Sentenza n. 4 del 1992

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SENTENZA N. 4

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 291, comma 1 bis, e 391, comma 3, del codice di procedura penale, in relazione all'art.23 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), promossi con le seguenti ordinanze:

1) n. 2 ordinanze emesse il 4 e l'8 aprile 1991 dal Tribunale per i minorenni di Napoli, iscritte rispettivamente ai nn. 400 e 401 del registro ordinanze 1991 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.23, prima serie speciale, dell'anno 1991;

2) ordinanza emessa il 28 febbraio 1991 dal Tribunale per i minorenni di Catania, iscritta al n. 468 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell'anno 1991;

3) ordinanza emessa il 9 marzo 1991 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Catania, iscritta al n. 484 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell'anno 1991.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 20 novembre 1991 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

1. Con due ordinanze di identico contenuto pronunciate il 4 e l'8 aprile 1991 (rispettivamente n. 400 e 401 R.O. del 1991), adottate la prima in sede di riesame e la seconda in sede di appello relativo a misure cautelari, il Tribunale per i minorenni di Napoli ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 291, comma 1 bis (inserito dall'art. 12 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12), e 391, comma 3, del codice di procedura penale, in relazione all'art. 23 del d.P.R. 22 settembre 1988, n.448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), deducendo la violazione degli artt. 3, 31, 101, 24 e 76 della Costituzione. Osserva il rimettente che l'art.291, comma 1 bis, del codice di procedura penale, nel prevedere che il giudice può disporre misure meno gravi solo se il pubblico ministero non ha espressamente richiesto di provvedere in ordine alle misure indicate, inibisce al giudice l'autonoma valutazione circa la misura idonea eproporzionale al caso di specie. Da ciò, si afferma, il contrast l'art. 3, primo comma, della Costituzione, in quanto il giudice è costretto "a trattare uniformemente situazioni diverse, nel senso che per non rimettere in libertà minori, che appaiono comunque bisognevoli di sostegni da una parte e in grado di commettere ulteriori reati dall'altra, applica misure corrispondenti a situazioni diverse e non proporzionate ai casi in esame".

Si denuncia, inoltre, la violazione degli artt. 3, secondo comma, e 31 della Costituzione, giacchè il giudice, tanto nell'ipotesi in cui disponga la rimessione in libertà del minore, quanto in quella in cui applichi una misura sproporzionata, "non pone in essere i presupposti per favorire il pieno sviluppo della persona umana e anzichè proteggere la gioventù può creare situazioni sostanzialmente pregiudizievoli e può privare il minore del vantaggio che l'applicazione di una misura cautelare appropriata gli arrecherebbe". La norma denunciata contrasterebbe, poi, con l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, in quanto il difensore deve limitarsi a chiedere o la remissione in libertà o riportarsi alle richieste del pubblico ministero, essendo inutile evidenziare l'opportunità di applicare altre misure, nonchè con l'art. 101 (rectius: 111) della Costituzione, posto che il giudice è spinto ad una motivazione parziale e irragionevole, essendo obbligato "a motivare un provvedimento diverso da quello che egli reputa idoneo al caso concreto".

Viene poi sollevata questione relativa all'art. 391, terzo comma, del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 25 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12, nella parte in cui consente al pubblico ministero di non comparire alla udienza di convalida, per contrasto con gli artt. 76 e 24 della Costituzione.

Osserva il rimettente che la legge-delega 16 febbraio 1987, n.81, ha fissato nell'art. 2, nn. 2 e 3, le direttive della "adozione del metodo orale" e della "partecipazione della accusa e della difesa su basi di parità in ogni stato e grado del procedimento". La norma denunciata, quindi, permettendo al pubblico ministero di presentare richieste scritte, non rispetterebbe nè il principio di oralità nè quello di parità tra difesa e accusa, vulnerando, altresì, l'art. 24 della Costituzione. A quest'ultimo riguardo il giudice a quo pone in risalto la circostanza che nel procedimento minorile "la eventuale misura da irrogare viene <<costruita>> proprio nella udienza di convalida nella quale devono essere presenti, e non solo formalmente, i genitori ed i servizi sociali e che deve costituire comunque un momento di approfondimento della personalità e della vita del minore"; sicchè, conclude il rimettente, la cristallizzazione delle richieste del pubblico ministero ad un momento antecedente all'udienza di convalida, lede "il diritto del minore ad avere un provvedimento idoneo e corrispondente alla reale situazione ed alle esigenze emerse nel corso dell'udienza alle quali situazioni ed esigenze il difensore farebbe riferimento".

