Sentenza n. 203 del 1991

 

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SENTENZA N. 203

ANNO 1991

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Dott. Aldo CORASANITI                                         Presidente

Prof. Giuseppe BORZELLINO                                   Giudice

Dott. Francesco GRECO                                                 “

Prof. Gabriele PESCATORE                                           “

Avv. Ugo SPAGNOLI                                                    “

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA                               “

Prof. Antonio BALDASSARRE                                     “

Prof. Vincenzo CAIANIELLO                                       “

Avv. Mauro FERRI                                                         “

Prof. Luigi MENGONI                                                    “

Prof. Enzo CHELI                                                           “

Dott. Renato GRANATA                                                “

Prof. Giuliano VASSALLI                                              “

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 195, secondo comma, ultimo periodo, del codice penale militare di pace, promosso con ordinanza emessa il 26 settembre 1990 dal Tribunale militare di Padova nel procedimento penale a carico di Mossi Bruno, iscritta al n. 713 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 1990;

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 27 febbraio 1991 il Giudice relatore Ugo Spagnoli;

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un procedimento penale avente ad oggetto, tra l'altro, il reato di violenza ad un inferiore (art. 195, cod. pen. mil. di pace), che aveva nella specie comportato lesioni gravi, il Tribunale militare di Padova, su eccezione del pubblico ministero, ha sollevato una questione di legittimità dell'ultima parte del secondo comma di tale articolo, assumendone il contrasto con gli artt. 24, secondo comma, 25, secondo comma e 27, primo comma, Cost.

L'articolo 195 cod. pen. mil. di pace come novellato dall'art. 5 della legge 26 novembre 1985, n. 689 (Modifiche al codice penale militare di pace), stabilisce:

"1. Il militare, che usa violenza contro un inferiore, è punito con la reclusione militare da uno a tre anni.

2. Se la violenza consiste nell'omicidio volontario, consumato o tentato, nell'omicidio preterintenzionale, ovvero in una lesione personale grave o gravissima, si applicano le corrispondenti pene stabilite dal codice penale. La pena detentiva temporanea può essere aumentata".

Premesso, in punto di rilevanza, che nella specie trattasi di reato commesso in luogo militare per cause attinenti al servizio ed alla disciplina militare, il Tribunale afferma, innanzitutto, che la disposizione di cui all'ultima parte del secondo comma, testé citato, configura una vera e propria circostanza aggravante - e non il limite superiore di una pena edittalmente complessa - dato che non prevede un preciso limite edittale dell'aumento di pena (cfr. art. 64 cod. pen.); e che tale natura mantiene anche se l'ipotesi di cui al secondo comma viene qualificata come reato autonomo rispetto a quella di cui al primo comma.

Essa va inquadrata, in particolare, tra le circostanze "indefinite" (o "indeterminate"), e più precisamente tra quelle indefinite "facoltative" (o "a discrezionalità bifasica"), nelle quali all'indeterminatezza dei contenuti e dei valori tutelati - la cui individuazione è rimessa al giudice - si accompagna la facoltatività della relativa applicazione da parte di costui.

In ciò il Tribunale rimettente ravvisa, in primo luogo, una violazione del principio di tassatività - e, quindi, di legalità - fissato nell'art. 25, secondo comma, Cost.: sia perché le circostanze aggravanti, incrementando la sanzione penale, non possono sfuggire al principio di tipicizzazione; sia perché spetta esclusivamente alla legge di stabilire il trattamento sanzionatorio. Né potrebbe sostenersi che il giudice, una volta riconosciuto il valore non tipicizzato, sarebbe obbligato ad applicare la circostanza e che la riserva di legge sarebbe rispettata attraverso l'obbligo di motivazione. Il controllo sul corretto esercizio del potere così "impropriamente" delegatogli sarebbe pur sempre rimesso, invero, ad un giudice dell'impugnazione anch'esso privo di specifici parametri normativi.

