Sentenza n. 99 del 1993

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SENTENZA N. 99

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, n. 2 del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180 (Approvazione del testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche Amministrazioni), in relazione all'art. 545, quarto comma, del codice di procedura civile, ordinanza emessa il 5 luglio 1989 dalla Corte di appello di Roma nel procedimento civile vertente tra la s.p.a. I.D.M. e NAPOLI Vincenzo, iscritta al n. 338 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 1992.

 

Udito nella camera di consiglio del 19 novembre 1992 il Giudice relatore Francesco Guizzi.

 

Ritenuto in fatto

 

La s.p.a. I.D.M. impugnava avanti la Corte d'Appello di Roma la sentenza del Tribunale con cui, ai sensi dell'art.1 del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, era stato dichiarato inefficace il pignoramento, da essa effettuato presso terzi, delle somme dovute a titolo d'indennità di fine rapporto di lavoro al proprio debitore, Napoli Vincenzo, già dipendente del Comune di Roma.

 

La Corte d'Appello rilevava che, nel frattempo, era intervenuta la declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, n.3, del citato d.P.R. < < nella parte in cui, in contrasto con l'art. 545, comma quarto, codice di procedura civile, non prevede la pignorabilità e la sequestrabilità degli stipendi, salari e retribuzioni corrisposti da altri enti diversi dallo Stato, da aziende e imprese di cui all'art. 1 dello stesso d.P.R. fino alla concorrenza di un quinto per ogni altro credito vantato nei confronti del personale>> (sent. n.89 del 1987). E, conseguentemente, sollevava la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, n. 2 (rectius, n. 3), nella parte in cui non prevede la pignorabilità, negli stessi limiti e per gli stessi tipi di crediti, delle indennità per cessazione del rapporto di lavoro dovute ai dipendenti degli enti di cui all'art. 1 del d.P.R. già menzionato.

 

Ha osservato la Corte remittente che la norma contrasterebbe con l'art. 3 della Costituzione in considerazione della sopravvenuta dilatazione del settore pubblico, i cui dipendenti fruiscono della normativa dettata dal d.P.R. n. 180 del 1950, onde sarebbe oggi ingiustificata la diversità di disciplina tra le due classi di dipendenti (privati e pubblici) in ordine alla aggredibilità delle loro retribuzioni. Sì che, per le medesime ragioni enunciate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 89 del 1987, la norma impugnata sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza enunciato dall'art. 3 della Costituzione.

 

La rilevanza della questione risiederebbe nel fatto che la società appellante è creditrice ordinaria e, dunque, non rientrerebbe nelle categorie dei soggetti privilegiati indicati dall'art. 2, primo comma, n. 2 (rectius, n. 3), del d.P.R. n. 180. Il giudizio di costituzionalità si renderebbe quindi necessario, poichè la norma - quantunque parzialmente modificata dalla Corte con la sentenza n. 89 testè citata - non consentirebbe il riferimento ai corrispettivi dovuti ai dipendenti per il caso della cessazione del rapporto di lavoro.

 

Considerato in diritto

 

l. Viene all'esame della Corte, con riferimento all'art. 3 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, n. 2 (rectius, n.3), del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, in relazione all'art.545, quarto comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui esclude, per i dipendenti degli enti indicati nell'art.1 dello stesso decreto, la pignorabilità, anche per ogni altro credito, delle indennità di fine rapporto di lavoro spettanti ai detti dipendenti.

 

2. La questione è fondata.

 

L'art. 545 del codice di procedura civile stabilisce, al terzo comma, che < < le somme dovute da privati a titolo di stipendio, di salario, o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, possono essere pignorate per crediti alimentari nella misura autorizzata dal Pretore>>. La disposizione prosegue, al quarto comma, stabilendo che < < tali somme possono essere pignorate nella misura di un quinto per i tributi dovuti allo Stato, alle province e ai comuni, ed in eguale misura per ogni altro credito>>. Le somme dovute dai privati datori di lavoro a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro sono perciò pignorabili, nella misura massima di un quinto, per ogni tipo di credito.

 

Da siffatto regime generale si discostava tutto il comparto dell'impiego pubblico (Stato, province, comuni, istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza e < < qualsiasi altro ente od istituto pubblico sottoposto a tutela, od anche a sola vigilanza dell'amministrazione pubblica e le imprese concessionarie di un servizio pubblico di comunicazione o di trasporto>>), per il quale l'art. 1 del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, stabiliva la regola della normale insequestrabilità, impignorabilità e incedibilità di stipendi, salari, pensioni ed altri emolumenti.

 

Regola, questa, che conosceva soltanto le eccezioni stabilite dagli artt. 2 e seguenti del decreto in esame.

 

3. I limiti al pignoramento degli emolumenti percepiti dai pubblici dipendenti hanno formato oggetto di numerose pronunce da parte di questa Corte che ha volutamente allargato, in danno dei dipendenti pubblici, l'area dei crediti pignorabili.