2. Con ordinanza del 28 febbraio 1991 (R.O. 468 del 1991), il Tribunale per i minorenni di Catania, chiamato a pronunciarsi sul riesame proposto avverso l'ordinanza con la quale era stata disposta la custodia cautelare in carcere nei confronti di un minorenne, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12, con il quale è stato introdotto il comma 1 bis nell'art. 291 del codice di procedura penale. I parametri costituzionali invocati sono parzialmente corrispondenti a quelli dedotti dal Tribunale per i minorenni di Napoli. Si lamenta, infatti, la violazione dell'art. 3 della Costituzione, assumendosi che la norma impugnata da un lato vulnera il principio di uguaglianza, trattando uniformemente situazioni difformi, dall'altro è censurabile sul piano della ragionevolezza, in quanto costringe il giudice - nei casi analoghi a quello di specie - o ad applicare una misura non proporzionata o a non applicarne nessuna, nonostante la ritenuta necessità. La stessa norma, poi, contrasta con l'art. 101 (rectius: 111), primo comma, della Costituzione, essendo impossibile una motivazione effettiva, nonchè con l'art. 101, secondo comma, della Costituzione, in quanto assoggetta il giudice non alla legge ma alla determinazione del pubblico ministero. Si denuncia, infine, la violazione dell'art. 31, secondo comma, della Costituzione, sia perchè la disposizione impugnata, anzichè proteggere l'infanzia e la gioventù, ne ostacola gli interessi allo sviluppo, sia perchè non rispetta il principio di residualità della carcerazione a fini processuali che, nel processo minorile, il rimettente ritiene essere assurto al rango di principio costituzionale.

3. Con ordinanza del 9 marzo 1991 (R.O. 484 del 1991), anche il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Catania - nel respingere le richieste del pubblico ministero di applicare la custodia cautelare nei confronti di un minore - ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12.

Oltre a lamentare la violazione degli artt. 3, 101 e 111 della Costituzione sulla base di argomenti analoghi a quelli svolti dal Tribunale per i minorenni di Catania (la cui pronuncia è richiamata nella ordinanza di rimessione), il giudice a quo denuncia:

a) il contrasto con l'art. 13, secondo comma, della Costituzione, assumendo che, ove il giudice ritenesse di accogliere la richiesta di custodia cautelare per salvaguardare le esigenze cautelari, dovrebbe adottare un provvedimento a motivazione apparente o contraddittoria;

b) il contrasto con gli artt. 7 e 2, n. 59, della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, in relazione agli artt. 70 e 76 della Costituzione, in quanto la norma denunciata ha introdotto la possibilità per il pubblico ministero di richiedere - senza che ciò fosse previsto dalla delega - una determinata misura in via esclusiva e senza motivazione, rendendo al tempo stesso impossibile al giudice una effettiva motivazione sul punto;

c) il contrasto con l'art. 102, primo comma, della Costituzione, giacchè la giurisdizione piena viene ad essere compressa, essendo sottoposta alla vincolante richiesta di una parte.

4. In tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate parte inammissibili per difetto di rilevanza e parte non fondate.

Osserva la difesa dello Stato che la questione di legittimità dell'art.291, comma 1 bis, del codice di procedura penale, inserito dall'art. 12 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12, è irrilevante ai fini della definizione dei procedimenti di cui alle ordinanze rispettivamente pronunciate dal Tribunale per i minorenni di Napoli il 4aprile 1991 (R.O. n.400 del 1991) e dal Tribunale per i min Catania il 28 febbraio 1991 (R.O. n.468 del 1991), posto che in entrambi i casi i giudici rimettenti sono chiamati a provvedere in sede di riesame della misura cautelare disposta.

