Sentenza n. 45 del 1991

 

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SENTENZA N.45

ANNO 1991

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Giovanni CONSO                                              Presidente

Prof. Ettore GALLO                                                   Giudice

Dott. Aldo CORASANITI                                             “

Prof. Giuseppe BORZELLINO                                      “

Dott. Francesco GRECO                                                “

Prof. Gabriele PESCATORE                                          “

Avv. Ugo SPAGNOLI                                                   “

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA                              “

Prof. Antonio BALDASSARRE                                    “

Prof. Vincenzo CAIANIELLO                                      “

Avv. Mauro FERRI                                                        “

Prof. Luigi MENGONI                                                   “

Prof. Enzo CHELI                                                          “

Dott. Renato GRANATA                                               “

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 309, comma 8°, e 127, comma 3°, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 15 giugno 1990 dal Tribunale di Torino sulla richiesta di riesame proposta da Vizzini Calogero, iscritta al n. 547 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell'anno 1990;

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 9 gennaio 1991 il Giudice relatore Ettore Gallo;

 

Ritenuto in fatto

 

Con ordinanza 15 giugno 1990 il Tribunale di Torino - Sezione sesta penale - in sede di riesame di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere, disposta dal G.I.P. presso il Tribunale di Ivrea, sollevava questione di legittimità costituzionale degli artt. 309, comma 8°, e 127, comma 3°, cod. proc. pen., nella parte in cui prevedono che l'imputato, se detenuto in luogo fuori della circoscrizione del giudice del riesame, deve essere sentito, qualora ne faccia richiesta, dal magistrato di sorveglianza del luogo, anziché dal tribunale del riesame.

Secondo l'ordinanza, la detta disposizione si pone in contrasto con il diritto di autodifesa garantito dall'art. 24, comma 2°, della Costituzione, in quanto l'imputato ha il diritto di contestare davanti al Collegio giudicante gli elementi di prova portati dal pubblico ministero; particolarmente, poi, quando, come nella specie, questi sono stati raccolti dal pubblico ministero dopo che l'imputato è stato sottoposto a custodia cautelare, e perciò da lui ignorati. L'ordinanza fa anche riferimento alla sentenza di questa Corte n. 5 del 1970 che, in tema di incidenti di esecuzione e sotto l'impero del codice abrogato, aveva dichiarato infondata analoga questione. Rileva, però, l'ordinanza che la sentenza stessa aveva tenuto ben distinta la situazione della persona già condannata che compare in sede di incidente di esecuzione da quella dell'imputato, che compare per un fine ben diverso e in una sede dove si acquisiscono elementi probatori.

È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura Generale dello Stato, che ha chiesto declaratoria d'infondatezza della questione. Per sostenerla, l'Avvocatura si richiama alla relazione ministeriale al codice di procedura penale, là dove dice che l'art. 127, comma 3°, "assicura all'interessato la possibilità di far sentire comunque le sue ragioni al giudice: e a quest'ultimo è, comunque, rimessa la valutazione dell'opportunità di una presenza fisica nei casi in cui la stessa appaia utile ai fini della decisione".

Aggiunge l'Avvocatura che, in ogni caso, nessuna norma vieta di far pervenire al giudice di sorveglianza, delegato a sentire l'imputato, tutti gli atti necessari a porlo in condizione di difendersi, ivi comprese le risultanze acquisite dal pubblico ministero in tempo successivo a quello in cui l'imputato è stato posto in custodia cautelare;

 

Considerato in diritto

 

1. - Il Tribunale di Torino dubita che il combinato disposto degli artt. 309, comma 8°, e 127, comma 3°, cod. proc. pen. sia compatibile con l'art. 24, comma 2°, della Costituzione, nella parte in cui prescrive che, in sede di riesame del provvedimento che ha disposto la custodia cautelare in carcere, se l'imputato chiede di essere sentito e sia in custodia fuori della circoscrizione del tribunale del riesame, deve essere sentito dal giudice di sorveglianza del luogo dove ha sede lo stabilimento.

L'Avvocatura Generale dello Stato oppone l'infondatezza della questione perché il giudice del riesame avrebbe sempre la facoltà, se lo ritiene necessario o utile, di provocare la presenza fisica dell'imputato.

Ad ogni modo, al rilievo del Tribunale, secondo cui nella specie l'imputato ha il diritto di contestare le risultanze probatorie acquisite dal pubblico ministero dopo l'esecuzione della custodia cautelare, risponde l'Avvocatura che nulla impedisce che quelle ulteriori risultanze siano pure trasmesse al giudice di sorveglianza affinché le contesti all'imputato e ne raccolga le difese.

