In prossimità dell'udienza la Regione Toscana ha presentato una memoria con la quale ha sviluppato gli argomenti già addotti nel ricorso, sottolineando in particolare che, attesa la fondamentale funzione svolta dal fondo comune nel sistema della finanza regionale, le disposizioni impugnate si porrebbero in contrasto con la razionalizzazione finanziaria auspicata da questa Corte (sent. n. 369 del 1992

) e con i criteri minimi di una corretta programmazione e una sana politica di bilancio.

 

8.- Anche l'Avvocatura dello Stato ha presentato in prossimità dell'udienza un'ulteriore memoria, nella quale sottolinea, soprattutto, che l'art. 119 della Costituzione enuncia due concetti in contrasto fra loro: l'autonomia finanziaria regionale e il coordinamento di questa con la finanza statale e locale, da attuarsi con legge ordinaria.

 

Di qui deriverebbe, secondo la difesa erariale, l'insussistenza di una reale garanzia costituzionale dell'autonomia finanziaria regionale, essendo possibile per la legge statale comprimere a suo piacimento la potestà finanziaria delle regioni. In tal senso, sembrerebbe muoversi anche la giurisprudenza costituzionale, che ha sempre negato alle regioni una garanzia quantitativa di risorse finanziarie e ha individuato il solo limite per il legislatore statale nel mantenere una corrispondenza fra bisogni e mezzi.

 

Considerato in diritto

 

l.- Con distinti ricorsi, regolarmente notificati e depositati, le Regioni Lombardia e Toscana hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale nei confronti dell'art. 1, terzo e quarto comma, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito con modificazioni nella legge 8 agosto 1992, n. 359. Mentre la Regione Toscana contesta la legittimità costituzionale delle disposizioni appena menzionate in riferimento agli artt. 3, 81, quarto comma, 97 e 119 della Costituzione, la Regione Lombardia sospetta l'incostituzionalità delle medesime disposizioni di legge per violazione degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, nonchè dell'art. 81, quarto comma, come attuato, per quanto riguarda la finanza regionale e locale, dall'art. 27 della legge 5 agosto 1978, n.468 (Riforma di alcune norme di contabilità generale dello Stato in materia di bilancio) e dall'art. 3, sesto comma, della legge 14 giugno 1990, n. 158 (Norme di delega in materia di autonomia impositiva delle regioni e altre disposizioni concernenti i rapporti finanziari tra lo Stato e le regioni). La Regione Lombardia ha sollevato altresì ricorso contro la legge di conversione del decreto-legge impugnato (legge 8 agosto 1992, n.359), nella parte in cui dispone la conversione in legge, peraltro senza modificazioni, dell'art. 1, commi terzo e quarto, del decreto- legge già impugnato.

 

Poichè i ricorsi hanno ad oggetto disposizioni identiche o fra loro connesse, i relativi giudizi possono essere riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.

 

2.- La prima delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle ricorrenti concerne l'art. 1, terzo comma, del decreto-legge n. 333 del 1992, il quale dispone: "Nel comma 2 dell'art. 5 della legge 31 dicembre 1991, n. 415, le parole '(...) è ridotta all'11,678 per cento sono sostituite dalle parole '(...) è ridotta al 10,50 per cento. E al comma 3 dello stesso articolo le parole '(...) è stabilito in lire 6.957 miliardi (...)' sono sostituite con le parole '(...) è stabilito in lire 6.632 miliardi (...)".

 

Questa disposizione, per divenire significativa, dev'essere posta in connessione con l'art. 5, secondo e terzo comma, della legge n. 415 del 1991, nel quale sono contenute le seguenti proposizioni normative. Nel secondo comma si stabilisce che: "Per l'anno 1992 la quota del 15 per cento dell'imposta di fabbricazione sugli oli minerali, loro derivati e prodotti analoghi, indicata nell'art. 8, primo comma, lettera a), della legge 16 maggio 1970, n. 281, è ridotta all'11,678 per cento". Nel terzo comma dello stesso articolo si dispone che: "Il fondo comune per l'anno 1992 è stabilito in lire 6.957 miliardi (...)".