Considerato, infatti, che l'art.309, nono comma, del codice di procedura penale, stabilisce che il giudice del riesame può non solo annullare ma anche riformare il provvedimento impugnato, se ne desume che al giudice stesso è consentito di provvedere in difformità delle richieste del pubblico ministero, disponendo la misura cautelare più adeguata alle esigenze del caso concreto. Nel merito, e con riferimento ai diversi parametri invocati, l'Avvocatura osserva:

1) la pretesa violazione dell'art. 3, primo comma, della Costituzione è frutto di una erronea interpretazione della norma denunciata: questa, infatti, non vincola affatto il giudice ad adottare la misura che non reputi adeguata alle esigenze cautelari, posto che il giudice ben può respingere la richiesta del pubblico ministero; da ciò, l'impossibilità di ipotizzare la dedotta disparità di trattamento (applicazione di misure difformi in relazione a casi per i quali sussistono le medesime esigenze);

2) neppure vulnerati sono gli artt. 3, secondo comma, e 31, secondo comma, della Costituzione. Le misure nei confronti dei minorenni, infatti, pur se parametrate, quanto a caratteristiche, modalità esecutive e criteri di scelta, alle necessità del minore, non cessano di essere destinate a soddisfare esclusivamente le esigenze "cautelari". Ne deriva che gli interventi di "sostegno" del minorenne non possono certo essere attuati con le misure cautelari, nè possono in sè giustificarne l'adozione;

3) quanto alla dedotta violazione dell'art. 24 della Costituzione, osserva l'Avvocatura che il diritto di difesa permane integro, potendo il difensore contraddire le deduzioni del pubblico ministero anche in punto di proporzionalità e adeguatezza delle misure;

4) la norma denunciata, poi, non vulnera l'art. 101 della Costituzione, in quanto non "subordina" il giudice al pubblico ministero ma esalta la ripartizione dei ruoli - a salvaguardia della terzietà del giudice - in linea con la scelta del codice di limitare i poteri ex officio del giudice in tema di misure cautelari nel corso delle indagini preliminari.

Quanto alla questione di legittimità costituzionale dell'art.391, terzo comma, del codice di procedura penale, sollevata, con riferimento agli artt. 24 e 76 della Costituzione dal Tribunale per i minorenni di Napoli (R.O 400 e 401 del 1991), l'Avvocatura ne eccepisce l'irrilevanza, sul presupposto che la questione medesima doveva essere eventualmente sollevata dal giudice della convalida. Nel merito, viene dedotta l'infondatezza sotto entrambi i profili denunciati, considerato che l'eventuale assenza del pubblico ministero in sede di convalida non limita le garanzie difensive, mentre il principio di oralità è tradizionalmente riferito alla fase dibattimentale.

Considerato in diritto

1. Le quattro ordinanze di rimessione, pronunciate in altrettanti procedimenti incidentali relativi alla applicazione di misure cautelari nei confronti di imputati minorenni, sottopongono all'esame della Corte questioni identiche fondate su motivi parzialmente coincidenti: i relativi giudizi, pertanto, vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.

2. Deve essere preliminarmente accolta l'eccezione di inammissibilità sollevata dalla Avvocatura Generale dello Stato in ordine alla questione di legittimità dell'art. 291, comma 1-bis, del codice di procedura penale, sollevata dal Tribunale di Napoli con ordinanza del 4 aprile 1991 e dal Tribunale per i minorenni di Catania con ordinanza del 28 febbraio 1991. In entrambi i procedimenti a quibus, infatti, i giudici rimettenti sono stati investiti a seguito di istanza di riesame proposta avverso misure coercitive, sicchè la norma impugnata non assume alcuna rilevanza ai fini della decisione che i giudici medesimi sono chiamati ad adottare.

