Sentenza n. 344 del 1991

 

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SENTENZA N. 344

ANNO 1991

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Ettore GALLO                                                   Presidente

Dott. Aldo CORASANITI                                         Giudice

Dott. Francesco GRECO                                                 “

Prof. Gabriele PESCATORE                                           “

Avv. Ugo SPAGNOLI                                                    “

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA                               “

Prof. Antonio BALDASSARRE                                     “

Prof. Vincenzo CAIANIELLO                                       “

Avv. Mauro FERRI                                                         “

Prof. Luigi MENGONI                                                    “

Prof. Enzo CHELI                                                           “

Dott. Renato GRANATA                                                “

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 459, 460, 461, in relazione all'art. 565, primo comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 10 novembre 1990 dal Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Milano nel procedimento penale a carico di Pasquini Renato iscritta al n. 174 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell'anno 1991;

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

Udito nella camera di consiglio del 22 maggio 1991 il Giudice relatore Vincenzo Caianiello;

 

Ritenuto in fatto

 

1. - In sede di opposizione a decreto penale, tardivamente proposta dal difensore nominato dall'imputato, il Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Milano ha sollevato, con ordinanza in data 10 novembre 1990, in riferimento agli artt. 3, 24 e 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 459, 460 e 461 del codice di procedura penale nella parte in cui - per il giudizio dinanzi al Pretore - non prevedono, prima, o, contestualmente all'emissione del decreto penale di condanna, la nomina di un difensore, cui vada poi notificata la decisione per l'esercizio di un autonomo diritto di opposizione. Dall'eventuale accoglimento della questione, discenderebbe la possibilità di attribuire al difensore un proprio termine per la dichiarazione di opposizione, consentendo al giudice a quo di ritenere tempestiva e quindi ammissibile quella sottoposta al suo esame.

Muovendo dalla giurisprudenza di questa Corte che ha più volte escluso la violazione dell'art. 24 della Costituzione, in relazione alle norme del previgente codice di procedura penale che non prevedevano l'assistenza di un difensore per l'atto di opposizione, il giudice remittente ritiene che proprio le motivazioni poste a fondamento di quelle decisioni esigano oggi, alla luce del mutato quadro normativo, un nuovo vaglio di costituzionalità. Si era infatti ritenuto che la richiesta di dibattimento non imponesse l'assistenza di un difensore, poiché si trattava di uno strumento che, risolvendosi nella mera contestazione degli elementi risultanti dal decreto penale, risultava di agevole utilizzazione ed alla portata anche di persona priva di cognizioni tecniche.

Con le recenti norme sul procedimento per decreto introdotte dal nuovo codice di procedura penale, l'atto di opposizione avrebbe però perso quella semplicità che lo caratterizzava sotto il vigore della precedente disciplina: al condannato con decreto penale si porrebbe, infatti, in alternativa alla richiesta di dibattimento, la possibilità di operare altre scelte quali la richiesta di giudizio immediato, di applicazione della pena su accordo con il P.M., di giudizio abbreviato o di oblazione, la cui valutazione non può prescindere dall'assistenza tecnica di un difensore. Ed anche se la mancata indicazione di una qualsiasi scelta nell'atto di opposizione non preclude all'interessato la possibilità di operarla successivamente (nei termini previsti per i singoli istituti), già la semplice decisione di proporre o meno opposizione richiederebbe, ad avviso del giudice a quo, l'assistenza di un difensore, giacché, oggi, a differenza che nel passato, l'accettazione della condanna inflitta con decreto penale comporta un rilevante beneficio in termini di riduzione della pena edittale.

Le norme impugnate si porrebbero, inoltre, in contrasto con l'art. 76 della Costituzione per non aver rispettato due dei principi enunciati nella legge di delega 16 febbraio 1987, n. 81. L'obbligo imposto al legislatore delegato di "adeguarsi alle norme delle convenzioni ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale" (art. 2, comma 1) risulterebbe violato, in quanto le disposizioni censurate non sarebbero conformi alla Convenzione sulla salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (legge ratifica 4 agosto 1955, n. 848) ed al Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 19 dicembre 1966 (l. ratifica 25 ottobre 1977, n. 881) che prevedono (rispettivamente, agli artt. 6.3 lett. b e c, e 14.3 lett. b e d) il diritto di ogni accusato a disporre del tempo e della possibilità necessari a preparare la difesa e ad essere assistito da un avvocato d'ufficio quando lo esigono gli interessi della giustizia.