 

Una prima serie di interventi ha riguardato, in particolare, le retribuzioni dei pubblici dipendenti. La sentenza n. 89 del 1987 aveva aperto la breccia dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, n.3, del d.P.R. n. 180, che, fissando il regime di ordinaria impignorabilità e insequestrabilità degli emolumenti dei dipendenti pubblici, prevedeva l'aggredibilità dei crediti da lavoro < fino alla concorrenza di un quinto valutato al netto di ritenute, per tributi dovuti allo Stato, alle province e ai comuni, facenti carico, fin dalla loro origine, all'impiegato o salariato>. E pertanto non consentiva - contrariamente a quanto dispone, per il settore privato, il quarto comma dell'art. 545 del codice di procedura civile - la pignorabilità e la sequestrabilità, nella stessa misura, degli emolumenti dovuti da < altri enti diversi dallo Stato> per ogni altra ragione creditoria diversa da quella fiscale. La successiva sentenza n. 878 del 1988 eliminava lo stesso privilegio ancora sussistente per i dipendenti dello Stato. E la sentenza n. 115 del 1990 affermava l'illegittimità dell'art. 1, terzo comma, lettera b), della legge 27 maggio 1959, n. 324, < < nella parte in cui non prevedeva la pignorabilità, sequestrabilità e cedibilità dell'indennità integrativa speciale istituita al primo comma dell'articolo, fino alla concorrenza di un quinto, per ogni credito vantato nei confronti del personale>> interessato.

 

Una seconda serie di interventi (sentenze n. 1041 del 1988, 155 del 1987, 209 del 1984) ha avuto ad oggetto, in particolare, le pensioni.

 

In tale settore, d'indubbia peculiarità, la Corte:

 

a) ha dichiarato l'illegittimità delle disposizioni che escludevano la pignorabilità delle pensioni, ma limitatamente ai crediti particolarmente qualificati, come quelli alimentari, il cui riconoscimento discende dall'art. 29 della Costituzione;

 

b) ha tuttavia pienamente giustificato (sentenze n. 55 del 1991 e 231 del 1989) il regime generale dell'impignorabilità delle pensioni, in tutti i settori lavorativi, in ossequio alle finalità previdenziali che lo sorreggono.

 

4. Chiamata ad affrontare per la prima volta la questione della sequestrabilità e pignorabilità della cosiddetta indennità di buonuscita, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 340 del 1990, non ha potuto spingersi oltre i limiti del petitum. Trattandosi di decidere della questione di legittimità costituzionale dell'art. 21 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, nella parte in cui non consentiva, negli stessi limiti stabiliti dall'art. 2, n. 1, del più volte citato d.P.R. n. 180, la sequestrabilità e pignorabilità dell'indennità di buonuscita erogata dall'ENPAS ai dipendenti dello Stato, per crediti alimentari, la Corte non è andata al di là della ratio posta a base delle decisioni in materia di pignoramento e sequestro delle pensioni, lasciando impregiudicata la questione della natura retributiva o previdenziale delle, peraltro varie, indennità di fine rapporto dei pubblici dipendenti.

 

5. La questione, ora chiaramente proposta, non può essere ulteriormente differita. Essa, tuttavia, trova una inequivocabile soluzione nella copiosa giurisprudenza di questa Corte.

 

Ancora da ultimo, con le sentenze n. 63 del 1992, 319 del 1991, 86 del 1990, 471 del 1989, questa Corte ha ribadito, invero, che le varie indennità di fine rapporto del settore pubblico hanno natura mista: < retributiva, previdenziale e assistenziale>.

 

La parte, per così dire, previdenziale e assistenziale, < proprio per tale natura, è correlata a contribuzioni versate dai dipendenti e dalle stesse amministrazioni pubbliche> (sent. 86 del 1990) e, come tale, non è assoggettabile ad imposta. Cosicchè la Corte ha potuto affermare, con le sentenze nn. 877 del 1988, 400 del 1987, e 178 del 1986, che le indennità di buonuscita erogate dall'ENPAS e dall'INADEL, per la parte afferente in via virtuale alla contribuzione dei dipendenti assicurati, non possono essere considerate reddito e, quindi, non possono essere assoggettate nè a IRPEF nè ad imposta di ricchezza mobile o complementare. Una conclusione, questa, da cui consegue che, per la parte, per così dire, retributiva dell'indennità di fine rapporto percepita dal dipendente pubblico, corrispondente al contributo che non è a suo carico, l'imposizione fiscale è pienamente legittima.

 

Ora, considerate la parvità della componente previdenziale dell'indennità di fine rapporto rispetto alla sua entità complessiva, che pertanto assume sempre più le caratteristiche della retribuzione differita, e la limitata misura (un quinto) dell'emolumento aggredibile con il sequestro o il pignoramento da parte del creditore che agisce per il recupero del suo credito, si palesa in tutta la sua evidenza l'ingiustificata disparità di trattamento fra i dipendenti dei diversi comparti, a seconda che si applichi loro l'art. 2 del testo unico n. 180 del 1950 oppure il quarto comma dell'art. 545 del codice di procedura civile. E, dunque, a seconda che si tratti di dipendenti pubblici o privati.

 

Essendo ormai progressivamente assimilabili i rispettivi trattamenti di fine rapporto - con la modesta eccezione di cui si è fatto cenno - non v'è più alcuna valida ragione giustificativa per mantenere la disparità di trattamento in ordine alla pignorabilità ed anche alla sequestrabilità del la indennità di fine rapporto percepita dai lavoratori dei due comparti, accogliendo la questione di costituzionalità dell'art. 2, primo comma, n.3, deld.P.R. 5 gennaio 1950, n.180 (così integrando il petitum del remittente).

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, n. 3, del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180 (Approvazione del testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche Amministrazioni), nella parte in cui esclude, per i dipendenti degli enti indicati nell'art. dello stesso decreto, la sequestrabilità e la pignorabilità, entro i limiti stabiliti dall'art. 545, quarto comma, del codice di procedura civile, anche per ogni altro credito, delle indennità di fine rapporto di lavoro spettanti ai detti dipendenti.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10/03/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Francesco GUIZZI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 19/03/93.