Sentenza n. 53 del 1993

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SENTENZA N. 53

ANNO 1993

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 236, secondo comma, del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), dell'art.14 ter, primo, secondo e terzo comma, della legge 26 luglio 1975, n.354 (introdotto dall'art. 2 della legge 10 ottobre 1986, n. 633) e dell'art. 30 bis, terzo e quarto comma, della legge 26 luglio 1975, n.354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), così come modificato dall'art. 2 della legge 20 luglio 1977, n. 450, promosso con ordinanza emessa il 6 maggio 1992 dal Tribunale di sorveglianza di Brescia nel procedimento di sorveglianza sul reclamo di Zambo Gaetano, iscritta al n. 406 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell'anno 1992.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 16 dicembre 1992 il Giudice relatore Francesco Paolo Casavola.

Ritenuto in fatto

l. -- Nel corso dell'esame del reclamo di un detenuto avverso il decreto con cui il magistrato di sorveglianza, per l'irregolare condotta tenuta dal condannato, aveva disposto il recupero a detenzione del periodo trascorso in permesso premio, il Tribunale di sorveglianza di Brescia, con ordinanza emessa il 6 maggio 1992, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 13, primo e secondo comma, 24, secondo comma, 27, terzo comma, nonchè all'art. 76 della Costituzione (in relazione all'art.2 della direttiva 96 della legge n. 81 del 1987), degli artt.236, secondo comma, del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271, 14 ter, primo, secondo e terzo comma, e 30 bis, terzo e quarto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui non prevedono l'applicazione del "nuovo" procedimento di sorveglianza per la trattazione dei reclami avverso i decreti di esclusione dei permessi-premio dal computo della pena.

Il giudice a quo, elencate alcune delle proprie attribuzioni (la sorveglianza particolare di detenuti, il computo del periodo di permesso o licenza, i permessi ai detenuti) osserva che, per effetto dell'esclusione dal nuovo procedimento di sorveglianza contenuta nel secondo comma dell'art. 236 delle disposizioni di coordinamento, deve essere ancora seguito, nei casi in argomento, un procedimento decisorio circa i reclami <che non presenta certamente i caratteri della giurisdizionalità>.

La mancanza della vocatio in ius e la non ricorribilità per Cassazione del provvedimento terminativo non appaiono più compatibili al giudice a quo con lo spirito del nuovo codice in cui emergerebbe la volontà di giurisdizionalizzare tutta la fase esecutiva della pena così come reso esplicito dalla Relazione.

Nel testo di quest'ultima, in particolare, a fronte dell'intento di regolare nell'art. 666 un procedimento giurisdizionale unitario per tutte le competenze del Tribunale di sorveglianza, non si leggerebbe alcuna spiegazione della "grave deroga" introdotta per i procedimenti di cui sopra, deroga ritenuta lesiva dell'art. 13 della Costituzione (non potendo la materia essere relegata nell'ambito amministrativo) ma ancor più lesiva della direttiva n. 96 della legge delega che impone garanzie di giurisdizionalità nella fase di esecuzione con riferimento ai provvedimenti concernenti le pene ed esige il contraddittorio nei procedimenti incidentali.

La sopravvivenza sine die delle già viste procedure in tema di sorveglianza particolare e recupero ad espiazione dei periodi di permesso, viceversa, non assicurerebbe alcuna delle suddette garanzie, malgrado la delicatezza della materia.

Anche i procedimenti de quibus andrebbero annoverati tra quelli "incidentali" e non potrebbero svolgersi ormai al di fuori dell'area giurisdizionale, senza vulnerare l'art. 24, secondo comma, della Costituzione.

Nè sarebbe più possibile -- a pena della violazione dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione -- considerare il permesso premio un'accidentale modalità dell'esecuzione, ovvero argomentare nel senso della sentenza n. 188 del 1990, con la quale questa Corte ha escluso l'illegittimità degli artt. 14 ter terzo comma, e 53 bis, della legge n.354 del 1975 con riferimento alla partecipazione dell'imputato all'udienza, ma vigente il vecchio codice.

2. -- É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, concludendo per l'inammissibilità della questione per difetto di rilevanza con riguardo alla mancata previsione del ricorso per Cassazione e per l'infondatezza della stessa in quanto la partecipazione del difensore alla camera di consiglio garantirebbe pienamente il detenuto interessato (il quale ha anche facoltà di presenta re memorie proprie).

Quanto alla natura e funzione del permesso premio, l'Avvocatura richiama la già citata sentenza n. 188 del 1990 dalla quale sarebbe mutuabile la coerenza del rapporto tra finalità rieducativa della pena e la disciplina (anche procedimentale ) dei permessi.

Considerato in diritto

l. -- É prospettata l'illegittimità costituzionale dell'art. 236 del d.lgs. n. 271 del 1989, recante le norme di attuazione del codice di procedura penale dell'art. 14 ter, primo secondo e terzo comma, della legge n. 354 del 1975, concernente l'ordinamento penitenziario, nonchè 30 bis, terzo e quarto comma, della stessa legge.

