Sentenza n. 81 del 1991

 

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SENTENZA N. 81

 

ANNO 1991

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Giovanni CONSO                                              Presidente

Prof. Ettore GALLO                                                   Giudice

Dott. Aldo CORASANITI                                              “

Prof. Giuseppe BORZELLINO                                       “

Dott. Francesco GRECO                                                 “

Prof. Gabriele PESCATORE                                           “

Avv. Ugo SPAGNOLI                                                    “

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA                               “

Prof. Antonio BALDASSARRE                                     “

Prof. Vincenzo CAIANIELLO                                       “

Avv. Mauro FERRI                                                         “

Prof. Luigi MENGONI                                                    “

Prof. Enzo CHELI                                                           “

Dott. Renato GRANATA                                                “

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 438, 439,440 e 442 del codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse il 3 gennaio 1990 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Rieti, il 17 aprile 1990 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale per i minorenni di Roma, il 10 aprile 1990 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino, l'8 maggio 1990 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Treviso, il 19 luglio 1990 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Brescia, il-25 luglio 1990 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino e il 19 luglio 1990 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Termini Imerese, ordinanze iscritte ai nn. 145, 379, 421, 531, 592, 603, 661 del registro ordinanze 1990 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, n. 25, n. 27, n. 36, n. 39 e n. 43, prima serie speciale, dell'anno 1990.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 dicembre 1990 il Giudice relatore Giovanni Conso.

 

Ritenuto in fatto

 

 

1. - Nel corso dell'udienza preliminare instaurata davanti al Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Rieti nei confronti di Marzola Giancarlo, Impeciati Ivetta e Bonfante Gaetano, due degli imputati, il Marzola e il Bonfante, richiedevano la definizione del processo con rito abbreviato: su tali richieste il pubblico ministero esprimeva un «dissenso non motivato».

Con ordinanza del 3 gennaio 1990 (n. 145 del 1990), il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Rieti, dopo aver separato gli atti relativi alla Impeciati, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, questione di legittimità degli artt. 438, 439, 440 e 442 del codice di procedura penale, nelle parti in cui: subordinano al consenso non motivato ed insindacabile del pubblico ministero l'adozione del giudizio abbreviato richiesto dall'imputato; non consentono al giudice di valutare le ragioni addotte dal pubblico ministero a giustificazione del «dissenso»; non attribuiscono al giudice, una volta ritenuto ingiustificato «il dissenso medesimo», il potere di applicare la riduzione di pena prevista dall'art. 442, secondo comma, dello stesso codice.

Il giudice a quo osserva, in punto di rilevanza, che, per un verso, il processo sarebbe definibile allo stato degli atti nell'udienza preliminare, «non essendo state richieste né risultando necessarie nuove acquisizioni probatorie ex art. 422 c.p.p.» e, per un altro verso, che la risoluzione della questione incide non soltanto sulla scelta del rito, ma anche «direttamente e sostanzialmente» sulla misura della pena ove venisse affermata la responsabilità degli imputati, «ai quali non potrà riconoscersi da questo giudice né dal giudice del dibattimento la riduzione di pena prevista dall'art. 442 c.p.p., anche quando la richiesta risultasse fondata all'esito dell'esame degli atti o dell'istruttoria dibattimentale»; e, in punto di manifesta infondatezza, che la normativa denunciata determina sotto diversi profili un'irragionevole disparità di trattamento (ed una conseguente violazione, oltre che dell'art. 3, anche dell'art. 25 della Costituzione): in primo luogo fra accusa e difesa; in secondo luogo fra più imputati, «in ipotesi nell'ambito di uno stesso procedimento o per gli stessi reati»; infine, rispetto alla disciplina dettata per il «patteggiamento», dove l'esercizio della funzione giurisdizionale, riservata al giudice, non è menomato, a differenza di quanto avviene per la disciplina dettata per il rito abbreviato, dalla scelta insindacabile del pubblico ministero.