Va rilevato, in proposito, che il comma 1-bis dell'art. 291 del codice di procedura penale, nel dettare una specifica previsione in merito al procedimento applicativo delle misure cautelari nel corso delle indagini preliminari, stabilisce un peculiare regime che incide esclusivamente sul provvedimento adottabile dal giudice a seguito ed in funzione della richiesta formulata dal pubblico ministero, senza quindi produrre effetti ulteriori rispetto alla circoscritta "sede" processuale in cui la norma è chiamata ad operare. Una volta introdotto il giudizio di riesame avverso l'ordinanza che ha disposto la misura coercitiva, spetta dunque al giudice della impugnazione, a norma dell'art. 309, nono comma, del codice di procedura penale, il potere, non solo di annullare o confermare l'ordinanza oggetto del riesame, ma anche di riformarla; e ciò, evidentemente, a prescindere dal tipo di richiesta a suo tempo formulata dal pubblico ministero, proprio perchè quest'ultima, sia stata o meno rivolta a sollecitare in forma esclusiva l'adozione di determinate misure, ha esaurito la sua funzione per essere integralmente "assorbita" nella ordinanza del giudice, che a sua volta costituisce l'unico tema devoluto alla cognizione del tribunale in sede di riesame.

3. Del pari inammissibile deve essere dichiarata la questione di legittimità dell'art. 391, terzo comma, del codice di procedura penale, sostituito dall'art. 25 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n.12, sollevata dal Tribunale per i minorenni di Napoli con le ordinanze emesse il 4 e l'8 aprile 1991. Come ha correttamente posto in risalto l'Avvocatura Generale dello Stato nei relativi atti di intervento, la nuova disciplina che prevede la partecipazione facoltativa del pubblico ministero alla udienza di convalida non interferisce in alcun modo con la definizione dei procedimenti a quibus, trattandosi, in entrambi i casi, di giudizi di impugnazione relativi a provvedimenti riguardanti l'applicazione di misure cautelari personali. A prescindere, infatti, dell'eccezionale ipotesi prevista dall'art. 391, quinto comma, secondo periodo, del codice di procedura penale, per la quale la convalida dell'arresto per taluno dei delitti previsti dall'art. 381, secondo comma, funge da presupposto necessario per l'applicazione delle misure coercitive al di fuori dei limiti previsti dall'art. 280, la decisione sulla convalida è concettualmente e funzionalmente scissa da quella che inerisce alla applicazione delle misure cautelari, nel senso che anche ad un provvedimento negativo sulla convalida può seguire l'applicazione delle misure e viceversa: un'autonomia che si proietta normativamente anche sul regime delle impugnazioni che possono essere proposte avverso le due categorie di provvedimenti, giacchè mentre la decisione sulla convalida può essere oggetto di ricorso per cassazione a prescindere dallestatuizioni de libertate (art. 391, quarto comma), contro i provved che riguardano l'applicazione delle misure coercitive può essere proposto, a seconda dei casi, il riesame (art. 309), l'appello (art. 310) o il ricorso immediato per cassazione (art. 311, secondo comma), senza che a tal fine rilevi la decisione sulla convalida.

La norma impugnata, quindi, ha esaurito la propria sfera di applicazione, cessando conseguentemente di rilevare agli effetti di possibili censure di costituzionalità, con la decisione del giudice che ha definito il procedimento incidentale sulla convalida.

4. Residua, pertanto, la necessità di affrontare il merito della questione di legittimità dell'art. 291, comma 1-bis, del codice di procedura penale, sollevata dal Tribunale per i minorenni di Napoli con ordinanza dell'8 aprile 1991 (R.O. n. 401 del 1991) e dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale per i minorenni di Catania con ordinanza del 9 marzo 1991 (R.O. n. 484 del 1991).

Entrambi i giudici rimettenti esordiscono, nella rassegna delle censure, evocando l'art. 3 della Costituzione quale parametro di cui si assume la violazione ad opera della norma oggetto di impugnativa.