Anche la direttiva n. 46 (art. 2, comma 1), risulterebbe inosservata nella parte in cui, prescrivendo che nella disciplina del procedimento per decreto debbano essere previste "tutte le garanzie della difesa nella fase dell'opposizione", imporrebbe comunque l'assistenza di un difensore al momento in cui l'imputato deve decidere se proporre o meno opposizione, scegliendo poi tra la celebrazione del dibattimento o la definizione del giudizio con altre procedure.

2. - Nel giudizio così promosso è intervenuta l'Avvocatura generale dello Stato rilevando che - come già affermato da questa Corte in riferimento alle norme del previgente codice di procedura penale - il rinvio dell'esercizio del diritto di difesa alla fase dibattimentale non può ritenersi in contrasto con il precetto costituzionale dell'art. 24, dal momento che esso si armonizza con le esigenze di semplicità e speditezza del procedimento per decreto, e, la dichiarazione di opposizione, che si risolve in una richiesta di dibattimento, non richiede particolari cognizioni tecniche ed è suscettibile di essere sviluppata e dettagliata nella successiva fase del giudizio, ove è comunque necessario l'intervento di un difensore.

Tali affermazioni conserverebbero, ad avviso dell'interveniente, il loro valore anche a seguito dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale. Difatti, la maggiore difficoltà nel decidere se propone o meno opposizione, ovvero nella scelta del tipo di rito da richiedere per la definizione del giudizio sarebbe compensata dalla previsione del più ampio termine - rispetto a quello stabilito dal codice del 1930 - di 15 giorni per la proposizione dell'opposizione. Tale termine risulterebbe più che congruo anche ai fini di quelle scelte tecniche di cui si preoccupa il giudice remittente e che, comunque ed oltretutto, come egli stesso rileva, non vanno esercitate a pena di decadenza con l'opposizione stessa.

L'interveniente ha quindi concluso chiedendo che la questione venga dichiarata infondata.

 

Considerato in diritto

 

1. - È stata sollevata questione di legittimità costituzionale degli artt. 459, 460 e 461, come richiamati dall'art. 565, del codice di procedura penale nella parte in cui non prevedono, prima, o contestualmente all' emissione del decreto penale di condanna, la nomina di un difensore cui vada poi notificato il decreto penale di condanna per l'esercizio di un autonomo diritto di opposizione.

In tale mancata previsione il giudice a quo ravvisa un contrasto con gli artt. 3, 24 e 76 della Costituzione, tenuto conto della circostanza che, in special modo per il procedimento davanti al pretore (ma a suo dire anche per quello innanzi al tribunale), l'atto di opposizione nel nuovo codice di procedura penale "ha inevitabilmente perso quella semplicità e quella naturalezza" ("perché con esso occorre operare delle scelte decisive e non semplici e per farle occorre avere ben chiare le scelte operate") rendendo quindi necessaria l'assistenza di un difensore tecnico.

Altro profilo di illegittimità si prospetta in riferimento all'art. 76 della Costituzione, reputandosi violate sia la prescrizione contenuta nell'art. 2, primo comma, della legge di delega per l'emanazione del codice di procedura penale, circa l'obbligo ivi previsto di adeguamento alle convenzioni internazionali, e in particolare a quelle che prescrivono il diritto di "essere assistito da un avvocato d'ufficio quando lo esigono gli interessi della giustizia", sia la prescrizione di cui alla direttiva n. 46 dello stesso art. 2 della legge di delega in cui si prevede che il procedimento per decreto debba essere disciplinato "con tutte le garanzie per la difesa nella fase dell'opposizione".

