Sentenza n. 593 del 1990

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SENTENZA N.593

ANNO 1990

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Giovanni CONSO, Presidente

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 560, primo comma, e 517 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 18 giugno 1990 dal Pretore di Massa - sezione distaccata di Pontremoli nel procedimento penale a carico di Hadovic Safet, iscritta al n. 520 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell'anno 1990.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 28 novembre 1990 il Giudice relatore Ugo Spagnoli.

Ritenuto in fatto

1.- Nel corso di un procedimento penale in fase dibattimentale nel quale, dopo che il P.M. aveva contestato all'imputato la recidiva specifica infraquinquennale, il difensore di questi aveva formulato richiesta di giudizio abbreviato, ottenendo al riguardo il consenso del P.M., il Pretore di Massa - sez. distaccata di Pontremoli - ritenuto che il processo fosse definibile allo stato degli atti, ma che l'istanza non fosse accoglibile in quanto avanzata oltre il termine perentorio di quindici giorni decorrente dalla notifica del decreto di cui all'art. 555 cod. proc. pen. ha sollevato, in riferimento all'art. 24 Cost., una questione di legittimità costituzionale degli artt. 560, primo comma, cod. proc. pen. e 517 cod. proc. pen., "nella parte in cui non consentono, in caso di contestazione suppletiva, di rimettere in termini le parti per la richiesta dell'adozione di un rito abbreviato o comunque di un rito speciale".

Rilevato che la contestazione suppletiva, elevabile in qualsiasi momento del dibattimento (art. 517 cod. proc. pen.), può determinare l'interesse dell'imputato alla scelta di un rito speciale, il giudice rimettente assume che la preclusione esistente al riguardo violerebbe il diritto di difesa, che a suo avviso include la garanzia della lealtà e correttezza nell'esercizio dell'azione penale. Sotto questo profilo, non dovrebbe consentirsi al P.M. di integrare o modificare l'accusa dopo che l'imputato non é più in grado di determinare le sue scelte difensive. Nè potrebbe farsi carico a costui di "prevedere una tale "strategia accusatoria" del P.M., preoccupandosi di "patteggiare" sul rito o sulla pena quando ciò era ancora nelle sue facoltà".

In tal modo si aderirebbe, invero, ad una "logica intrinsecamente inquisitoria", per la quale "chi é imputato di un reato deve, per evitare i rischi delle nuove contestazioni e per usufruire del beneficio dei riti speciali, confessare l'esistenza di tutte le circostanze aggravanti e di tutti i reati concorrenti".

2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri intervenuto tramite l'Avvocatura dello Stato, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata. Gli "interessi" delle parti in ordine alla scelta dei riti alternativi - osserva l'Avvocatura - sono un fenomeno normativamente indifferente e non hanno relazione alcuna coi diritto di difesa che é garantito sia in tali riti, sia, a fortiori, nel rito ordinario. Il legislatore é quindi libero di stabilire specifici momenti che precludono alle parti ulteriori opzioni sul rito da adottare, nel quadro di una necessaria regolamentazione delle singole cadenze processuali.

Considerato in diritto

1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Pretore di Massa - sez. distaccata di Pontremoli - dubita della legittimità costituzionale degli artt. 560, primo comma, e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non consentono, in caso di contestazione suppletiva, di rimettere in termini le parti per la richiesta dell'adozione di un rito abbreviato o comunque di un rito speciale. A suo avviso, tali norme violerebbero il diritto di difesa (art. 24 Cost.), in quanto ne risulterebbe leso il sopravvenuto interesse dell'imputato e, per altro verso, il potere del P.M. di elevare nuove contestazioni quando la scelta di tali riti è ormai preclusa lederebbe la garanzia di lealtà e correttezza dell'esercizio dell'azione penale.

2. - La questione non è fondata.

La fissazione del termine di quindici giorni dalla notifica del decreto di citazione a giudizio come ultima data entro la quale l'imputato può, nel procedimento pretorile, chiedere il giudizio abbreviato, è, invero, del tutto coerente ed inscindibilmente connessa alla logica che presiede all'introduzione di questo istituto nel nuovo sistema processuale. Come questa Corte ha già avuto modo di osservare (cfr. sent. n. 277 e ordinanze nn. 361 e 477 del 1990), l'interesse dell'imputato a beneficiare dei vantaggi che discendono dall'instaurazione di tale rito speciale - e tra questi, oltre alla riduzione della pena di un terzo (art. 442, secondo comma), anche la preclusione per il pubblico ministero ad effettuare contestazioni nuove o suppletive (art. 441, primo comma) - in tanto rileva, in quanto egli rinunzi al dibattimento, accettando di essere giudicato sostanzialmente sulla base degli elementi raccolti dall'organo dell'accusa - senza partecipare alla formazione della prova in contraddittorio - e di subire limiti alla proponibilità dell'appello (cfr. l'art. 561 e le disposizioni ivi richiamate).

L'interesse dell'imputato trova cioé tutela solo in quanto la sua condotta consenta l'effettiva adozione di una sequenza procedimentale, che, evitando il dibattimento e contraendo le possibilità di appello, permette di raggiungere quell'obiettivo di rapida definizione del processo che il legislatore ha inteso perseguire con l'introduzione del giudizio abbreviato e più in generale dei riti speciali.

Perciò, quando ormai per l'inerzia dell'imputato tale scopo non può più essere pienamente raggiunto - in quanto si è già pervenuti al dibattimento - sarebbe del tutto irrazionale consentire che, ciononostante, a quel giudizio si addivenga in base alle contingenti valutazioni dell'imputato sull'andamento del processo.

In ciò non può ravvisarsi alcuna violazione del diritto di difesa, dato che questo nel dibattimento ordinario è pienamente garantito e non incontra, anzi, i limiti che sono propri del giudizio abbreviato. Nè la possibilità del P.M. di effettuare in tale fase contestazioni nuove o suppletive può dirsi violatrice del principio di lealtà e correttezza nell'esercizio dell'azione penale, dato che tale possibilità è, al contrario, pienamente coerente al ruolo che nel nuovo processo è assegnato, rispettivamente, alle indagini preliminari ed al dibattimento: le une, inidonee a formare la prova in senso proprio; l'altro, sede principale dell'accertamento e non strumento di verifica di verità storiche già compiutamente acclarate.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 560, primo comma e 517 del codice di procedura penale, sollevata in riferimento all'art. 24 Cost. dal Pretore di Massa - sezione distaccata di Pontremoli - con ordinanza del 18 giugno 1990.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12/12/90.

Giovanni CONSO, PRESIDENTE

Ugo SPAGNOLI, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 28/12/90.