Il principio di legalità sarebbe violato, in particolare, per la mancanza di ogni indicazione, sia pur generica (come, ad es., il riferimento alla "gravità" del caso), dei valori protetti. Ciò, infatti, renderebbe ineliminabile il dubbio se l'aggravante vada riconosciuta solo in relazione alla plurioffensività del reato rispetto alle corrispondenti figure di diritto penale comune; ovvero anche per elementi intrinseci al fatto che ne denotino una particolare gravità; o anche per fattori estrinseci al fatto, concernenti l'elemento soggettivo e la personalità del reo.

Rilevato, poi, che la tendenza evolutiva del sistema penale è nel senso di estendere anche alle aggravanti la regola della rimproverabilità (cfr. art. 59 cod. pen., come modificato con la legge n. 19 del 1990), il Tribunale rimettente fonda l'ulteriore censura di violazione del principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.) sul rilievo che non può essere rimproverabile chi, per la genericità della norma, non è in grado di conoscerne il preciso contenuto.

Sarebbe violato, infine, anche il diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), dato che la genericità dell'aggravante comporta, necessariamente, che generica - e non precisa e dettagliata - sia la contestazione di essa, sicché l'imputato non sarebbe posto in condizione di discolparsi.

2. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto tramite l'Avvocatura dello Stato, ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata, in quanto la disposizione impugnata non configurerebbe una circostanza aggravante, ma avrebbe la funzione di determinare la pena edittale per i vari casi di violenza contemplati dal precetto. La questione, cioè, concernerebbe la misura della pena, e quindi materia rientrante nella discrezionalità del legislatore.

 

Considerato in diritto

 

1. - L'articolo 195 cod. pen. mil. di pace, come novellato dall'art. 5 della legge 26 novembre 1985, n. 689 (Modifiche al codice penale militare di pace), stabilisce:

"1. Il militare, che usa violenza contro un inferiore, è punito con la reclusione militare da uno a tre anni.

2. Se la violenza consiste nell'omicidio volontario, consumato o tentato, nell'omicidio preterintenzionale, ovvero in una lesione personale grave o gravissima, si applicano le corrispondenti pene stabilite dal codice penale. La pena detentiva temporanea può essere aumentata".

Il Tribunale militare di Padova assume che, quale che sia la configurazione da dare alla fattispecie descritta nel secondo comma (ipotesi aggravata rispetto a quella di cui al primo comma, ovvero reato autonomo), la disposizione contenuta nell'ultima parte costituisca una circostanza aggravante; e che, in particolare, essa andrebbe classificata come aggravante "indefinita" e "facoltativa", dato che lascia indeterminati i valori con essa tutelati e rende facoltativa la sua applicazione.

Su tale premessa, il Tribunale sostiene che detta disposizione (secondo comma, ultima parte) contrasterebbe:

- con il principio di legalità (art. 25, secondo comma, Cost.), dato che sarebbe violata la riserva alla legge del trattamento sanzionatorio e non sarebbe possibile stabilire se l'aggravamento consegua alla sola plurioffensività del reato o anche alla gravità del fatto o, ancora, a circostanze soggettive;

- con l'art. 27, primo comma, Cost., non potendo considerarsi rimproverabile chi non sia posto in grado di conoscere l'esatto contenuto della norma;

- con l'art. 24, secondo comma, Cost., perché la necessaria genericità della contestazione non consentirebbe un'adeguata difesa.

2. - Premesso che non appare controvertibile la qualificazione della disposizione impugnata come vera e propria circostanza aggravante, occorre verificare se effettivamente risulti rimessa al giudice l'individuazione del valore con essa tutelato, ciò che sostanzierebbe la dedotta violazione dell'art. 25, secondo comma, Cost.

Il giudice rimettente inquadra l'aggravante nella categoria delle circostanze "indefinite", che peraltro designa solitamente, come è noto, quelle proposizioni normative - particolarmente frequenti nella legislazione speciale - nelle quali l'aggravamento di pena è collegato alla "maggiore" o "particolare" gravità del "caso". In esse l'individuazione degli elementi di disvalore - ulteriori rispetto alla fattispecie base - che legittimano l'aumento o la modificazione della specie di pena è lasciata al giudice, dato che essi sono dal legislatore ritenuti insuscettibili di tipizzazione ed enucleabili solo avendo riguardo alle particolarità del caso concreto.