2. - Stando alla giurisprudenza di questa Corte in ordine ai giudizi camerali a contraddittorio necessario, si nota che la presenza personale dell'imputato, che ne abbia avanzato richiesta, è ritenuta indispensabile allorquando il fine, per cui la personale comparizione è prevista, sia volto all'acquisizione di elementi probatori. La sentenza n. 5 del 1970, citata dall'ordinanza di rimessione, che pur conclude per l'infondatezza della sollevata questione, si riferisce in realtà ad un giudizio camerale concernente un incidente di esecuzione "ristretto - afferma la sentenza - a questioni ordinariamente di solo diritto, ben circoscritte e determinate", sicché ivi "non può scorgersi nessuna compressione di quel diritto (di difesa) in una comparizione che avviene per il tramite di altro giudice". E ciò perché -precisa la sentenza- "in questo tipo di procedimento, alla parte privata condannata la comparizione di persona è consentita per un fine diverso da quello per cui l'imputato è convocato avanti al giudice dell'istruzione o del giudizio". Si comprende allora perché quella sentenza, dato il contenuto del procedimento, abbia giudicato "prevalenti in senso ostativo le difficoltà pratiche che un trasporto in stato di detenzione presenta di fronte alla irrilevanza che il beneficio di essere ascoltato di persona dal giudice competente a decidere rappresenta per il detenuto". Ed è sotto tale prospettiva che - come ricorda il giudice a quo - il legislatore ebbe a rinunziare alla modifica dell'art. 127 cod. proc. pen. proposta della Commissione parlamentare.

Ma la Corte Costituzionale, con sentenza n. 98 del 1982, ha ben precisato quale sia il fine cui faceva cenno la sentenza n. 5 del 1970, e lo ha ravvisato nell'"accertamento inerente a questioni di fatto, che solo potrebbe richiedere l'intervento personale dell'interessato, imputato o condannato". Finalità che la sentenza n. 98 del 1982 valorizza fino al punto da avvertire che, anche nel caso di incidenti di esecuzione, quando ricorrono ipotesi nelle quali sono prese in esame questioni di fatto concernenti la condotta dell'interessato, "si impone la diretta audizione del medesimo affinché il giudice stesso possa formarsi il convincimento nel modo più diretto e completo".

3. - Questo essendo lo stato della giurisprudenza, deve ricordarsi come nella specie sia fuori dubbio che la questione sorge nella fase di cognizione e che, ai fini della decisione, il giudice chiamato al riesame del provvedimento applicativo della misura cautelare deve valutare questioni di fatto concernenti la condotta dell'interessato. Questioni per di più emerse, a seguito di ulteriori indagini compiute dal pubblico ministero, dopo l'esecuzione della custodia in carcere. È evidente, perciò, l'interesse dell'imputato a comparire personalmente per contrastare - se lo voglia - le risultanze probatorie e indicare eventualmente altre circostanze a lui favorevoli: così come è evidente l'importanza che il contraddittorio abbia a svolgersi innanzi al giudice che dovrà poi assumere la decisione.

Non sembra, però, che l'art. 309 cod. proc. pen. vieti la comparizione personale dell'imputato se questi ne abbia fatto richiesta oppure se il giudice competente lo ritenga ex officio opportuno.

Che di regola il legislatore, per ragioni di sicurezza e di economia processuale, abbia previsto la delega rogatoria al giudice di sorveglianza quando l'imputato sia detenuto in luogo esterno al circondario, non esclude che, ove l'imputato ne abbia fatto espressa richiesta, o il giudice di cognizione lo ritenga necessario, possa ordinarne la traduzione innanzi a sé. Il diritto-dovere del giudice di cognizione di sentire personalmente l'imputato, e il diritto di quest'ultimo di essere ascoltato dal giudice che dovrà giudicarlo, rientrano nei principi generali d'immediatezza e di oralità cui s'ispira l'attuale sistema processuale: e lo conferma, del resto, la giurisprudenza costituzionale che si è ricordata.

Sembra, pertanto, che il giudice a quo ben possa pervenire in via interpretativa al risultato auspicato, specie di fronte alla sentenza n. 98 del 1982

 di questa Corte. Una possibilità che è confortata dal disposto di cui al comma 6° dell'art. 309 cod. proc. pen., nel cui secondo periodo è detto che "chi ha proposto la richiesta ha, inoltre, facoltà di enunciare nuovi motivi davanti al giudice del riesame, facendone dare atto a verbale prima dell'inizio della discussione". Naturalmente si potrebbe essere tratti a pensare che la legge si riferisca alle attività che l'imputato esercita tramite il suo difensore, ma non è così. Basta uno sguardo ai commi primo e terzo dell'articolo in parola per rendersi conto che tanto l'imputato quanto il difensore sono autonomamente titolari del diritto di richiedere il riesame sicché, quando la richiesta è stata proposta personalmente dall'imputato, egli stesso, oltre che tramite il difensore, ha il diritto di esplicare quelle attività. Né è pensabile che esse possano essere svolte davanti al giudice di sorveglianza delegato, dato che la norma fa esplicito riferimento al "giudice del riesame" e allude poi al momento temporale "prima dell'inizio della discussione": espressione ben diversa da quella "prima del giorno dell'udienza", di cui al terzo comma dell'art. 127 cod. proc. pen., restando escluso che possa trattarsi dell'esame da parte del giudice di sorveglianza. La norma, perciò, rispecchia evidentemente le attività della Camera di consiglio del Tribunale, dove si svolge appunto la discussione.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 309, comma 8°, e 127, comma 3°, codice procedura penale, sollevata dal Tribunale di Torino in riferimento all'art. 24, comma 2°, della Costituzione, con ordinanza 15 giugno 1990.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 gennaio 1991.

 

Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA.

 

Depositata in cancelleria il 31 gennaio 1991.