Seppure sotto angolature parzialmente difformi, le ordinanze di rimessione deducono, ambedue, la violazione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza, nel senso che la "richiesta vincolante" del pubblico ministero finisce per "costringere il giudice a trattare uniformemente situazioni diverse". Si assume, più in particolare, che ove il giudice ritenga adeguata al caso di specie una misura diversa da quella richiesta dal pubblico ministero, è tenuto "a negare l'erogazione di altra misura meno grave, che pure ritiene necessaria", generando irragionevolmente conseguenze identiche per situazioni fra loro divergenti, quali sono quella di chi "abbisogna di misura", rispetto a quella di chi "non ne abbisogna affatto".

Il vizio logico da cui trae alimento la tesi concordemente sostenuta dai giudici rimettenti, è presto svelato. Occorre anzitutto premettere che, come correttamente osserva l'Avvocatura Generale dello Stato, la richiesta del pubblico ministero di provvedere esclusivamente sulla misura indicata, non comporta affatto per il giudice un vincolo ad applicare la misura stessa nell'ipotesi in cui, pur ritenendo la sussistenza dei pericula libertatis, non reputi la specifica misura adeguata alle esigenze cautelari, apprezzate alla stregua dei parametri delibativi enunciati dall'art. 19 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448. In una simile eventualità, infatti, il giudice è tenuto a respingere la richiesta del pubblico ministero, proprio perchè difettano le condizioni normativamente stabilite per il relativo accoglimento. Da ciò un evidente corollario che vale a dissolvere il sospetto che la norma impugnata induca il giudice a "trattare uniformemente situazioni diverse". Il procedimento di applicazione delle misure cautelari delineato dal codice postula, infatti, come indefettibile antecedente, uno specifico atto propulsivo rappresentato dalla "domanda" che il pubblico ministero rivolge al giudice: se, quindi, come precisa la Relazione al Progetto preliminare, deve essere da un lato esclusa "una legittimazione ai provvedimenti cautelari in capo al pubblico ministero... così è da escludersi l'adozione di misure cautelari che prescinda dall'iniziativa del pubblico ministero il quale è, sotto questo profilo, soggetto necessariamente <<richiedente>> senza legittimazione a disporre, mentre, per converso, il giudice è soggetto decidente, ma non ex officio". Al pubblico ministero, dunque, spetta il potere esclusivo di promuovere, attraverso la richiesta, il procedimento applicativo delle misure, non diversamente da ciò che accadrebbe ove si configurasse la richiesta stessa alla stregua di un atto di esercizio della "azione cautelare"; sicchè, alla domanda della parte pubblica, corrisponde la genesi di un fenomeno devolutivo, che assegna al giudice un potere decisorio, la "quantità" del quale ben può essere circoscritta all'interno dei confini tracciati dal devolutum. Se, dunque, il pubblico ministero formula al giudice domanda di provvedere esclusivamente in ordine alla misura indicata e se, ancora, il giudice ritiene di dover respingere la richiesta reputando la misura inadeguata alle esigenze cautelari che ravvisa nella specie, il preteso "trattamento uniforme di situazioni diverse", su cui fan leva le ordinanze rimessive, svanisce, nel suo rigore logico, proprio perchè manca il presupposto unificante: vale a dire la domanda del pubblico ministero e la correlativa legittimazione del giudice a provvedere.

In altri termini, è ben vero che, nel respingere la richiesta, il giudice mantiene in libertà tanto la persona che a suo avviso abbisognerebbe di una misura diversa da quella indicata dal pubblico ministero, quanto la persona nei confronti della quale non ravvisi alcuna esigenza cautelare: ma ciò accadrebbe ugualmente in tutti i casi in cui il pubblico ministero, malgrado l'esistenza di pericula in libertate, non ritenesse di formulare alcuna richiesta di misura cautelare.

5. Il Tribunale per i minorenni di Napoli denuncia anche la violazione degli artt. 3, secondo comma, e 31, secondo comma, della Costituzione, poichè, afferma l'ordinanza, "sia che il giudice rimetta in libertà il minore sia che applichi una misura sproporzionata, non pone in essere i presupposti per favorire il pieno sviluppo della persona umana e anzichè proteggere la gioventù può creare situazioni sostanzialmente pregiudizievoli e può privare il minore del vantaggio che l'applicazione di una misura cautelare appropriata gli arrecherebbe".