2. - Devesi preliminarmente precisare che, come risulta dalla stessa ordinanza di rinvio, nel giudizio a quo che si svolge dinanzi al Pretore si deve fare applicazione delle norme impugnate per effetto del rinvio ad esse operato dall'art. 565 del codice di procedura penale, secondo cui, nel procedimento per decreto davanti al Pretore, si osservano le norme relative al procedimento per decreto per i reati di competenza del tribunale.

In ragione della sua rilevanza la questione da prendersi in considerazione è perciò circoscritta agli artt. 459, 460 e 461 del codice di procedura penale nelle parti in cui disciplinano il giudizio di opposizione al decreto penale dinanzi al Pretore, in virtù del rinvio di cui all'art. 565, primo comma, del codice stesso.

3.1. - La questione non è fondata.

In ordine logico può precedere l'esame del profilo di legittimità costituzionale riferito all'art. 76 della Costituzione, ed in proposito la Corte esclude, in primo luogo, che possa ritenersi violata la prescrizione dell'art. 2, primo comma, della legge di delega che obbliga il legislatore delegato al rispetto delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia.

In particolare, il giudice a quo fa espresso riferimento all'art. 6.3 lett. b e c, della convenzione sulla salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata con legge n. 848 del 1955) ed all'art. 14.3 lett. b e d del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (adottato a New York il 19 dicembre 1966 e ratificato con legge n. 881 del 1977) secondo cui ogni accusato ha diritto a disporre del tempo e della possibilità necessari a preparare la difesa e ad essere assistito da un avvocato di ufficio quando lo esigono gli interessi della giustizia.

Come si avrà modo di verificare anche in prosieguo, in relazione agli altri profili di illegittimità prospettati, i diritti che le richiamate convenzioni internazionali tendono a tutelare risultano nella specie soddisfatti.

Questa Corte, come lo stesso giudice di rinvio mostra di essere consapevole, si è già occupata, sia pure sotto il regime del codice di procedura penale abrogato, degli aspetti relativi al diritto di difesa nel procedimento per decreto affermando (sentenza n. 136 del 1967 e n. 27 del 1966 e n. 170 del 1963) che il decreto penale costituisce una decisione preliminare contro la quale l'imputato può proporre opposizione, sicché l'esperimento dei mezzi di difesa è rinviato al vero e proprio giudizio che si svolge con la stessa ampiezza dei procedimenti ordinari.

Se si collega tale affermazione all'altra (sent. n. 16 del 1970 e n. 46 del 1967) secondo cui non può ritenersi vulnerato il diritto di difesa se per il suo esercizio sono richieste modalità diverse in relazione alle speciali esigenze dei singoli procedimenti, purché non ne siano pregiudicati lo scopo e le funzioni, si deve pervenire alla conclusione di escludere che siano violati i principi posti dalle richiamate convenzioni internazionali. Esse difatti, nel reclamare che l'imputato debba essere "assistito da un avvocato quando lo esigono gli interessi della giustizia", tendono ad evitare che la mancanza di un difensore possa risultare pregiudizievole per il diritto di difesa in relazione allo scopo ed alle funzioni dell'atto da compiere. Ma, come questa Corte ha già avuto modo di affermare (sentenza n. 189 del 1972), un difensore tecnico non è indispensabile al fine di proporre opposizione, in quanto questa "si risolve in una richiesta di dibattimento sul presupposto della ritenuta ingiustizia della condanna, richiesta resa agevole ed alla portata anche di persona priva di cognizioni tecniche in quanto può concretarsi nella mera contestazione degli elementi risultanti dal decreto penale. Ed ovviamente può essere sviluppata e dettagliata nella sede dibattimentale, ove è assicurato l'intervento del difensore".

Non può perciò convenirsi con l'ordinanza di rinvio la dove afferma che "gli interessi della giustizia", cui fanno riferimento le richiamate convenzioni internazionali, esigono la nomina del difensore anche ai fini della proposizione dell'opposizione perché il carattere agevole della scelta (non venuto meno, come si vedrà più avanti, per effetto della disciplina del nuovo codice), la congruità (15 giorni) del tempo per operarla e la garanzia del difensore nella sede del giudizio vero e proprio, cui intende riferirsi la convenzione internazionale, fanno sì che alla scelta tra il fare o non fare l'opposizione l'interessato possa addivenire anche senza l'assistenza di un difensore tecnico, una volta che questa assistenza risulti assicurata nel momento in cui si accede al giudizio ordinario.