 

A seguito delle modifiche apportate all'appena citato art.5 della legge n. 415 del 1991 dalla disposizione impugnata, sono state prodotte nell'ordinamento due distinte norme, della cui costituzionalità dubitano le ricorrenti. Innanzitutto, la quota, destinata a confluire nel fondo comune, afferente all'imposta di fabbricazione sugli oli minerali, sui loro derivati e sui prodotti analoghi indicata nell'art. 8, primo comma, lettera a), della legge n. 281 del 1970, viene decurtata, con riferimento all'esercizio finanziario del 1992, dall'11,678 per cento al 10,50 per cento. Nello stesso tempo, sempre per l'esercizio finanziario 1992, l'ammontare globale del fondo comune viene ridotto da 6.957 miliardi di lire a 6.632 miliardi di lire.

 

Ad avviso delle ricorrenti, nello stabilire le norme ora precisate, l'art.1, terzo comma, del decreto-legge n. 333 del 1992 si pone in contrasto, prima di tutto, con l'art. 119, secondo comma, della Costituzione, il quale esige che alle regioni siano attribuite quote di tributi erariali.

 

Per la Regione Lombardia, infatti, la disposizione contestata predeterminerebbe l'entità del fondo comune indipendentemente dal gettito del tributo considerato, la cui quota da devolvere al fondo stesso verrebbe definita soltanto a posteriori in modo da adeguarla alla cifra assoluta fissata come ammontare globale del fondo medesimo.

 

In secondo luogo - e questo è un profilo sollevato da ambedue le ricorrenti - l'art. 1, terzo comma, del decreto- legge n. 333 del 1992, intervenendo a esercizio finanziario inoltrato per ridurre una quota d'imposta destinata al fondo comune, renderebbe evidente la mancanza di qualsiasi nesso della determinazione della quota stessa con l'effettivo andamento del gettito del tributo considerato, di modo che la garanzia apprestata dall'art. 119, secondo comma, della Costituzione, relativa alla certezza delle risorse finanziarie assicurate alle regioni, risulterebbe svuotata da un intervento del legislatore statale di carattere arbitrario e non ancorato a dati oggettivi. Di qui deriverebbe, secondo la Regione Toscana, anche una violazione del principio di ragionevolezza e del buon andamento delle amministrazioni pubbliche (artt. 3 e 97 della Costituzione), nonchè, in considerazione della natura sostanzialmente retroattiva dell'intervento, una lesione del principio dell'affidamento, estensibile pure ai rapporti tra soggetti pubblici operanti secondo le regole della programmazione (art. 3 della Costituzione).

 

Infine, sempre a giudizio di ambedue le ricorrenti, la disposizione contestata, non essendo accompagnata da una correlativa riduzione delle funzioni poste a carico delle regioni, sarebbe lesiva tanto del principio della programmazione finanziaria (art. 119 della Costituzione) quanto di quello del bilancio (art. 81, quarto comma, della Costituzione), sul presupposto che, per un verso, interferirebbe in corso d'anno sullo svolgimento di progetti di spesa già avviati e, per altro verso, farebbe venir meno retroattivamente la copertura finanziaria di interventi già deliberati.

 

Va aggiunto che la Regione Lombardia afferma, nella parte finale e riassuntiva del ricorso, di dubitare della costituzionalità della disposizione impugnata anche sotto il profilo degli artt. 117 e 118 della Costituzione. Ma, poichè su tali censure non si riscontra alcuno svolgimento argomentativo negli atti difensivi della Regione, il ricorso, per la parte che le riguarda, va dichiarato inammissibile per carenza assoluta di motivazione (v., da ultimo, la sent. n.343 del 1991).

