Sentenza n. 46 del 1993

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SENTENZA N. 46

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma quinto, della legge 9 gennaio 1963, n. 7 (Divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio e modifiche alla legge 26 agosto 1950, n. 860: "Tutela fisica ed economica della lavoratrici madri"), promosso con ordinanza emessa l'11 maggio 1992 dal Pretore di Torino nel procedimento civile vertente tra Bellagarda Paola e AGM Italiana, iscritta al n. 377 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 1992.

 

Udito nella camera di consiglio del 2 dicembre 1992 il Giudice relatore Luigi Mengoni.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso di un giudizio di impugnazione proposto da Paola Bellagarda contro il licenziamento intimatole, entro l'anno dalla celebrazione del suo matrimonio, dalla società AGM italiana nell'ambito di una procedura di mobilità regolata dalla legge 23 luglio 1991, n. 223, il Pretore di Torino, con ordinanza dell'11 maggio 1992, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, quinto comma, della legge 9 gennaio 1963, n. 7, "nella parte in cui non prevede la facoltà del datore di lavoro di provare che il licenziamento della lavoratrice è stato effettuato, oltre che per una delle ipotesi di cui alle lettere a), b) e c) del secondo comma dell'art. 3 della legge 26 agosto 1950, n. 860, anche nell'ambito delle procedure di mobilità previste dalla legge n. 223 del 1991 e secondo i criteri ivi determinati".

 

Ad avviso del giudice remittente, l'estensione della tutela delle lavoratrici madri, disposta dalla legge n. 860 del 1950 alle lavoratrici sposate da non più di un anno per il solo fatto del matrimonio, indipendentemente dalla condizione di gravidanza, mentre si giustifica con riguardo ai licenziamenti individuali, non è invece plausibile in relazione ai licenziamenti collettivi adottati nell'ambito di procedure improntate a criteri oggettivi come quelle regolate dalla legge n. 223 del 1991, mancando qui il preminente interesse pubblico alla tutela della vita sotteso all'art. 2 della legge n. 1204 del 1971. Data la facoltà del datore di lavoro, in caso di reintegrazione di lavoratori licenziati nel corso delle procedure di mobilità, di procedere al licenziamento in numero pari di altri lavoratori senza dover esperire una nuova procedura (art. 17 della legge n. 223 del 1991), si evidenzia una violazione dell'art. 3 Cost. nella forma di un privilegio ingiustificatamente concesso alle lavoratrici di cui si discute, in danno dei lavoratori aventi un interesse più meritevole di tutela alla conservazione del posto di lavoro secondo i criteri elencati nell'art. 5 della stessa legge.

 

Considerato in diritto

 

1. Dal Pretore di Torino è messa in dubbio, in riferimento all'art. 3 Cost., la legittimità costituzionale dell'art. 1, quinto comma, della legge 9 gennaio 1963, n. 7, "nella parte in cui non prevede la facoltà del datore di lavoro di provare che il licenziamento della lavoratrice è stato effettuato, oltre che per una delle ipotesi di cui alle lettere a), b) e c) del secondo comma dell'art. 3 della legge 26 agosto 1950, n. 860, anche nell'ambito delle procedure di mobilità previste dalla legge 23 luglio 1991, n. 223, e secondo i criteri ivi determinati".

 

2. La questione non è fondata.

 

La ratio dell'art. 1 della legge n. 7 del 1963 non si esaurisce nell'occasio legis, cioè nella finalità di reagire con una tutela speciale contro la prassi (allora diffusa) dei licenziamenti di lavoratrici per causa di matrimonio. A questa finalità si limitava l'originario disegno di legge, il quale innovava soltanto sul piano processuale dell'onere della prova, ammettendo una presunzione (iuris tantum) della "causa di matrimonio" come determinante del recesso intimato nel periodo compreso tra il giorno della richiesta delle pubblicazioni e l'anno successivo alla celebrazione, con conseguente nullità del licenziamento per illiceità del motivo (secondo i principi generali: artt. 1324 e 1345 cod.civ.) qualora il datore di lavoro non fornisse la prova di un diverso "giusto motivo". Il testo approvato, invece, avendo ridotto tassativamente la facoltà di prova contraria ai tre casi indicati nell'art. 3, secondo comma, della legge n. 860 del 1950 sulla tutela delle lavoratrici madri (ora art.2, terzo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204), ha sopravanzato la detta finalità assumendo non semplicemente il valore di provvedimento repressivo di un'ipotesi di licenziamento (individuale) illecito particolarmente grave per l'offesa arrecata a un diritto fondamentale della lavoratrice, ma anche il valore positivo di provvedimento promozionale del matrimonio e della famiglia legittima, fondato quindi non solo sugli artt.2, 4, 35, 37 e 41, secondo comma, Cost., ma anche sugli artt. 29 e 31 Cost.

