Ordinanza n. 252 del 1991

 

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ORDINANZA N. 252

ANNO 1991

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Dott. Aldo CORASANITI                                         Presidente

Prof. Giuseppe BORZELLINO                                   Giudice

Dott. Francesco GRECO                                                 “

Prof. Gabriele PESCATORE                                           “

Avv. Ugo SPAGNOLI                                                    “

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA                               “

Prof. Antonio BALDASSARRE                                     “

Prof. Vincenzo CAIANIELLO                                       “

Avv. Mauro FERRI                                                         “

Prof. Luigi MENGONI                                                    “

Prof. Enzo CHELI                                                           “

Dott. Renato GRANATA                                                “

Prof. Giuliano VASSALLI                                              “

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 422, primo e secondo comma, e 425 del codice di procedura penale, e dell'art. 125 del testo delle norme d'attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale (testo approvato con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271), promossi con n. 4 ordinanze emesse dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Ancona iscritte ai nn. 85, 94, 109 e 110 del registro ordinanze 1991 e pubblicate nelle Gazzette Ufficiali della Repubblica nn. 9 e 10, prima serie speciale, dell'anno 1991;

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 22 aprile 1991 il Giudice relatore Mauro Ferri;

Ritenuto che il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Ancona, nel corso di udienze preliminari nelle quali la difesa degli imputati aveva richiesto prova per testi e "consulenza tecnica d'ufficio", ha sollevato, con tre ordinanze di identico contenuto del 12 e 13 novembre 1990 (reg. ord. nn. 85, 109 e 110 del 1991), questione di legittimità costituzionale dell'art. 422, primo e secondo comma, del codice di procedura penale "nella parte in cui non sembra consentire alle parti di prospettare al giudice per le indagini preliminari temi nuovi o incompleti sui quali si rende necessario acquisire ulteriori informazioni ai fini della decisione, vincolando l'attivazione del meccanismo di cui al primo comma alla propulsione da parte del giudice stesso, e nella parte in cui non comprende nella dizione 'consulenti tecnici' anche la nomina di c.t.u. da parte del giudice stesso";

che, ad avviso del remittente, la impugnata normativa contrasterebbe, da un lato, con l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, per violazione del principio dell'accertamento della verità materiale, e, dall'altro, con l'art. 97 della Costituzione, in quanto non consente all'udienza preliminare di svolgere la funzione di autentico filtro selettore diretto ad evitare l'inflazione dei dibattimenti;

che lo stesso giudice, nel corso di un'altra udienza preliminare nella quale la difesa degli imputati aveva richiesto prova per testi, ha sollevato, con ordinanza del 5 dicembre 1990 (reg. ord. n. 94 del 1991), questione di legittimità costituzionale "relativa alla disparità di trattamento fra l'art. 125 disp. att. del nuovo codice di procedura penale laddove comprende nella formula 'idonei a sostenere l'accusa in giudizio' anche l'insufficienza di prove e l'art. 425 n. 1 del codice di procedura penale laddove afferma il concetto di evidenza ai fini del non luogo a procedere in modo generico anziché circostanziato, senza un sufficiente meccanismo di raccordo con l'art. 422 nn. 1 e 2 stesso codice, laddove consente la ricerca della prova dell'evidenza sotto ogni profilo"; nonché questione concernente lo stesso "art. 422 nn. 1 e 2 laddove non sembra consentire alle parti la prospettazione al giudice della necessità di non dichiarare chiusa la discussione onde consentire l'acquisizione di ulteriori informazioni...... rispetto alla ipotesi in cui sia il giudice stesso, terminata la discussione, ad effettuare detta prospettazione nei confronti delle parti";

che, ad avviso del giudice a quo, le norme impugnate violerebbero gli artt. 2, 3 e 97 della Costituzione, quest'ultimo per "l'inevitabile inflazione dei dibattimenti" dovuta all'"obbligatorietà scontata del rinvio a giudizio" che deriverebbe dalle norme medesime;

che in tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l'inammissibilità della questione relativa agli artt. 125 delle norme di attuazione del codice di procedura penale e 425 del codice stesso (sollevata con l'ordinanza del 5 dicembre 1990), in quanto prospettante una disparità di trattamento tra norme irrilevante ai fini dell'art. 3 della Costituzione, e per l'infondatezza di tutte le altre questioni;