L'assunto del rimettente è fallace sotto più profili. Come infatti giustamente osserva la difesa dello Stato, è proprio in funzione delle particolari caratteristiche della condizione minorile che il legislatore ha ritenuto di calibrare specifiche misure, aggiungendo agli ordinari criteri di scelta delle stesse la necessità che l'adozione del provvedimento restrittivo della libertà del minorenne sia adeguata al fine "di non interrompere i processi educativi in atto" (art. 19, secondo comma, del d.P.R. n.448 del 1988). Ma tutto ciò non toglie che le misure, pur se peculiari quanto a caratteristiche e modalità attuative, mantengono inalterata la loro esclusiva funzione cautelare, restando quindi del tutto estranea al tema la possibilità di un loro impiego con finalità di "sostegno" per il minorenne, che l'ordinamento ha invece espressamente riservato all'intervento di specifici organi amministrativi (art. 19, terzo comma, del d.P.R. n. 448 del 1988). Paradossalmente, dunque, sarebbe proprio il "vantaggio" prospettato dal rimettente a far assumere alle misure cautelari una funzione educativa o, meglio, "rieducativa", che finirebbe ineluttabilmente per porsi, questa sì, in palese contrasto con laCostituzione, risultando per questa via vulnerato il principio di presunzione di non colpevolezza che certo non ammette graduazioni di sorta in funzione della maggiore o minore età degli imputati.

Il medesimo Tribunale denuncia anche la violazione dell'art.24, secondo comma, della Costituzione, osservando che la norma impugnata vulnera il contraddittorio, nel senso che il difensore "deve limitarsi a chiedere o la remissione in libertà del suo assistito o riportarsi alle richieste" del pubblico ministero, "essendo inutile evidenziare l'opportunità dell'applicazione di altre misure". Anche a voler prescindere dal rilievo che la questione, nei termini in cui risulta proposta, sembra riferirsi più alla udienza di convalida, ove si instaura un contraddittorio sulla richiesta di misura cautelare formulata dal pubblico ministero, che non alla fase dell'appello in cui versa il giudizio a quo, a svelarne l'infondatezza basta il dato incontrovertibile che alla difesa è consentito dedurre, nell'ambito del tema oggetto di gravame, quanto ritenga necessario od opportuno ai fini dell'esercizio del relativo diritto, restando invece del tutto inconferenti, ai fini che qui interessano, i profili di mero fatto riguardanti il concreto e variabile atteggiarsi di ogni singola "strategia" defensionale.

6. Tanto il Tribunale per i minorenni di Napoli che il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale per i minorenni di Catania, lamentano la violazione dell'art. 111, primo comma, della Costituzione, assumendo che la norma impugnata, costringendo il giudice "ad adottare un provvedimento diverso da quello che una corretta deduzione gli suggerisce", rende in concreto impossibile "una motivazione effettiva". Ciò spinge il giudice di Catania a denunciare anche il contrasto con l'art. 13, secondo comma, della Costituzione, giacchè, afferma l'ordinanza, ove il giudice per salvaguardare le esigenze cautelari, "accedesse alla richiesta di custodia cautelare avanzata dal P.M., dovrebbe farlo immotivatamente, (rectius: con motivazione contraddittoria o apparente)".

Nessuno degli invocati parametri può dirsi violato dalla norma in questione. Come si è già posto in risalto, infatti, quando il pubblico ministero formula al giudice richiesta di provvedere esclusivamente in ordine alla misura indicata, traccia i confini del devoluto all'interno del quale il giudice stesso è chiamato ad operare le proprie scelte secondo gli ordinari parametri delibativi. Il potere decisorio di accogliere o respingere "quella" domanda, permane, quindi, integro in tutti i suoi connotati, ed allo stesso viene così a correlarsi funzionalmente l'onere di motivazione, che non subisce limiti diversi da quelli propri del tipo di decisione che il giudice deve adottare. Ciò non toglie, peraltro, che, ove il giudice ritenesse di dover respingere la richiesta, reputando la misura indicata dal pubblico ministero eccessiva rispetto a quella adeguata al fine di salvaguardare le esigenze cautelari, in tanto può dirsi esaurientemente soddisfatto l'onere di motivazione, in quanto il giudice concretamente "indichi" nel provvedimento reiettivo quale misura reputi adeguata al caso di specie, così da permettere al pubblico ministero una nuova domanda cautelare alimentata proprio dagli apprezzamenti compiuti dall'organo giurisdizionale.