 

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 14, prima serie speciale, del 4 aprile 1990.

2. - Nel corso dell'udienza preliminare a carico di Uldanh Massimiliano e La Forgia Roberto per violazioni alla legge sugli stupefacenti e sulle sostanze psicotrope, gli imputati formulavano tempestivamente richiesta di giudizio abbreviato, richiesta cui il pubblico ministero si opponeva «sul presupposto che fosse necessaria l'audizione degli agenti di P.G. che avevano proceduto all'arresto».

Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino, con ordinanza del 10 aprile 1990 (n. 421 del 1990), ha sollevato, su eccezione della difesa, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 25, primo e secondo comma, 101, secondo comma, e 111, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità degli artt. 438, 439, 440 e 442 del codice di procedura penale, «laddove principalmente non è dato al Giudice di sindacare il dissenso del P.M.».

Sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza, il giudice a quo rileva che da situazioni identiche, sia sotto l'aspetto sostanziale sia sotto l'aspetto processuale, possono derivare conseguenze diverse sul piano sanzionatorio (la riduzione di un terzo della pena) «a seconda che vi sia, o no, l'adesione facoltativa del P.M. alla adozione del rito abbreviato».

Quanto alla violazione del principio di legalità della pena, l'ordinanza osserva che la disciplina predisposta dagli artt. 438 e seguenti del codice di procedura penale, oltre a conferire al pubblico ministero un potere discrezionale in grado di vincolare il giudice nella commisurazione della sanzione, pone il singolo nell'impossibilità di conoscere previamente quale pena debba essergli irrogata. L'art. 25 sarebbe, poi, vulnerato pure nel primo comma, giacché il negato consenso al giudizio abbreviato sottrae l'imputato alla decisione del giudice dell'udienza preliminare, «sottoponendolo al giudizio di un Giudice collegiale diversamente competente».

Risulterebbero altresì violati: l'art. 101, secondo comma, della Costituzione, perché, incidendo il dissenso del pubblico ministero anche sulla determinazione della pena, si realizzerebbe «uno sconfinamento del P.M. in un'attività decisoria»; l'art. 24 della Costituzione, perché sarebbe preclusa ogni difesa dall'imputato; l'art. 111, primo comma, della Costituzione, perché la motivazione dell'ordinanza di rigetto della richiesta di abbreviazione del rito adottata dal giudice si esaurisce «in una presa d'atto del dissenso del P.M. (motivata o immotivata che sia)».

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 27, prima serie speciale, del 4 luglio 1990.

3. - Con ordinanza dell'8 maggio del 1990 (n. 531 del 1990), emessa nell'udienza preliminare a carico di Merlo Maria Elena, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Treviso ha sollevato, su eccezione della difesa dell'imputata, questione di legittimità, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 438, primo comma, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede l'obbligo di motivazione da parte del P.M. circa il dissenso da lui prestato alla richiesta di rito abbreviato» e, d'ufficio, questione di legittimità, in riferimento agli artt. 24 e 101 della Costituzione, dell'art. 438, primo comma, e 440, primo comma, dello stesso codice, nella parte in cui non vi si «prevede la possibilità di sindacato del Giudice sul rifiuto del P.M. al giudizio abbreviato».

Le censure prospettate dal giudice a quo si porrebbero come conseguenziali alla sentenza n. 66 del 1990, che, «quantomeno sotto il profilo della non manifesta infondatezza», avrebbe delineato un regime contrastante con l'art. 3 della Costituzione anche per il rito abbreviato avente sede, per il caso di specie, nell'udienza preliminare.

Sussisterebbe pure la sottrazione al giudice di ogni «sindacato circa la motivazione del rifiuto», con conseguente violazione degli artt. 24 e 101 della Costituzione.

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 36, prima serie speciale, del 12 settembre 1990.