Considerato che i giudizi, concernendo questioni identiche o, comunque, strettamente connesse, vanno riuniti e decisi congiuntamente;

che, in ordine alla questione - sollevata con tutte le ordinanze di rimessione - relativa all'art. 422, primo e secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui, ad avviso del giudice a quo, non consente alle parti di prospettare al giudice dell'udienza preliminare temi nuovi o incompleti sui quali si rende necessario acquisire ulteriori informazioni ai fini della decisione (ovvero di prospettare la necessità di non dichiarare chiusa la discussione agli stessi fini), subordinando tale meccanismo all'impulso da parte del giudice stesso, la questione è stata già esaminata da questa Corte e dichiarata non fondata con sentenza n. 64 del 1991;

che in detta pronuncia si è, in sintesi, affermato che l'udienza preliminare è stata congegnata come un procedimento allo stato degli atti e non come strumento di accertamento della verità materiale, cioè come una fase processuale e non di cognizione piena, nella quale la funzione del giudice non consiste in una valutazione di tipo prognostico sulle prospettive di condanna o di assoluzione dell'imputato, ma in un controllo sulla legittimità della domanda di giudizio avanzata dal pubblico ministero: con la conseguenza che deve ritenersi coerente a tale impostazione il fatto che spetti al giudice, al solo fine di evitare situazioni di stallo decisorio, individuare "temi nuovi o incompleti" il cui accertamento risulti decisivo a detti fini;

che, peraltro, si è altresì sottolineato che indicazioni o sollecitazioni in tal senso possono certamente provenire dalle parti nel corso della discussione prevista nell'art. 421 (anche mediante presentazione di memorie e richieste scritte, ai sensi dell'art. 121), fermo rimanendo però che non si può prescindere dalla previa valutazione del giudice di non poter decidere allo stato degli atti e dalla previa indicazione da parte sua dei temi, nuovi o incompleti, sui quali promuovere il "supplemento istruttorio";

che le anzidette considerazioni valgono non soltanto ad escludere la violazione dell'art. 24 della Costituzione (invocato nell'ordinanza introduttiva del giudizio deciso con la citata sentenza n. 64 del 1991), in quanto i modi di esercizio e di fruizione del diritto di difesa possono diversamente atteggiarsi in relazione alle caratteristiche strutturali e funzionali dei singoli procedimenti, ma altresì la lesione degli altri parametri ora indicati (artt. 2, 3 e 97 della Costituzione, la cui violazione non risulta peraltro sempre sorretta da adeguata motivazione);

che le medesime argomentazioni valgono, poi, anche ad escludere la fondatezza della questione - sollevata in riferimento agli artt. 24 e 97 della Costituzione - relativa alla mancata previsione nell'art. 422 del codice di procedura penale della possibilità di nomina di un consulente tecnico d'ufficio (recte, perito) da parte del giudice (anche su sollecitazione delle parti), non potendo tale scelta ritenersi irragionevole, tenuto conto della natura e della funzione dell'udienza preliminare dianzi evidenziate, le quali hanno indotto il legislatore delegato a limitare il "supplemento istruttorio" solo a taluni mezzi di prova, con esclusioni di altri (tra cui, appunto, le perizie, i confronti ecc.);