La prima di dette norme dispone che, nelle materie di competenza del Tribunale di sorveglianza, anche dopo l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, continuino ad osservarsi le regole procedimentali dettate dalla seconda delle norme impugnate. E l'art. 14 ter, nel disciplinare il reclamo avverso i provvedimenti riguardanti il regime di sorveglianza particolare, descrive un sintetico procedimento camerale, sia pure con la partecipazione del pubblico ministero e del difensore del detenuto e con la previsione della facoltà, per quest'ultimo e per l'amministrazione penitenziaria, di presentare memorie.

Per effetto del rinvio contenuto nel secondo comma dell'art. 53 bis del richiamato ordinamento penitenziario, tale procedimento viene seguito anche nel caso -- qual è quello di cui al giudizio a quo -- di esclusione dal computo della pena del periodo di permesso o licenza, mentre sul punto nulla aggiunge l'art. 30 bis della stessa legge n. 354 del 1975. A parere del Tribunale di sorveglianza di Brescia, alla luce del nuovo e ben più articolato modello processuale introdotto dagli artt.666 e 678 del codice di procedura penale, proprio per tale giudice, la deroga che la denunciata normativa consente risulterebbe lesiva dell'inviolabilità della libertà personale, del diritto di difesa, delle finalità rieducative della pena, nonchè, in particolare, delle direttive poste dalla legge delega.

2. -- La questione è fondata.

Preliminare ed assorbente rispetto a tutte le prospettate violazioni dei precetti costituzionali è la verifica di compatibilità tra il rito ex art. 14 ter ed il punto 96, art.2, della legge di delegazione 16 febbraio 1987, n. 81 che, nella fase della esecuzione, con riferimento ai provvedimenti concernenti le pene, impone "garanzie di giurisdizionalità", consistenti nella "necessità del contraddittorio" e nell'impugnabilità dei provvedimenti".

Finalità del legislatore delegante è quindi il rispetto integrale -- e senza possibilità di distinzioni tra le diverse misure -- delle garanzie costituzionali del diritto di difesa e della tutela della libertà personale anche nella fase esecutiva della pena, in coerenza con il progetto rieducativo che questa sottende, nel porsi non più soltanto come giusta, ma anche come utile.

Questa Corte ha già esaminato la particolare situazione legata al recupero a detenzione del permesso-premio nel caso di immeritevolezza del condannato, escludendo ogni carattere di afflittività ulteriore per la decisione di non sottrarre tale periodo dal computo della pena (sentenza n. 188 del 1990). Tale considerazione, fondata sulla natura sostanzialmente fiduciaria del permesso e sul suo carattere di premialità progressiva, non vale tuttavia a consentire l'esclusione del beneficio dall'ambito della esecuzione, attesa l'ampia accezione che la delega conferisce a tale categoria, indistintamente richiamandovi <i provvedimenti con cernenti le pene e le misure di sicurezza>.

Ne consegue che la regola processuale non può difettare dei requisiti, posti come necessari, della vocatio in ius, dell'appagamento integrale dell'esigenza di contraddittorio, dell'impugnabilità del provvedimento.

Le conclusioni raggiunte nella citata sentenza, infatti, si rapportavano al previgente regime, nè avrebbero potuto tener conto del nuovo modulo procedimentale che l'art. 666 del codice di procedura penale ha tracciato per il processo di esecuzione, che l'art. 678 -- nel richiamare questa norma -- ha altresì esteso al Tribunale di sorveglianza, ma che l'art.236 delle disposizioni di attuazione non ha reso applicabile in subiecta materia, senza peraltro alcuna ragionevole spiegazione.

Nel consentire la vigenza ulteriore del procedimento ex art. 14 ter per il reclamo dei provvedimenti che imputano a detenzione il periodo di permesso, l'art. 236 si pone in contrasto con le indicazioni nascenti dal citato punto 96 e realizzate nel nuovo processo di sorveglianza, onde ne va di chiarata l'illegittimità costituzionale per eccesso di delega.

É evidente infatti che la ristrettezza dello spatium deliberandi di dieci giorni imposta al tribunale preclude la possibilità di osservare il termine di cui al terzo comma del più volte citato art. 666, la impossibilità per l'interessato di partecipare al giudizio non può essere validamente sostituita dalla facoltà di presentare memorie, la non ricorribilità per Cassazione della decisione sul reclamo (talvolta affermata dalla giurisprudenza di legittimità) è elemento idoneo a privare definitivamente il procedimento delle richieste garanzie di giurisdizionalità.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 236, secondo comma, del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), 14 ter, primo, secondo e terzo comma, e 30 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non consentono l'applicazione degli artt. 666 e 678 del codice di procedura penale nel procedimento di reclamo avverso il decreto del magistrato di sorveglianza che esclude dal computo della detenzione il periodo trascorso in permesso-premio.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 08/02/93.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Francesco Paolo CASAVOLA, Redattore

Depositata in cancelleria il 16/02/93.