Già in prima approssimazione, quindi, vi è ragione di dubitare dell'inquadramento dell'aggravante in esame tra quelle indefinite, dato che trattasi di proposizione normativa strutturalmente diversa da quelle tipiche di tale categoria: sicché occorre verificare se l'apparente indeterminatezza dei contenuti di disvalore che essa esprime non sia colmabile con i comuni strumenti di interpretazione.

3. - Occorre considerare, al riguardo, che il testo del novellato art. 195 (violenza contro un inferiore) si differenzia da quello originario - oltre che per un'attenuazione della pena prevista per l'ipotesi base - proprio per la diversa formulazione dell'aggravante in questione. Anche lì, cioè, si stabiliva che ai casi di violenza consistiti in omicidio (nelle sue varie ipotesi) o in lesioni (almeno) gravi si applicassero "le corrispondenti pene stabilite dal codice penale": ma si statuiva che "Tuttavia, la pena detentiva temporanea è aumentata".

La differenza tra l'aggravante originaria e quella del testo novellato sta dunque solo in ciò, che essa è stata trasformata da obbligatoria in facoltativa.

Tale modifica è frutto di un'elaborazione che, muovendo da un testo del disegno di legge governativo di riforma (n. 1152 Atti Camera, IX legislatura) che nel secondo comma stabiliva, per i casi di omicidio o lesioni, pene autonome rispetto a quelle dei corrispondenti delitti comuni, approdò, in sede di prima lettura alla Camera, ad una formulazione del tutto identica a quella originaria, con il mantenimento, quindi, dell'aggravante obbligatoria.

Al Senato (cfr. Seduta del 25 settembre 1985 delle Commissioni Giustizia e Difesa riunite, in sede deliberante) nel contrasto tra chi voleva il mantenimento dell'aggravante obbligatoria e chi sosteneva che essa andasse integralmente eliminata, prevalse la tesi della trasformazione dell'aggravante da obbligatoria in facoltativa, alla cui stregua fu approvato il testo definitivo.

In relazione al testo originario del codice, era pacifico, in dottrina e giurisprudenza, che l'aggravamento trova ragione nella tipica plurioffensività del reato di violenza contro un inferiore, nel fatto cioè che con esso, ove consista in omicidio o lesioni (almeno) gravi, si offende non solo la vita o l'integrità fisica dell'inferiore, ma anche l'interesse alla coesione delle forze armate, e specificamente quello attinente al servizio ed alla disciplina militare, che costituisce il peculiare oggetto di tutela dei reati speciali di insubordinazione ed abuso di autorità.

Non vi è ragione di ritenere - né il giudice a quo offre elementi in contrario - che la trasformazione dell'aggravante da obbligatoria in facoltativa abbia comportato un mutamento del suo oggetto, che cioè essa vada riferita a qualcosa di diverso o di ulteriore rispetto alle esigenze di tutela del servizio e della disciplina militare.

La modifica si inserisce, invece, nel quadro di un più vasto orientamento tendente ad accentuare, nella prospettiva segnata dall'art. 52 Cost., l'ispirazione democratica dell'ordinamento penale militare e ad attenuarne, perciò, i caratteri di specialità rispetto a quello comune. In tale orientamento si iscrivono, da un lato, la totale equiparazione quoad poenam delle fattispecie di insubordinazione con violenza e di violenza contro un inferiore (artt. 186 e 195, nel testo novellato), e cioè la parificazione dei soggetti del rapporto gerarchico quanto ai rispettivi doveri di autocontrollo; dall'altro, la restrizione dell'area degli speciali reati di insubordinazione ed abuso di autorità realizzata con la trasformazione da attenuante in causa di inapplicabità ai medesimi della previsione sull'estraneità al servizio od alla disciplina militare delle cause dell'episodio criminoso (art. 199).

Nel medesimo senso, inoltre, si è indirizzata l'opera di conformazione ai valori costituzionali svolta da questa Corte, che si è manifestata non solo con le note pronunce che hanno reso ineludibile la riforma del 1985, ma anche, più di recente, con l'ulteriore delimitazione (mediante ablazione di parte del citato art. 199) dei comportamenti riconducibili ai predetti reati speciali, resa necessaria da un più appropriato "bilanciamento tra le esigenze di coesione dei corpi militari e quelle di tutela dei diritti individuali che sono postulate dallo spirito democratico cui va informato l'ordinamento delle forze armate" (sentenza n. 22 del 1991).