che in relazione, infine, alla questione, sollevata con l'ordinanza del 5 dicembre 1990, relativa alla pretesa "disparità di trattamento fra l'art. 125 disp. att. del codice di procedura penale e l'art. 425 dello stesso codice" in ordine alla diversità delle regole da dette norme adottate ai fini, rispettivamente, dell'archiviazione e della sentenza di non luogo a procedere, va, innanzitutto, rigettata l'eccezione di inammissibilità sollevata dall'Avvocatura dello Stato, dovendosi ritenere che con l'ordinanza di rimessione - non senza uno sforzo interpretativo dovuto alla formulazione non certo felice - il giudice a quo abbia inteso censurare non la diversità delle due disposizioni in sé, bensì la disparità di trattamento in cui verrebbe a trovarsi, pur in presenza di vicende analoghe, l'imputato in ordine al quale il giudice, all'esito dell'udienza preliminare, deve decidere se pronunciare sentenza di non luogo a procedere ovvero decreto che dispone il giudizio, rispetto alla persona sottoposta alle indagini per la quale il giudice deve decidere se accogliere o meno la richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero: nel senso che le condizioni per ottenere il non luogo a procedere (art. 425 del codice di procedura penale) sarebbero più gravose (evidenza della prova della non responsabilità) rispetto a quelle - assunte come tertium comparationis - richieste per ottenere l'archiviazione (inidoneità degli elementi acquisiti a sostenere l'accusa in giudizio: art. 125 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271);

che, così interpretata la proposta questione, questa Corte ha già avuto modo di rilevare, nella sentenza n. 88 del 1991, come la formula adoperata nel citato art. 125 delle norme di attuazione del codice di procedura penale - elementi "non idonei a sostenere l'accusa" - vada intesa, tanto più se raffrontata a quella contenuta nell'art. 115 del progetto preliminare ('elementi non sufficienti.. .. .. al fine della condanna'), nel senso che sulla base degli elementi acquisiti l'accusa deve essere chiaramente insostenibile e quindi la notitia criminis inequivocamente infondata, coerentemente a quanto stabilito nella direttiva n. 50 della legge-delega: con la conseguenza che la differenza rispetto alla regola adottata per il non luogo a procedere, seppur persistente, si attenua sensibilmente, non potendosi negare un certo accostamento - anche se in prospettive diverse - tra insostenibilità dell'accusa ed evidenza dell'innocenza;

che, inoltre, come pure si è affermato nella predetta pronuncia, la differenza è giustificata dalla diversa funzione che le due discipline assolvono nel sistema del codice, attinendo la prima ad una fase in cui il controllo del giudice è volto sì a non dar ingresso ad accuse insostenibili, ma ancor più a far fronte all'eventuale inerzia del pubblico ministero ed a garantire, in definitiva, l'obbligatorietà dell'azione penale, mentre la seconda concerne una fase in cui il controllo stesso si svolge in chiave essenzialmente garantistica, al fine cioè di tutelare l'imputato nei confronti di accuse rivelatesi palesemente infondate;

che, in ogni caso, la situazione dell'imputato nell'udienza preliminare non è certamente identica a quella della persona sottoposta alle indagini, in quanto basta osservare che nei confronti del primo è stata esercitata l'azione penale, mediante la richiesta di rinvio a giudizio da parte del pubblico ministero, e quindi si è in una fase in cui si è instaurato un tipico rapporto processuale tra le parti e il giudice, del tutto diversa da quella assunta come termine di raffronto, e pertanto ad essa non paragonabile ai fini dell'art. 3 della Costituzione;

che, in conclusione, tutte le sollevate questioni vanno dichiarate manifestamente infondate;

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale;

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Riuniti i giudizi,

a) dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 422, primo e secondo comma, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 97 della Costituzione, dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Ancona con tutte le ordinanze indicate in epigrafe;

b) dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 425 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3 e 97 della Costituzione, dallo stesso giudice con l'ordinanza del 5 dicembre 1990 di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 maggio 1991.

 

Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA - Giuliano VASSALLI.

 

Depositata in cancelleria il 6 giugno 1991.