 

3.- Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle ricorrenti nei confronti dell'art. 1, terzo comma, del decreto-legge n. 333 del 1992 per violazione dell'art. 119, secondo comma, della Costituzione non sono fondate.

 

Ai sensi dell'art. 8 della legge 16 maggio 1970, n. 281 (Provvedimenti finanziari per l'attuazione delle regioni a statuto ordinario), l'ammontare del fondo comune ivi previsto è commisurato al gettito annuale delle quote dei tributi erariali indicate nello stesso articolo, fra le quali è ricompresa una quota dell'imposta di fabbricazione sugli oli minerali, sui loro derivati e sui prodotti analoghi (lettera a). Dal 1982, cioè da quando ha cessato di avere applicazione la legge 10 maggio 1976, n. 356, la determinazione delle risorse da devolvere al fondo comune ai sensi del ricordato art. 8 avviene di anno in anno, generalmente ad opera della legge finanziaria, secondo un sistema per il quale l'ammontare del fondo stesso è stato commisurato all'entità fissata per l'anno precedente, maggiorata, almeno in via tendenziale, di un importo pari al tasso programmato di inflazione. Sebbene, nel corso degli anni successivi, siano confluiti nel fondo comune vari altri finanziamenti iscritti per l'innanzi in diversi capitoli del bilancio statale (ad esempio, fondi per gli asili nido, per i consultori familiari, per l'Onmi) e sebbene lo stesso fondo subisca annualmente aggiustamenti o arrotondamenti, la base storica dell'ancoraggio del fondo medesimo a quote di tributi erariali è stata mantenuta nella sostanza. E, anche se il sistema adottato rappresenta una soltanto delle possibilità attuative dell'art. 119, secondo comma, della Costituzione poste a disposizione del legislatore nell'esercizio della sua discrezionalità politica di interpretazione delle norme costituzionali, non si può dire che, per l'aspetto considerato, il sistema di determinazione degli apporti al fondo comune risulti obiettivamene disancorato del tutto dall'ammontare del gettito annuale riferibile alle quote di tributi erariali indicate dalla legge e debba, pertanto, esser dichiarato contrario a Costituzione.

 

Nel ridurre la quota dell'imposta di fabbricazione sugli oli minerali e sui loro derivati e prodotti analoghi da devolvere al fondo comune dall'11,678 per cento al 10,50 per cento e nel determinare, consequenzialmente, l'ammontare globale del fondo per il 1992 da 6.957 miliardi di lire a 6632 miliardi di lire, la disposizione impugnata si uniforma al sistema di determinazione seguito da più di un decennio per la definizione delle quote di tributi erariali destinate al fondo comune. Più precisamente, la percentuale ridotta del 10,50 per cento è stata applicata all'ammontare dei versamenti di due anni prima relativi all'imposta sugli oli minerali e sui loro derivati e prodotti analoghi, ai sensi dell'art. 8, secondo comma, della legge n. 281 del 1970, e la conseguente riduzione della quota di tributo erariale da destinare al finanziamento delle funzioni regionali è stata, poi, calcolata sull'entità complessiva del fondo comune già definita per il 1992 allo scopo di rideterminare la cifra globale.

 

In altri termini, la vicenda oggetto della presente impugnazione non è sostanzialmente diversa, sotto il profilo ora considerato, da quella giudicata non contraria all'art. 119 della Costituzione con la sentenza n. 382 del 1990, trattandosi in questo caso, come in quello, della riduzione in termini percentuali della quota di un tributo erariale da devolvere al fondo comune, con conseguente rideterminazione dell'ammontare globale del fondo stesso per l'anno cui si riferisce la predetta riduzione.

 

4.- La conclusione di non fondatezza non può essere modificata dalla considerazione della circostanza aggiuntiva - sulla quale insistono molto le ricorrenti - concernente il fatto che l'intervento del legislatore statale diretto a ridurre la quota da devolvere al fondo comune è stato posto in essere nel corso dello stesso anno finanziario cui si riferisce la decurtazione adottata.