Di analogo segno è la modifica realizzata con la disposizione in esame. Il legislatore ha, cioè, considerato che non ogni atto di violenza, sfociato in omicidio od in lesioni gravissime o gravi, perpetrato contro l'inferiore (ovvero contro il superiore: cfr. l'art. 186, secondo comma) ha connotati tali da comportare una significativa aggressione (anche) ai beni del servizio e della disciplina militare: ed ha ritenuto, in base ad una scelta discrezionale coerente al suddetto indirizzo, che solo una consistente incisione di tali beni fosse meritevole di sanzione aggiuntiva. Data l'impossibilità di tipizzare i casi in cui l'aggressione assurga, in base a tale criterio, ad autonoma ragione di aggravamento delle pene previste per i corrispondenti delitti comuni, la legge ha così demandato al giudice l'individuazione della soglia della lesione rilevante, da effettuarsi secondo le particolarità del caso concreto attinenti, sotto il profilo oggettivo e/o soggettivo, alle violazioni delle regole del servizio e della disciplina.

4. - Così interpretata in base ai criteri storico e logico-sistematico, la norma impugnata risulta immune dalle censure mossele dal giudice a quo.

Non è leso, innanzitutto, il principio di (sufficiente) determinazione della fattispecie (art. 25, secondo comma, Cost.), dato che nella disposizione è chiaramente individuato - pur se solo per implicito - il disvalore da considerare ai fini dell'aggravamento di pena e quindi l'ambito entro il quale può esplicarsi la discrezionalità giudiziale; e questa è, d'altra parte, ulteriormente limitata, anche sul piano quantitativo, dal già illustrato criterio della "rilevanza" della lesione.

Né a sostegno della pretesa violazione dell'art. 25, secondo comma, Cost. può addursi il (solo) carattere facoltativo, e quindi discrezionale, dell'aggravante: sia perché la facoltatività attiene solo all'individuazione della rilevanza della lesione dato che una volta che la si sia riconosciuta l'applicazione dell'aggravante diviene doverosa; sia perché la discrezionalità, così intesa, risulta coerente al principio di "individualizzazione" delle pene, con il quale quello della loro "legalità" va contemperato ed armonizzato (cfr. sentenza n. 131 del 1970).

Invero, come questa Corte ha chiarito nella sentenza n. 50 del 1980, il primo principio è "naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio di uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale"; ed il secondo "dà forma ad un sistema che trae contenuti ed orientamenti da altri principi sostanziali - come quelli indicati dall'art. 27, primo e terzo comma, Cost. - ed in cui 'l'attuazione di una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione più che l'uniformità'". Ciò rende ragione, sia, in generale, del "ruolo centrale, che nei sistemi penali moderni è proprio della discrezionalità giudiziale, nell'ambito e secondo i criteri segnati dalla legge"; sia, in particolare, della piena legittimità costituzionale di aggravanti del tipo di quella qui esaminata.

Tanto meno, poi, possono dirsi violati i precetti di cui agli artt. 27, primo comma e 24, secondo comma, Cost. Invero, l'univocità del disvalore considerato dalla norma impugnata, da un lato ne permette la conoscibilità, rendendo così rimproverabile la condotta inosservante; dall'altro, consente all'accusa di enucleare gli elementi di fatto reputati idonei a concretare una lesione "rilevante" dei beni dell'ordine e della disciplina militare: addossandole, per ciò stesso, l'onere di una loro contestazione specifica, in mancanza della quale l'aggravante non potrebbe essere riconosciuta che a pena di violazione del diritto di difesa, del quale quello alla contestazione è naturale proiezione.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 195, secondo comma, ultima parte, del codice penale militare di pace, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, 25, secondo comma e 27, primo comma, della Costituzione, sollevata dal Tribunale militare di Padova con ordinanza del 26 settembre 1990.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 aprile 1991.

 

Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA - Giuliano VASSALLI.

 

Depositata in cancelleria il 13 maggio 1991.