Sentenza n. 81 del 1992

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SENTENZA N. 81

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Giuseppe BORZELLINO, Presidente

GRECO Giudice

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma quinto, della legge 11 maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali), promosso con ordinanza emessa il 18 giugno 1991 dal Pretore di Varese - Sezione distaccata di Gavirate nel procedimento civile vertente tra Miceli Oliva e s.r.l. Confezioni riunite della Valcuvia iscritta al n.573 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell'anno 1991.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 22 gennaio 1992 il Giudice relatore Luigi Mengoni.

Ritenuto in fatto

1. Avviata al lavoro presso la s.r.l. Confezioni Riunite della Valcuvia ai sensi della legge 2 aprile 1968, n. 482, e licenziata per mancato superamento del periodo di prova, Oliva Miceli otteneva dal Pretore di Varese - sezione distaccata di Gavirate una sentenza dichiarativa di illegittimità del licenziamento con ordine di reintegrazione nel posto di lavoro. Avendo optato per l'indennità sostitutiva prevista dall'art. 18, quinto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, nel testo modificato dell'art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, otteneva l'emissione di un decreto ingiuntivo per la somma corrispondente. Nel corso del giudizio di opposizione promosso dalla Società datrice di lavoro, il medesimo Pretore, con ordinanza del 18 giugno 1991, ha sollevato questione di legittimità costituzionale del citato art. 18, quinto comma, per contrasto con gli artt.3, 4, 35 e 41 della Costituzione.

Secondo il giudice a quo, la norma denunciata sarebbe contraria al principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost. e al principio di tutela della dignità sociale dei lavoratori, di cui all'art. 41 Cost., perchè attribuisce un privilegio ingiustificato sotto forma di diritto di dimissioni in tronco fondate su una causa - il pregresso licenziamento dichiarato illegittimo - ormai rimossa dalla sentenza che ha ordinato la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e ha condannato il datore al risarcimento dei danni. Inoltre le dimissioni sono indennizzate con una somma esorbitante rispetto a quella normalmente accordata dall'art.2119 cod. civ.

In secondo luogo, la norma denunciata contrasterebbe anche con gli artt. 4 e 35 Cost. "in quanto agevola la vanificazione di un rapporto di lavoro consentendo un'opzione non sempre giustificabile".

2. Nel giudizio davanti alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

Dopo avere rilevato l'inconferenza del richiamo agli artt. 4, 35 e 41 Cost., l'Avvocatura osserva, quanto alla pretesa violazione dell'art. 3 Cost., che, anche ad ammettere l'assimilazione dell'opzione in esame a un'ipotesi di dimissioni, non si può trarne argomento nè per censurare l'esonero del lavoratore da ogni motivazione della scelta operata, trattandosi della conseguenza di una valutazione tipica del legislatore non debordante dal limite della ragionevolezza, nè per censurare l'eccedenza dell'indennità sostitutiva rispetto alla indennità di preavviso normalmente spettante al lavoratore che recede per giusta causa, considerate la peculiarità del caso regolato dalla norma denunciata e la funzione dissuasiva al fine della prevenzione di licenziamenti arbitrari.

Considerato in diritto

1. Dal Pretore di Varese - sezione distaccata di Gavirate è sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 18, quinto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, nel testo modificato dall'art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, per contrasto con gli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione.

2. La questione non è fondata.

Palesemente inconferente è il richiamo degli artt. 4 e 35 Cost. Non si comprende, nè il giudice remittente fornisce delucidazioni in proposito, come il diritto attribuito al lavoratore dalla norma denunciata di optare, secondo le sue convenienze, tra la reintegrazione nel posto di lavoro e un'indennità sostitutiva possa ritenersi offensivo del diritto dei cittadini al lavoro e contrario all'obbligo della Repubblica di tutelare il lavoro.

Inconsistente è pure il richiamo dell'art. 41, secondo comma, Cost., che è un parametro di valutazione delle leggi regolatrici dell'esercizio della libertà di iniziativa privata, e in particolare dei comportamenti degli imprenditori verso i prestatori di lavoro subordinato, mentre oggetto del presente giudizio è una legge che attribuisce al lavoratore un diritto potestativo contro il datore di lavoro, cioé un diritto che non ha una funzione di conformazione, mediante un obbligo corrispondente, dell'iniziativa economica dell'imprenditore.