 

In proposito è opportuno precisare che questa Corte è ben consapevole di aver affermato in recenti pronunzie (v. sentt. nn. 98 e 116 del 1991; v. anche sentt. 283 del 1991 e 356 del 1992) che l'autonomia finanziaria garantita alle regioni dall'art. 119 della Costituzione risulta indubbiamente violata quando il legislatore statale, intervenendo nel corso di svolgimento dell'esercizio finanziario di un certo anno, procede alla riduzione di somme già trasferite alle regioni e da queste legittimamente impegnate o spese mediante decisioni adottate nell'ambito dello stesso esercizio finanziario (o, addirittura, di esercizi precedenti). La stessa Corte ha, anzi, precisato in quelle occasioni che una riduzione di risorse disposta nel modo indicato non può non determinare uno squilibrio nella sfera di autonomia finanziaria costituzionalmente assicurata alle regioni e, quindi, nei confronti di una corretta attività di bilancio, dovuto alla possibile interferenza di quegli interventi sui programmi di spesa già adottati e in corso di svolgimento.

 

Tuttavia, occorre sottolineare che la questione sottoposta alla Corte nell'attuale giudizio presenta particolarità tali che non ne permette l'assimilazione ai casi precedentemente giudicati.

 

La più importante differenza risiede nel fatto che la disposizione ora impugnata non contiene un intervento mirato al solo contenimento delle spese regionali, ma prevede una manovra complessiva diretta a imporre un taglio generalizzato della spesa amministrata da tutti gli enti territoriali, al fine di coinvolgere questi ultimi, senza eccezione alcuna, nella difficile opera di risanamento dei conti pubblici. Più precisamente, mentre l'art. 1, terzo comma, del decreto-legge n. 333 del 1992 provvede alla riduzione del 5 per cento del fondo comune destinato alle spese per il normale funzionamento delle regioni a statuto ordinario, il comma precedente dello stesso articolo stabilisce un'identica detrazione riguardo ai finanziamenti a favore delle province e dei comuni. Nello stesso tempo, gli artt. 3 e 4 del medesimo decreto-legge intervengono sulla spesa dello Stato operando un taglio di l.500 miliardi di lire sul bilancio della difesa per l'anno 1992, oltrechè stabilendo, sempre per lo stesso anno, il blocco della facoltà di impegnare somme per determinate spese e la destinazione ad economie di bilancio delle quote dei fondi globali non utilizzate alla data di entrata in vigore del decreto-legge medesimo. In definitiva, quella ora in considerazione è una manovra finanziaria di carattere generale, diretta a far fronte a una situazione di emergenza del disavanzo nel settore pubblico allargato, che, perciò stesso, richiede un impegno solidale di tutti gli enti territoriali erogatori di spesa, di fronte al quale la garanzia costituzionale dell'autonomia finanziaria delle regioni non può fungere da impropria giustificazione per una singolare esenzione.

 

Inoltre, non è neppure priva di rilievo la circostanza che, a differenza dei casi precedenti, la riduzione ora contestata non concerne il finanziamento di un determinato settore o di una individuata erogazione, ma attiene a un fondo destinato a finanziare le spese correnti delle regioni a statuto ordinario (artt. 1 e 2 della legge 14 giugno 1990, n.158).

 

La commisurazione dell'oggetto della decurtazione operata ad un fondo destinato a finanziare tutte le spese correnti - al cui interno, oltre a voci non comprimibili (ad esempio: salari, stipendi, affitti), sono ricomprese anche spese suscettibili di graduazione in relazione all'entità delle somme disponibili (ad esempio: acquisti di forniture, decisioni di nuove assunzioni, svolgimento di missioni o di straordinari) - e, conseguentemente, la relativa ampiezza dello spettro delle voci di spesa toccato dalla disposizione impugnata, lasciano alle singole regioni un margine sufficiente per poter adeguare gradualmente, nel corso dello stesso anno, le necessarie misure di contenimento della spesa ai nuovi livelli di disponibilità finanziarie, senza il minimo rischio che la riduzione imposta possa determinare una paralisi o un serio intralcio nell'espletamento delle funzioni regionali.