3.2. - Neppure fondata è l'altra censura formulata in riferimento all'art. 76 della Costituzione, per asserita violazione della direttiva n. 46 dell'art. 2 della legge di delega, la quale testualmente dispone la "previsione di un procedimento per decreto emesso dal giudice su richiesta del pubblico ministero, solo per condanna a pena pecuniaria, anche se inflitta in sostituzione di pena detentiva e con tutte le garanzie per la difesa nella fase dell'opposizione".

Una corretta interpretazione della formula adoperata in sede di delega esclude, secondo la più corrente accezione, che nella "fase dell'opposizione" possa ritenersi compresa anche la dichiarazione di opposizione.

Questa costituisce l'atto per effetto del quale si apre, dinanzi all'organo giudiziario competente, detta fase, che ha appunto inizio dal momento in cui l'opposizione viene dichiarata, per cui è solo dal momento in cui si accede al rito ordinario che nasce l'esigenza di "tutte le garanzie" espressamente enunciate in sede di delega.

4.1. - Passando ad esaminare i profili di legittimità costituzionale prospettati in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la Corte non può condividere il punto di vista espresso nell'ordinanza di rinvio, secondo cui, in relazione alla disciplina del nuovo codice di procedura penale, non potrebbero valere le considerazioni svolte dalla già richiamata giurisprudenza (sentenza n. 189 del 1972), perché in base al nuovo regime, il fare o non fare opposizione comporterebbe "scelte decisive e non semplici e per farle occorre avere ben chiare le conseguenze processuali e sostanziali delle scelte operate". Né, secondo il giudice a quo varrebbe considerare in contrario che all'opponente non sarebbe preclusa, una volta formulata l'opposizione, la possibilità di operare in prosieguo, dopo il decreto di citazione a giudizio, la scelta fra i riti alternativi con l'assistenza di un difensore, perché la scelta già compiuta con l'avvenuta opposizione potrebbe precludere invece irreparabilmente la possibilità di godere del beneficio, previsto dall'art. 459 del codice di procedura penale, della riduzione alla metà della pena minima edittale.

Osserva la Corte che per quel che riguarda la possibilità di chiedere il giudizio abbreviato o l'applicazione della pena su accordo con il pubblico ministero, non può in primo luogo condividersi il dubbio espresso nell'ordinanza di rinvio. Tale dubbio si fonda sulla diversità di formula adoperata nell'art. 565, secondo comma, per il giudizio innanzi al pretore: "con l'atto di opposizione l'imputato chiede.. .. .. il decreto che dispone il giudizio ovvero chiede il giudizio abbreviato o l'applicazione della pena a norma dell'art. 444" rispetto alla formula "può chiedere" adoperata dall'art. 462, terzo comma, per l'opposizione in tribunale, il che potrebbe far ritenere esclusa nel procedimento pretorile l'ulteriore possibilità di chiedere i giudizi alternativi ove la scelta non venga fatta nell'atto di opposizione. Ad avviso della Corte, la differenza tra le formule adoperate "chiede" e "può chiedere" è priva di importanza dovendo ad esse attribuirsi significato identico ai fini che interessano, perché manca ogni elemento per dedursi che nel primo caso, a differenza del secondo, si sia voluta introdurre una preclusione in ragione delle caratteristiche del giudizio pretorile rispetto a quello dinanzi al tribunale. Deriva da ciò che l'eventuale mancanza nell'atto di opposizione di una qualsiasi richiesta in ordine alle tre alternative indicate nell'art. 565, secondo comma, assume implicitamente il significato di richiesta del decreto di citazione (ancorché non espressamente indicato) e non comporta l'inammissibilità dell'opposizione. Ciò è in particolare escluso dalla circostanza che l'art. 565, primo comma, rinvia, per il procedimento per decreto pretorile, alle norme sullo stesso procedimento dinanzi al tribunale, che prevedono espressamente (in particolare art. 461, commi 2 e 3), le ipotesi di inammissibilità dell'opposizione, tra le quali non vi è quella della mancata indicazione del rito prescelto. Ma, una volta che è l'emissione del decreto di citazione la naturale conseguenza della dichiarazione di opposizione non accompagnata dalla indicazione del tipo di giudizio prescelto, non vengono da tale conseguenza ad essere precluse le altre scelte alternative ed in particolare quelle indicate nell'ordinanza di rinvio. Così la scelta del rito abbreviato, che nel procedimento pretorile rimane ancora possibile nel termine di 15 giorni dalla notifica del decreto di citazione a giudizio (artt. 560, primo comma 1, e 555, primo comma, lett. e) e quella dell'applicazione della pena su accordo con il pubblico ministero, che nel procedimento stesso è possibile fino all'apertura del dibattimento (art. 563, commi 1 e 4).