4. - Con ordinanza emessa il 19 luglio 1990 (n. 592 del 1990), il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Brescia nell'udienza preliminare a carico di Scotuzzi Simone - premesso che l'imputato, a mezzo del suo procuratore speciale, aveva tempestivamente avanzato richiesta di giudizio abbreviato e che a tale richiesta si era opposto il pubblico ministero «senza motivare in alcun modo il diniego» - ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo e secondo comma, 25, primo e secondo comma, 101, secondo comma, e 111, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità degli artt. 438, 439, 440 e 442 del codice di procedura penale, «laddove principalmente non è dato al giudice di sindacare il dissenso del p.m.».

Sarebbe, in primo luogo, violato il «principio di legalità della pena» espresso dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione, condizionandosi la misura della pena stessa alla condotta del pubblico ministero e, quindi, di una parte (v. sentenza n. 249 del 1990) - senza predeterminazione dei criteri (v. sentenza n. 66 del 1990) e, perciò, con il rischio di arbitri - e conseguente impossibilità per il singolo di conoscere «l'entità della pena che potrà essergli inflitta».

Sussisterebbe, inoltre, contrasto con gli artt. 101, secondo comma, e 102, primo comma, della Costituzione, incidendo il dissenso del pubblico ministero dalla richiesta di giudizio abbreviato avanzata dall'imputato non soltanto sul rito, ma anche «sulla funzione giurisdizionale della dosimetria della pena».

Risulterebbe, poi, vulnerato il principio di eguaglianza per l'irragionevole disparità di trattamento tra accusa e difesa: infatti, «mentre le ragioni della parte privata sono sottoposte al vaglio del giudice, le ragioni della parte pubblica si impongono allo stesso giudice», nonostante il dissenso del pubblico ministero coinvolga non soltanto il rito, ma pure il merito.

Anche il «diritto di azione e difesa» resterebbe compromesso: e ciò in conseguenza della definitiva sottrazione della richiesta dell'imputato - qualificata dalla Corte (v. sentenza n. 277 del 1990) «vero e proprio diritto subiettivo a chiedere il giudizio abbreviato e ad ottenere la riduzione della pena» - alla valutazione del giudice.

Si deduce, infine, contrasto con l'art. 25, secondo comma, e, 111, secondo comma, della Costituzione.

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata pubblica nella Gazzetta Ufficiale n. 39, prima serie speciale, del 3 ottobre 1990.

5. - Albigiani Giuseppe formulava davanti al Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Termini Imerese richiesta di giudizio abbreviato, richiesta non condivisa dal Pubblico ministero per «insufficienza probatoria». Il detto giudice, rilevato che la motivazione «dedotta dal P.M., a fondamento della ritenuta non deducibilità allo stato degli atti, non pare condivisibile», con ordinanza del 19 luglio 1990 (n. 661 del 1990), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 101, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 438 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non consente al giudice di sindacare il diniego espresso dal P.M. in ordine alla richiesta di giudizio abbreviato formulata dall'imputato e nella parte in cui non consente allo stesso giudice di ammettere il rito quando ritenga ingiustificato il diniego espresso dal P.M.».

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 43, prima serie speciale, del 31 ottobre 1990.

6. - Guida Piero, imputato di omicidio colposo, formulava, all'apertura dell'udienza preliminare, richiesta di giudizio abbreviato, in ordine alla quale il Pubblico ministero negava il suo assenso, occorrendo «effettuare ulteriori accertamenti sul rapporto assicurativo, accertamenti che potevano riflettersi sulla responsabilità del Guida».

Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino, con ordinanza del 25 luglio 1990 (n. 603 del 1990), ha sollevato, su eccezione della difesa dell'imputato, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, secondo comma, e 101, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 438 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non è previsto, in caso di dissenso del P.M. alla procedura con rito abbreviato richiesta dall'imputato, un potere di sindacato dello stesso da parte del giudice».