 

E ciò vale tanto più se si considera che il taglio dei finanziamenti disposto dalla norma contestata, non riguardando spese destinate allo sviluppo, bensì spese dirette al normale funzionamento (sulla diversa rilevanza di tali spese nell'ambito di manovre di contenimento, v. sent. n.476 del 1991, nonchè sent. n. 307 del 1983), non può comportare alcuna interferenza sulla programmazione degli interventi regionali o su una corretta attività di bilancio, nè alcuna alterazione degli impegni di spesa legittimamente assunti.

 

5.- Le considerazioni svolte nei due punti immediatamente precedenti conducono a rigettare anche le censure proposte dalle ricorrenti sotto gli ulteriori profili prima indicati.

 

In particolare, deve assolutamente escludersi una lesione dell'art. 81, quarto comma, della Costituzione, lamentata da ambedue le ricorrenti, per il fatto che l'intervento contestato non produce alcuna modificazione nei compiti addossati sulle regioni ovvero negli oneri di gestione delle funzioni preesistenti.

 

Nè è possibile ipotizzare fondatamente una violazione del principio di ragionevolezza o dell'esigenza che i rapporti tra i soggetti pubblici siano improntati al criterio dell'affidamento reciproco, poichè, per le ragioni svolte nei punti precedenti, la riduzione della quota del tributo erariale disposta con la norma contestata è riconducibile a un non irragionevole esercizio del potere di coordinamento che l'art. 119, primo comma, della Costituzione assegna al legislatore statale nel rispetto dell'autonomia finanziaria regionale. Come questa Corte ha già affermato (v. sent. n.356 del 1992), rientra in un corretto esercizio di quel potere la considerazione che il trasferimento delle risorse finanziarie alle regioni o una riduzione della disponibilità delle stesse da parte delle regioni medesime non possano prescindere dai limiti di compatibilità con i vincoli generali collegati alle complessive esigenze della finanza pubblica.

 

6.- Non fondate sono anche le questioni di legittimità costituzionale che ambedue le ricorrenti hanno sollevato, in riferimento agli stessi parametri invocati per la precedente questione, nei confronti dell'art.1, quarto comma, del decreto-legge n. 333 del 1992.

 

Secondo la disposizione impugnata, "le misure previste dall'art. 4, comma 5, della legge 30 dicembre 1991, n.412, si applicano, per l'anno 1992, anche in assenza dei livelli obbligatori uniformi di assistenza di cui al comma 1 dello stesso articolo". Per comprendere esattamente il senso di tale disposizione, occorre ricordare che l'art. 4, primo comma, della legge n. 412 del 1991 prevede che il Governo, d'intesa con la "conferenza Stato-regioni", determini i livelli di assistenza sanitaria da assicurare in condizioni di uniformità su tutto il territorio nazionale, nonchè gli standard organizzativi e di attività da utilizzare per cal colare il parametro capitario di finanziamento di ciascun livello assistenziale per l'anno 1992. Lo stesso art. 4, al quinto comma, dispone, poi, che, in caso di spesa sanitaria eccedente quella determinata ai sensi del ricordato primo comma e non compensata da minori spese effettuate in altri set tori, le regioni possono fare ricorso alla propria capacità impositiva ovvero possono prevedere l'erogazione di certe prestazioni in forma indiretta o, ancora, maggiorare le vigenti quote di partecipazione dei cittadini al costo delle prestazioni o, infine, eliminare temporaneamente alcune prestazioni dal novero di quelle erogate a carico del " servizio sanitario nazionale". Su questa normativa la disposizione impugnata interviene affermando che le alternative appena ricordate possono essere adottate dalle regioni anche in mancanza della determinazione da parte del Governo, d'intesa con la "conferenza Stato-regioni", dei livelli obbligatori uniformi di assistenza e degli standard precedentemente indicati.