4.2. - Per quanto attiene all'oblazione, su cui anche si è soffermata l'ordinanza di rinvio, va rilevato che se - come conseguenza di una espressa dichiarazione effettuata a norma dell'art. 565, secondo comma, o come conseguenza della mancata scelta del tipo di giudizio nella dichiarazione di opposizione - si perviene al decreto di citazione a giudizio, la richiesta di oblazione (ancorché non contenuta nell'atto di opposizione) è possibile fino all'apertura del dibattimento e quindi non è pregiudizievole il fatto che l'imputato, in quanto non assistito dal difensore e quindi da questi non reso edotto, non si sia avvalso della facoltà (prevista dall'art. 464, secondo comma, cui rinvia per il procedimento pretorile l'art. 565, primo comma) di chiederla contestualmente all'opposizione.

Se invece l'imputato richieda l'oblazione contestualmente all'opposizione, ai sensi degli artt. 565, primo comma e 464, secondo comma citato dimostra per ciò stesso di essere in grado di operare una scelta per sé vantaggiosa con la conseguenza di escludere ogni sua lesione, per cui diviene ininfluente che non gli sia stato nominato un difensore d'ufficio.

4.3. - Resta da esaminare il profilo, sul quale si è in particolare soffermata l'ordinanza di rinvio, circa la possibile perdita del beneficio della riduzione fino alla metà del minimo della pena edittale, perdita che potrebbe costituire conseguenza della mancata accettazione del decreto penale a norma dell'art. 459, secondo comma, del codice di procedura penale. In realtà la questione è mal posta in termini di "beneficio" conseguente alla "accettazione del decreto penale", perché quello dell'applicazione di una pena diminuita fino alla metà non è un beneficio conseguente "all'accettazione" del decreto penale, ma costituisce il limite di diminuzione della pena edittale minima che il pubblico ministero può indicare nel richiedere l'emissione del decreto penale. Una volta chiarita in questi termini la portata dell'art. 459, secondo comma, (applicabile nel giudizio a quo per il rinvio dell'art. 565, primo comma) non viene in discussione la perdita di un beneficio come possibile conseguenza della mancata accettazione del decreto penale, bensì la convenienza o meno di accettare o affrontare, con l'opposizione, il giudizio ordinario con tutte le alee che questo comporta. Ma rispetto a questa scelta in sé e per sé considerata, alle conseguenze che essa comporta ed alla mancanza di preclusioni una volta effettuata, valgono le affermazioni già fatte dalla richiamata giurisprudenza della Corte (sentenza n. 189 del 1972) sia pur relativamente alla disciplina precedente, in ordine alle quali, però, relativamente ai profili che qui rilevano, la situazione non appare mutata per effetto della nuova disciplina.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 459, 460 e 461, in relazione all'art. 565, primo comma, del codice di procedura penale, sollevata dal Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Milano, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 luglio 1991.

 

Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA - Giuliano VASSALLI.

 

Depositata in cancelleria il 15 luglio 1991.