Quanto alla rilevanza, il giudice a quo osserva che è all'udienza preliminare che si consuma il potere dell'imputato di formulare la richiesta «anche nella previsione che possa essere riconosciuta all'esito del giudizio (dibattimentale) la valutazione cui si ha riguardo, secondo il meccanismo dell'art. 448 C.p.p.»; quanto alla non manifesta infondatezza, richiama le sentenze costituzionali n. 66 del 1990 e n. 183 del 1990, deducendo che la norma censurata contrasterebbe con il principio di legalità della pena e con il principio di eguaglianza, lederebbe il «il diritto di azione e difesa», comporterebbe uno sconfinamento del pubblico ministero nell'attività decisoria riservata al giudice.

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 39, prima serie speciale, del 3 ottobre 1990.

7. - In tutti i suddetti giudizi - ad eccezione di quello instaurato dal Giudice per le indagini preliminari di Torino con ordinanza del 10 aprile 1990 (n. 421 del 1990) - è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque non fondata.

L'inammissibilità deriverebbe dal restare «inaffermata la natura e l'ampiezza del controllo "sostitutivo" che dovrebbe effettuare il giudice in caso di disaccordo sul rito», nonché, quel che più conta, dall'impossibilità di identificare una «soluzione costituzionalmente imposta per contemperare - con una sorta di "prognosi postuma" - l'interesse ad ottenere un beneficio sul piano sanzionatorio nella ipotesi di condanna, con l'essenziale diritto delle parti a sviluppare nel dibattimento la reciproca attività probatoria».

La non fondatezza deriverebbe dal rilievo che l'accordo tra pubblico ministero ed imputato, necessario presupposto del giudizio abbreviato, non può essere suscettibile di sindacato esterno.

8. - Con ordinanza del 17 aprile 1990 (n. 379 del 1990), il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale per i minorenni di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 27 e 101 della Costituzione, questione di legittimità degli artt. 438, primo comma, e 442 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevedono la motivazione del dissenso del P.M. e la possibilità per il giudice di sindacare tale dissenso applicando ugualmente la riduzione della pena se ritiene tale dissenso ingiustificato».

La violazione dell'art. 3 della Costituzione viene addebitata alla disparità di trattamento rispetto all'«analogo» istituto dell'applicazione della pena su richiesta, una disparità «ancora più evidente» per gli imputati minorenni, cui non è permesso accedere al procedimento «ex art. 444 e ss. c.p.p. che sotto il profilo in esame appare senza dubbio più favorevole», nonché, in combinato disposto con l'art. 24 della Costituzione, alla vulnerazione della «proclamata parità processuale tra accusa e difesa».

Quanto agli altri parametri invocati, il giudice a quo ravvisa un contrasto con gli artt. 25 e 101 della Costituzione per il vincolo imposto al giudice ad opera di una parte processuale, un vincolo che non incide solo sulla scelta del rito, ma anche sulla commisurazione della pena; ritiene, altresì, violati gli artt. 3 e 27 della Costituzione per lesione dei principi di legalità e di colpevolezza, in quanto, da un lato, la riduzione di un terzo della pena resta vincolata alla mera scelta dell'accusa, sottraendosi all'imputato la certezza delle conseguenze dei suoi comportamenti, mentre, dall'altro lato, è latente il pericolo dell'irrogazione di pene sproporzionate tra chi fruisca e chi non fruisca nella medesima situazione del consenso immotivato del pubblico ministero, in contrasto con «il canone di adeguatezza e proporzione».

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 25, prima serie speciale, del 20 giugno 1990.

Anche in questo giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata non fondata. Richiamate le sentenze n. 66 del 1990, n. 183 del 1990 e n. 313 del 1990, l'Avvocatura rileva come non possa ravvisarsi nelle peculiarità del rito minorile alcun ulteriore contrasto con l'art. 3 Cost. Il fatto che l'imputato minorenne non possa accedere all'istituto dell'applicazione della pena su richiesta - peraltro, compensato dalla previsione di analoghi vantaggi ex art. 32, secondo comma, del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 - si spiega in quanto «sono di norma carenti nel minorenne la maturità e la consapevolezza necessarie per effettuare la valutazione e la scelta che sono alla base del "patteggiamento" ».