 

Tutte le censure prospettate dalle ricorrenti all'art. 1, quarto comma, del decreto-legge n. 333 del 1992 muovono dal presupposto interpretativo secondo il quale la disposizione impugnata addosserebbe alle regioni l'eccedenza della spesa sanitaria rispetto agli stanziamenti del fondo nazionale. Su tale base, infatti, esse lamentano la lesione dell'art.119 della Costituzione, a causa della pretesa imputazione alle regioni di oneri non dipendenti da loro decisioni, nonchè dell'art. 81, quarto comma, della Costituzione (per aver consequenzialmente previsto nuovi oneri privi della necessaria copertura finanziaria) e, limitatamente alla Regione Toscana, dell'art. 97 della Costituzione (per l'irragionevole mutamento, a distanza di pochi mesi, delle previsioni contenute nella legge n. 412 del 1991). Tuttavia, la premessa interpretativa da cui muovono le ricorrenti non può essere ragionevolmente ascritta alla disposizione impugnata.

 

Quest'ultima, in realtà, non dissimilmente da un'ipotesi già sottoposta al giudizio di questa Corte in un precedente caso (v. sent. n. 284 del 1991), ha il solo scopo di rimuovere un limite di competenza frapposto all'adozione dei provvedimenti indicati nell'art. 4, quinto comma, della legge n. 412 del 1991, nel senso che consente alle regioni di adottare i predetti interventi senza che siano più subordinati alla previa determinazione, da parte del Governo (d'intesa con la "conferenza Stato-regioni"), dei livelli obbligatori uniformi di assistenza.

 

Contrariamente a quanto suppongono le ricorrenti, pertanto, la disposizione impugnata non stabilisce alcunchè sul ripiano dell'eventuale maggior spesa sanitaria rispetto agli stanziamenti del fondo nazionale. E questa interpretazione trae un'agevole conferma dall'art. 2 del decreto-legge 18 gennaio 1993, n. 9, convertito dalla legge 18 marzo 1993, n. 67, il quale è diretto a regolare il suddetto ripiano prevedendone la copertura con oneri posti a carico dello Stato.

 

Anche in relazione alle contestazioni mosse all'art. 1, quarto comma, del decreto-legge n. 333 del 1992, occorre, infine, dichiarare inammissibili, per gli stessi motivi indicati nella parte finale del punto n. 2 della motivazione, i profili di legittimità costituzionale, sollevati dalla Regione Lombardia, relativi agli artt. 117 e 118 della Costituzione.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

 

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, terzo e quarto comma, del decreto- legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, sollevate con i ricorsi indicati in epigrafe, dalla Regione Lombardia, in riferimento all'art. 119 della Costituzione e all'art. 81, quarto comma, della Costituzione (in connessione con l'art. 27 della legge 5 agosto 1978, n. 468 e l'art. 3, sesto comma, della legge 14 giugno 1990, n. 158), nonchè dalla Regione Toscana, in riferimento agli artt. 3, 81, quarto comma, 97 e 119 della Costituzione;

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale della legge 8 agosto 1992, n. 359, nella parte in cui dispone la conversione in legge dell'art. 1, terzo e quarto comma, del decreto legge 11 luglio 1992, n.333, sollevata dalla Regione Lombardia in riferimento agli stessi parametri sopra indicati, con il ricorso di cui in epigrafe;

 

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, terzo e quarto comma, del decreto- legge n. 333 del 1992 e, in parte qua, della legge di conversione n. 359 del 1992, sollevate dalla Regione Lombardia, in riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione, con i ricorsi indicati in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25/03/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Antonio BALDASSARRE, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 01/04/93.