 

Sotto la veste impropria di una presunzione di illiceità del motivo non superabile se non nei tre casi richiamati nell'ultimo comma dell'art. 1, la legge innova sostanzialmente garantendo alla lavoratrice, nel periodo indicato, la stabilità del posto di lavoro correlata alla sospensione del potere di recesso in capo al datore. Sotto questo profilo, la condizione della lavoratrice sposata da non più di un anno è analoga a quella della lavoratrice nel periodo di comporto per maternità (cfr. sent. n. 61 del 1991). Ne consegue che, nel tratto di tempo definito dall'art.1, terzo comma, della legge n. 7 del 1963, la lavoratrice non solo non può essere colpita da un licenziamento individuale motivato da una causa diversa da quelle elencate nell'ultimo comma dell'art. 1, ma non può nemmeno essere assoggettata alle procedure di "messa in mobilità" o di licenziamento collettivo per riduzione del personale regolate dalla legge 23 luglio 1991, n. 223.

 

3. In quest'ultima ipotesi la scelta del legislatore del 1963 di coordinare la legge n. 7, oltre che con la politica di tutela dei lavoratori contro i licenziamenti, anche con la politica di favore per il matrimonio e di agevolazione della formazione della famiglia legittima, non può essere commisurata ai criteri di selezione dei lavoratori da licenziare, specificati nell'art. 5 della legge n. 223 del 1991, e censurata, in riferimento al principio costituzionale di eguaglianza, perchè al posto della lavoratrice protetta dall'art. 1 della legge potrà essere licenziata una lavoratrice sposata da più di un anno o un lavoratore con maggiore anzianità aziendale e/o con carichi di famiglia più pesanti.

 

Confronti di questo tipo possono essere fatti soltanto tra due lavoratori entrambi soggetti al potere di licenziamento dell'imprenditore, mentre la lavoratrice in questione a tale potere è sottratta fino a quando non compirà un anno di matrimonio. Nel dettare i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità o da licenziare per riduzione del personale ai sensi dell'art.24, l'art. 5 della legge n. 223 si riferisce ai lavoratori per i quali non sussista, in forza di altre leggi, un divieto di licenziamento. Per quelli tutelati da cause attributive del diritto alla conservazione del posto non si può dire propriamente - come si legge nell'ordinanza di rimessione - che altri lavoratori, eventualmente dotati, ai sensi del citato art. 5, di maggiori titoli a rimanere in azienda, verranno a trovarsi licenziati in loro vece.

 

4. L'incidenza sulla sfera soggettiva dei lavoratori esposti alle procedure di collocamento in mobilità o di licenziamento per riduzione del personale non mette in contrasto l'art. 1 della legge n. 7 del 1963 con l'art. 3 Cost. neppure sotto il profilo del principio di razionalità.

 

Il criterio di ragionevolezza, quando è disgiunto dal riferimento a un tertium comparationis, può trovare ingresso solo se l'irrazionalità o iniquità delle conseguenze della norma sia manifesta e irrefutabile (cfr., da ultimo, sent. n. 81 del 1992). Da un giudizio di manifesta eccessività di tutela del diritto al matrimonio e alla creazione di una famiglia la norma denunciata è tenuta al riparo - come già osservava conclusivamente la sentenza n. 27 del 1969 - per un verso, dalla considerazione che ad essa è sotteso non soltanto un interesse individuale (nella forma di un diritto fondamentale), ma altresì l'interesse pubblico, tutelato dall'art. 31 Cost., che sia favorita la formazione della fami glia legittima fondata sul matrimonio, per altro verso, dalla considerazione del limite ben definito di durata entro cui è contenuto il divieto di licenziamento.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.1, quinto comma, della legge 9 gennaio 1963, n. 7 (Divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio e modifiche alla legge 26 agosto 1950, n. 860: "Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri"), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Pretore di Torino con l'ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28/01/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Luigi MENGONI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 10/02/93.