 

Considerato in diritto

 

 

1. - Le ordinanze in epigrafe, anche se non sempre coincidenti nell'individuazione delle norme denunciate e dei parametri costituzionali invocati, mettono tutte in discussione la legittimità costituzionale della disciplina che il titolo I del libro VI del codice di procedura penale dedica al giudizio abbreviato ordinario, tutte muovendo dalla considerazione che il dissenso non motivato del pubblico ministero toglie al giudice ogni possibilità di valutare la richiesta avanzata dall'imputato sia prima sia nel corso dell'udienza preliminare.

I relativi giudizi vanno, quindi, riuniti per essere decisi con un 'unica sentenza.

2. - Ai fini di una migliore puntualizzazione, quanto a norme denunciate, delle questioni di volta in volta proposte, occorre precisare che ad essere oggetto di censura sono ora il combinato disposto degli artt. 438, 439, 440 e 442 del codice di procedura penale, ora il combinato disposto degli artt. 438, primo comma, e 440, primo comma, ora gli artt. 438 e 442 singolarmente considerati (con limitazione, in un caso, al primo comma dell'art. 438 e al secondo comma dell'art. 442), ora il solo art. 438, sempre in parti di mancate previsioni variamente individuate. Più in particolare, mentre quasi tutte le ordinanze (n. 145 del 1990, n. 379 del 1990, n. 421 del 1990, n. 531 del 1990, n. 592 del 1990) lamentano tanto che il pubblico ministero non sia tenuto a motivare il suo dissenso alla definizione del processo con il rito abbreviato, quanto che tale dissenso non sia passibile di controllo giurisdizionale, due di esse (n. 603 del 1990, n. 661 del 1990)-entrambe emanate nel corso di processi in cui, pur non obbligato dalla legge, il pubblico ministero aveva motivato il suo dissenso (un evento, peraltro, verificatosi anche nel corso del processo sfociato nell'ordinanza n. 421 del 1990)-si dolgono unicamente del fatto che il giudice non possa sindacarlo. Ulteriormente distinguendo, non si può non rilevare come, accanto ad un'ordinanza (n. S31 del 1990) che vorrebbe il controllo al termine del dibattimento, cosi da consentire al giudice di quest'ultimo, in caso di dissenso ritenuto ingiustificato, di applicare la riduzione di pena, ve ne siano tre (n. 421 del 1990, n. 592 del 1990, n. 661 del 1990), che, perseguendo la finalità di un controllo esteso anche alla possibilità di dare egualmente corso al giudizio abbreviato, rivendicano il controllo sul dissenso del pubblico ministero allo stesso giudice dell'udienza preliminare, mentre altre due ordinanze (n. 145 del 1990, n. 603 del 1990) chiedono l'affidamento del controllo allo stesso giudice dell'udienza preliminare e, in subordine, al giudice del dibattimento.

Poiché la disciplina oggetto di censura si impernia tutta sul dissenso immotivato del pubblico ministero, l'ordine logico dei quesiti variamente proposti viene a tradursi in una serie di momenti successivi, strettamente conseguenziali l'uno all'altro: se sia costituzionalmente legittimo che il pubblico ministero possa opporsi senza motivazione di sorta alla richiesta di giudizio abbreviato; se, nel caso di risposta in senso negativo, sia costituzionalmente legittimo che tale motivazione vada esente da ogni controllo giurisdizionale; infine, anche qui a seguito di una risposta negativa, a quale giudice debba essere demandato il controllo ed in quale ambito questo debba estrinsecarsi, con una duplice alternativa: o il giudice dell'udienza preliminare, nella quale evenienza resterebbe intatta la possibilità di far luogo al giudizio abbreviato, con conseguente automatica applicazione, ove venisse pronunciata condanna, della riduzione di pena, oppure il giudice del dibattimento, nella quale evenienza, preclusa l'instaurabilità del giudizio abbreviato, il controllo sul dissenso del pubblico ministero, collocandosi dopo la conclusione del dibattimento, darebbe luogo, ove venisse pronunciata condanna, alla sola riduzione di pena.