3. Il tertium comparationis, alla stregua del quale è denunciata la violazione dell'art. 3 Cost., è additato dal giudice remittente nell'art.2119 cod.civ. muovendo dalla premessa che la norma denunciata configuri un diritto di dimissioni per giusta causa. La violazione del principio di eguaglianza è ravvisata sia nell'esonero del lavoratore da qualsivoglia motivazione del recesso, sia nell'esorbitanza dell'indennità sostitutiva, fissata in quindici mensilità di retribuzione globale, rispetto all'indennità di preavviso normalmente spettante al lavoratore dimissionario per giusta causa. Sotto il secondo profilo è portato a confronto anche l'art. 2 della legge 9 gennaio 1963, n. 7, che attribuisce il trattamento previsto per le dimissioni per giusta causa alla lavoratrice licenziata per causa di matrimonio, la quale, invitata a riprendere il servizio in conseguenza della nullità del licenziamento, dichiari di recedere dal contratto.

I termini di confronto sono inappropriati già all'interno della premessa assunta dal giudice a quo, attesa la diversità della situazione regolata dalla norma impugnata non solo rispetto ai casi contemplati dall'art. 2119 cod.civ., ma anche rispetto al caso specifico della legge n.7 del 1963. In questo l'arbitrarietà del licenziamento è legalmente presunta per tabulas, mentre nell'ipotesi del nuovo testo dell'art.18, quinto comma, dello statuto dei lavoratori il licenziamento può risultare viziato per le ragioni più varie, inclusi vizi di pura forma o di procedura, senza dire del caso non infrequente di licenziamento intimato nella ragionevole convinzione, poi non condivisa dal giudice, di sussistenza di un giustificato motivo o di una giusta causa.

Ma è assorbente il rilievo dell'insostenibilità della detta premessa, dimostrata dalla stessa ordinanza di remissione là dove afferma che l'arbitrio commesso dal datore di lavoro intimando il licenziamento "appare ormai riparato" nel momento in cui il lavoratore esercita l'opzione attribuitagli dalla norma impugnata. Ciò significa che, dopo la sentenza che ha ordinato la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condannato il datore al risarcimento del danno, il fatto precedente del licenziamento illegittimo non è più idoneo - se mai lo è stato - a fondare una giusta causa legalmente tipizzata di dimissioni dal rapporto di lavoro. Ordine di reintegrazione nel posto, con facoltà del lavoratore di optare per il pagamento di un'indennità sostitutiva, e dimissioni per giusta causa indennizzate sono strumenti di tutela concettualmente diversi, che non possono fondersi l'uno con l'altro.

4. Queste considerazioni inducono a ritenere più congrua l'interpretazione che ravvisa nella norma impugnata un'obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore. Anzichè la prestazione dovuta in via principale, cioè la reintegrazione nel posto di lavoro, il creditore ha facoltà di pretendere una prestazione diversa di natura pecuniaria, che è dovuta solo in quanto dichiari di preferirla, e il cui adempimento produce, insieme con l'estinzione dell'obbligazione di reintegrare il lavoratore nel posto, la cessazione del rapporto di lavoro per sopravvenuta mancanza dello scopo. Il rapporto non cessa per effetto della dichiarazione di scelta del lavoratore, come si dovrebbe pensare se essa avesse la valenza di dichiarazione di recesso, bensì solo al momento e per effetto del pagamento dell'indennità sostitutiva.

5. Così precisato il significato della disposizione in esame, cade la possibilità di valutarla, ai fini dell'art. 3 Cost., confrontandola con tertia comparationis tratti da norme relative a casi di dimissioni indennizzate.

Essa non può essere censurata nemmeno sotto il profilo del principio di razionalità, sul riflesso dell'ammontare irragionevolmente elevato dell'indennità sostitutiva della reintegrazione. É giurisprudenza costante di questa Corte che, in mancanza di un termine di confronto, una valutazione di illegittimità costituzionale per violazione dell'art. 3 Cost. può essere fondata soltanto su una irrazionalità manifesta, irrefutabile, che nella specie non può essere affermata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.18, quinto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nel testo modificato dall'art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione, dal Pretore di Varese - sezione distaccata di Gavirate con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19/02/92.

Giuseppe BORZELLINO, Presidente

Luigi MENGONI, Redattore

Depositata in cancelleria il 4 marzo del 1992.