7. Le considerazioni che precedono valgono anche a dissolvere l'ulteriore dubbio di costituzionalità che il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale per i minorenni di Catania solleva con riferimento agli artt. 101, secondo comma, e 102, primo comma, della Costituzione. Quanto al primo degli invocati parametri, il rimettente deduce che la norma impugnata priverebbe il giudice "di un suo potere caratterizzante, non in virtù di una situazione rigorosamente predeterminata dalla legge, ma a cagione di un discrezionale potere attribuito al P.M."; la violazione dell'art. 102, primo comma, della Costituzione, viene invece prospettata in base all'assunto che la "novella censurata" (art. 12 del decreto legislativo n. 12 del 1991) esproprierebbe il giudice della piena giurisdizione, "lasciandogli residuare una sorta di semipiena giurisdizione, sottoposta alla vincolante richiesta di una parte (seppur pubblica)." L'Avvocatura Generale dello Stato incisivamente osserva, a tale riguardo, che, portando alle estreme conseguenze la tesi sostenuta dal giudice a quo, la violazione degli indicati precetti costituzionali "dovrebbe dirsi sussistente ogni volta in cui la legge vincoli i poteri del giudice alla sollecitazione delle parti": e il paradosso, al di là della suggestione, coglie nel segno, evidenziando come il rimettente erroneamente postuli un obbligo per il legislatore di delineare il munus del giudice alla stregua di un complesso di attribuzioni prive di qualsiasi raccordo con il potere di impulso delle parti.

Ancora una volta, invece, vale l'esatto reciproco. Se, infatti, la domanda della parte privata costituisce espressione del diritto di agire e difendersi e se, ancora, la domanda del pubblico ministero si colloca nell'alveo dell'obbligatorio esercizio dell'azione penale, è evidente, allora, che la configurazione di un giudice "autosufficiente" e "monopolista" verrebbe a porsi in stridente antinomia rispetto a quei principi, specie se calati in un modello processuale che dichiaratamente mira ad esaltare il ruolo delle parti ed a preservare, correlativamente, la terzietà del giudice.

8. La questione deve essere dichiarata non fondata anche sotto l'ultimo dei profili che qui occorre esaminare: vale a dire la lamentata violazione della direttiva n. 59 della legge-delega 16 febbraio 1987, n.81, che il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale per i minorenni di Catania denuncia essersi realizzata con l'introduzione della norma oggetto di impugnativa. Più in particolare, il rimettente osserva che la disposizione inserita dall'art. 12 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12, eccede dai limiti imposti con la legge di delegazione perchè: ha introdotto una "richiesta vincolante" del pubblico ministero della quale non v'è traccia "nella pur puntuale previsione della legge- delega"; ha conferito al pubblico ministero "il potere di immotivatamente richiedere una determinata misura in via esclusiva"; ha infine reso impossibile al giudice, per le ragioni già esposte nella medesima ordinanza, "di svolgere alcuna effettiva motivazione". L'ultimo degli accennati rilievi deve ovviamente ritenersi assorbito dalle considerazioni che questa Corte ha svolto in merito alla dedotta violazione degli artt.111, primo comma, e 13, secondo comma, della Costituzione, posto che di tali precetti la legge- delega si è limitata ad operare una semplice trasposizione riproduttiva, nella parte in cui ha sancito l'obbligo per il giudice di disporre le misure di coercizione personale "con provvedimento motivato". Quanto agli altri due rilievi sui quali il rimettente fonda la propria denuncia, più ragioni ne rivelano la inconsistenza. É ben vero,infatti, che la direttiva 51 della legge-delega non ha espr previsto la disciplina introdotta con la norma impugnata: ma un assunto di tal genere rappresenta, in sè, null'altro che la constatazione del naturale rapporto di "riempimento" che lega la norma delegata a quella delegante, dovendosi altrimenti ritenere che le funzioni del legislatore delegato siano limitate ad una mera "scansione linguistica" delle previsioni dettate dal delegante, con evidente snaturamento del ben diverso regime che la Costituzione ha inteso prefigurare. Dovendosi dunque verificare se la norma impugnata violi o meno sul piano contenutistico i criteri enunciati dalla direttiva 59, ci si avvede agevolmente che la conformità della norma a quei criteri è fuori discussione. Già sul piano semantico, infatti, l'indicata direttiva correla intimamente tra loro "il potere-dovere del pubblico ministero di richiedere", al potere-dovere "del giudice di disporre" le misure di coercizione personale, evocando, così, una corrispondenza biunivoca tra richiesta e decisione che ben può spingersi a prefigurare una interdipendenza necessaria tra il "tipo" di richiesta ed il "tipo" di decisione. Nello stabilire, quindi, che nel corso delle indagini il pubblico ministero può chiedere al giudice di provvedere esclusivamente sulle misure indicate, il legislatore delegato non solo non si è discostato dalle scelte operate dal legislatore delegante, ma le ha, anzi, coerentemente sviluppate, secondo una linea che, mirando a privilegiare la netta separazione di ruoli tra soggetto richiedente e organo deliberante, indubbiamente consente di prevedere che il decisum sia rigorosamente circoscritto nei confini tracciati dal petitum.