La complessità della situazione richiede di muovere dalla prospettazione più ampia, relativa al combinato disposto degli artt. 438, 439, 440 e 442 del codice di procedura penale.

3. - Quanto ai parametri costituzionali invocati, uno solo e riscontrabile in tutte le ordinanze, grazie al concorde riferimento all'art. 3 della Costituzione, di volta in volta affiancato agli artt. 24, primo e secondo comma, 25, primo e secondo comma, 27, 101, secondo comma, 102, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione. Diversi sono, però, i profili sotto cui il parametro comune risulta invocato: si lamenta, infatti, un'irragionevole disparita di trattamento, da un lato, fra accusa e difesa e, dall'altro, fra più imputati dello stesso reato coinvolti in ipotesi nell'ambito di uno stesso processo, nonché la diversità di disciplina rispetto all'altro rito speciale rappresentato dall'applicazione della pena su richiesta. Quest'ultimo profilo, presente fin dalla prima delle ordinanze in epigrafe (n. 145 del 1990; v. anche n. 379 del 1990), pur anteriore alla sentenza n. 66 del 1990 di questa Corte, si ritrova con espresso rinvio a tale sentenza in due ordinanze successive (n. 531 del 1990 e n. 661 del 1990, ove si parla di «analoga questione»).

4. - La questione prospettata nell'ottica dei rapporti con il rito dell'applicazione della pena su richiesta-argomento che in un caso (ordinanza n. 379 del 1990, relativa al processo minorile) neppure si appalesa praticabile, data l'inoperatività di tale rito speciale nel processo a carico di imputati minorenni - non è fondata.

A scanso di equivoci, va subito detto che l'autonomia della disciplina del giudizio abbreviato, quale configurata dall'art. 247 del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271), rispetto alla disciplina del giudizio abbreviato ordinario dettata dal codice di procedura penale, impedisce di considerare la presente questione "analoga" a quella oggetto della sentenza n. 66 del 1990. E lo stesso si dica per i suoi rapporti con la questione oggetto della sentenza n. 183 del 1990, in ordine alla richiesta di trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato.

Le differenze che intercorrono fra la disciplina ordinaria, da un lato, e la disciplina transitoria, dall'altro, come pure le differenze che intercorrono fra la disciplina ordinaria, da un lato, e la disciplina prevista per il passaggio dal rito direttissimo al rito abbreviato, dall'altro, sono di portata fondamentale, trovando il giudizio abbreviato ordinario collocazione all'interno dell'udienza preliminare, davanti al giudice preposto ad essa, mentre tanto il giudizio abbreviato previsto dalle norme transitorie quanto il giudizio abbreviato per conversione del giudizio direttissimo trovano posto nella fase predibattimentale, davanti al giudice del dibattimento. Cosicché, non potendosi qui dire che "il rito viene sostanzialmente a corrispondere per quel che concerne giudice, momento e sede della decisione finale", risulta del tutto inadeguato il richiamo alla statuizione contenuta nella sentenza n. 66 del 1990 (e ribadita nella sentenza n. 183 del 1990), in base alla quale "non si giustifica che il pubblico ministero, di fronte ad una richiesta di giudizio abbreviato, possa sacrificare, oltre al rito, anche l'effetto sulla pena, senza neppure dover enunciare le ragioni del proprio dissenso, a differenza di quanto avviene di fronte ad una richiesta di applicazione della pena, dove un rito sostanzialmente corrispondente può essere sacrificato dal pubblico ministero solo enunciando le ragioni del dissenso e l'effetto sulla pena può essere sacrificato solo con un dissenso non ritenuto ingiustificato dal giudice".

In particolare, le notevoli analogie riscontrabili fra giudizio abbreviato ed applicazione della pena su richiesta, quali configurati sia dalle norme transitorie sia dalle norme del codice relative alla trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato, si stemperano così fortemente nella configurazione dei rispettivi regimi ordinari da passare in seconda linea di fronte alle rilevanti differenze che reciprocamente ne caratterizzano la fisionomia.

5. - È, invece, fondata la questione proposta in riferimento all'art. 3 della Costituzione sotto il profilo dell'irrazionale disparità cui la normativa impugnata, vista all'interno della sua applicazione, darebbe luogo tanto nei rapporti fra pubblico ministero ed imputato, quanto nei rapporti fra imputato ed imputato.

Non risponde, infatti, alle esigenze di coerenza e ragionevolezza una disciplina che autorizza il pubblico ministero ad opporsi non soltanto a una "determinata scelta del rito processuale", la qual cosa sarebbe pienamente "in armonia con le normali prerogative del pubblico ministero" (v. sentenza n. 120 del 1984), ma anche a una consistente riduzione della pena da infliggere all'imputato in caso di condanna, senza neppure dover esternare le ragioni di tale opposizione, così sottraendola all'"obiettiva ed imparziale valutazione" del giudice (v., ancora, sentenza n. 120 del 1984). Per giunta, in un sistema, come quello del nuovo codice, imperniato sul principio di "partecipazione dell'accusa e della difesa su basi di parità in ogni stato e grado del procedimento" (v. art. 2, n. 3, della legge 16 febbraio 1987, n. 81), non dovrebbe essere consentito che i rapporti fra pubblico ministero ed imputato si sbilancino al punto che il primo, con un semplice atto di volontà immotivato e, perciò, incontrollabile, si trovi in grado di privare il secondo di un rilevante vantaggio sostanziale. Con la possibilità di un ulteriore squilibrio nel trattamento fra due imputati destinatari di un'identica imputazione e portatori di un'analoga capacità a delinquere, qualora il pubblico ministero adotti un atteggiamento consenziente nei confronti dell'uno e dissenziente nei confronti dell'altro, senza nemmeno dover esternarne le ragioni e vederle sottoposte ad un qualsiasi controllo giurisdizionale.

6. - Quanto ai parametri cui la motivazione del pubblico ministero dovrebbe rapportarsi nel manifestare la sua opposizione, la Corte ha già avuto modo di prendere in esame (v. sentenza n. 66 del 1990, nonché sentenza n. 183 del 1990) quel passo della Relazione al progetto preliminare dove si sostiene che tali parametri non sarebbero "né tipizzati né tipizzabili dalla legge". Ma - pur riconoscendo che, data la collocazione del rito abbreviato ordinario "nell'udienza preliminare", fase "destinata in via primaria al controllo della richiesta di rinvio a giudizio", si "renderebbe difficilmente ipotizzabile l'esternazione delle ragioni del dissenso del pubblico ministero o, più precisamente, della mancata prestazione del suo consenso alla richiesta di giudizio abbreviato formulata dall'imputato" - la Corte non ha mancato di rilevare come "le argomentazioni della Relazione in tanto sono condivisibili in quanto il pubblico ministero, non tenuto a motivare, possa liberamente determinarsi a dissentire". Ne consegue che, una volta ritenuta illegittima la mancata previsione per il pubblico ministero del dovere di motivare il proprio eventuale dissenso dalla richiesta di giudizio abbreviato ordinario, il problema dei parametri implica la soluzione di altri due problemi, concernenti l'uno la sede ove il controllo su tale motivazione deve esplicarsi e l'altro il giudice al quale affidare tale controllo.