Per ciò che infine concerne l'asserito potere del pubblico ministero "di immotivatamente richiedere una determinata misura in via esclusiva", il rimettente cade nell'equivoco di confondere tra loro l'onere di allegazione, che incombe sul pubblico ministero, con il presunto obbligo di motivazione della specifica richiesta.

É fuori di dubbio, infatti, che il pubblico ministero sia tenuto a "presentare al giudice gli elementi su cui si fonda la sua richiesta" (direttiva 59, secondo periodo, nonchè art. 291, primo comma, del codice di procedura penale), ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con il supposto obbligo - che il rimettente, errando, ritiene desumibile dalla legge-delega - di motivare le ragioni per le quali il pubblico ministero si è indotto a chiedere al giudice di provvedere esclusivamente in ordine alle misure indicate. Spetta, dunque, solo al giudice il dovere di motivare il provvedimento con il quale accogliere o respingere la richiesta formulata dal pubblico ministero, e, nell'un caso come nell'altro, l'esercizio di un simile dovere non potrà ritenersi compresso o eluso anche nell'ipotesi in cui, come già si è detto, il pubblico ministero abbia chiesto l'applicazione di una determinata misura "in via esclusiva".

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.291, comma 1-bis, del codice di procedura penale, inserito dall'art. 12 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12 (Disposizioni integrative e correttive della disciplina processuale penale e delle norme ad essa collegate), sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 24, secondo comma, 31, secondo comma e 101 (rectius: 111) della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni di Napoli con ordinanza dell'8 aprile 1991 e dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale per i minorenni di Catania, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, primo comma, 101, secondo comma, 13, secondo comma, 70 e 76 (in relazione al combinato disposto degli artt. 7 e 2, n. 59, della legge 16 febbraio 1987, n. 81) e 102, primo comma, della Costituzione, con ordinanza del 9 marzo 1991;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art.291, comma 1-bis del codice di procedura penale, inserito dall'art. 12 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12 (Disposizioni integrative e correttive della disciplina processuale penale e delle norme ad essa collegate), sollevata dal Tribunale per i minorenni di Napoli con ordinanza del 4 aprile 1991 e dal Tribunale per i minorenni di Catania con ordinanza del 28 febbraio 1991;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art.391, terzo comma, del codice di procedura penale, nel testo sostituito dall'art. 25 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n.12 (Disposizioni integrative e correttive della disciplina processuale e delle norme ad essa collegate), sollevata dal Tribunale per i minorenni di Napoli con ordinanze del 4 e dell'8 aprile 1991.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20/01/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 22 gennaio 1992.