Poiché, con il negare il proprio consenso all'adozione del rito abbreviato, il pubblico ministero esprime la volontà che il processo sia definito in quella fase cruciale del sistema accusatorio che è il dibattimento, il controllo sulla motivazione del diniego non può trovar posto all'interno dell'udienza preliminare e, quindi, non può venir affidato al giudice preposto ad essa, perché ciò significherebbe adottare un rito speciale contro le determinazioni del pubblico ministero. Solo al termine del dibattimento il giudice di quest'ultimo sarà in grado di verificare se il dissenso del pubblico ministero sia da ritenere giustificato e - qualora la verifica si risolva negativamente - di riconoscere all'imputato la riduzione della pena prevista dall'art. 442, secondo comma.

Una volta escluso che il giudizio abbreviato sia instaurabile senza il consenso del pubblico ministero ed individuata la funzione della motivazione del suo eventuale dissenso e del susseguente controllo di essa nel dare al giudice del dibattimento la possibilità di far luogo alla riduzione della pena allorquando il dissenso del pubblico ministero gli risulti ingiustificato, l'unico criterio idoneo a rendere concreto l'esercizio della suddetta funzione deve considerarsi, al momento, quello imperniato sull'effettiva utilità del passaggio al dibattimento: criterio che, alla stregua della normativa in vigore, non può che identificarsi in quello - ricavabile dal confronto con i poteri conferiti al giudice dall'art. 440, primo comma - consistente nel ritenere il processo non definibile allo stato degli atti. Vedrà il legislatore, se del caso utilizzando lo strumento predisposto dall'art. 7 della legge delega, se siano enucleabili criteri ulteriori.

7. - La questione proposta nei confronti del combinato disposto degli artt. 438, 439, 440 e 442 del codice di procedura penale va, quindi, accolta, tanto nella parte in cui non vi si prevede che il pubblico ministero, in caso di dissenso dalla richiesta di giudizio abbreviato avanzata dall'imputato, sia tenuto ad enunciarne le ragioni, quanto nella parte in cui non vi si prevede che il giudice, qualora, a dibattimento concluso, ritenga ingiustificato il dissenso del pubblico ministero, possa applicare all'imputato la riduzione di pena contemplata dall'art. 442, secondo comma, dello stesso codice, restando con ciò assorbita ogni altra censura proposta in riferimento agli ulteriori parametri costituzionali dai giudici a quibus.

8. - Alla stregua dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la declaratoria di illegittimità costituzionale va estesa, in termini analoghi, sia all'art. 458, primo e secondo comma, con riguardo alla richiesta di trasformazione del giudizio immediato in giudizio abbreviato, sia all'art. 464, primo comma, con riguardo alla richiesta di giudizio abbreviato da parte dell'opponente a decreto penale.

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

A) dichiara l'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 438, 439, 440 e 442 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il pubblico ministero, in caso di dissenso, sia tenuto ad enunciarne le ragioni e nella parte in cui non prevede che il giudice, quando, a dibattimento concluso, ritiene ingiustificato il dissenso del pubblico ministero, possa applicare all'imputato la riduzione di pena contemplata dall'art. 442, secondo comma, dello stesso codice;

B) in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87:

a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 458, primo e secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il pubblico ministero, in caso di dissenso, sia tenuto ad enunciarne le ragioni e nella parte in cui non prevede che il giudice, quando, a dibattimento concluso, ritiene ingiustificato il dissenso del pubblico ministero, possa applicare all'imputato la riduzione di pena contemplata dall'art. 442, secondo comma, dello stesso codice;

b) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 464, primo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il pubblico ministero, in caso di dissenso, sia tenuto ad enunciarne le ragioni e nella parte in cui non prevede che il giudice, quando, a dibattimento concluso, ritiene ingiustificato il dissenso del pubblico ministero, possa applicare all'imputato la riduzione di pena contemplata dall'art. 442, secondo comma, dello stesso codice.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 gennaio 1991.

 

Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA.

 

Depositata in cancelleria il 15 febbraio 1991.