Sentenza n. 447 del 1990

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SENTENZA N.447

 

ANNO 1990

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

 

Dott. Francesco SAJA, Presidente

 

Prof. Giovanni CONSO

 

Prof. Ettore GALLO

 

Dott. Aldo CORASANITI

 

Prof. Giuseppe BORZELLINO

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Renato DELL'ANDRO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 460, secondo comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 13 febbraio 1990 dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Camerino nel procedimento penale a carico di Goldshtein Abraham Leon, iscritta al n. 222 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell'anno 1990.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 26 giugno 1990 il Giudice relatore Mauro Ferri.

 

Ritenuto in fatto

 

1.- Con ordinanza dei 13 febbraio 1990, il giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Camerino ha sollevato, nel corso dei procedimento penale a carico di Goldshtein Abraham Leon (imputato del reato di cui all'art. 116 del regio decreto 21 dicembre 1933, n. 1736), questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 101, secondo comma, e 111, primo comma, della Costituzione, dell'art. 460, secondo comma, del codice di procedura penale del 1988 "nella parte in cui preclude al giudice l'applicazione della pena in una misura diversa da quella richiesta dal pubblico ministero".

 

Il giudice a quo, premesso che il pubblico ministero ha esercitato l'azione penale richiedendo in data 30 gennaio 1990 l'emissione di decreto di condanna indicando la pena da infliggere nella misura di L. 150.000 di multa, e che non ricorre a favore dell'imputato alcuna delle cause di non punibilità previste dall'art. 129 del codice di procedura penale, osserva che la pena da irrogare nella fattispecie dovrebbe essere di misura superiore a quella indicata dal pubblico ministero, in base ai criteri predeterminati dagli artt. 132 e 133 del codice penale, ma che ciò gli é inibito dalla norma censurata, secondo la quale "con il decreto di condanna il giudice applica la pena nella misura richiesta dal pubblico ministero".

 

Il tenore della norma é talmente univoco, prosegue il giudice remittente, da escludere qualsiasi altra interpretazione che non sia quella che il giudice non può applicare una misura della pena diversa da quella richiesta dal pubblico ministero: in particolare, il contrasto tra determinazione del pubblico ministero e valutazione dei giudice non può essere ovviato mediante una declaratoria di non accoglimento della richiesta ai sensi dell'art. 459, terzo comma, del codice di procedura penale, in quanto questo istituto sembra essere funzionale soltanto ad un controllo di rito sull'ammissibilità del procedimento speciale e non già ad un controllo sul merito della richiesta, diverso da quello risolventesi in una sentenza di proscioglimento ai sensi del citato art. 129 del codice di procedura penale.

 

Peraltro, ammesso in ipotesi il contrario, l'unica corretta alternativa finale per il pubblico ministero sarebbe l'emissione del decreto di citazione a giudizio, evenienza chiaramente frustrante le esigenze di economia e speditezza poste a fondamento del procedimento per decreto.

 

Ciò posto, prosegue il giudice a quo, risulta innanzitutto violato il secondo comma dell'art. 101 della Costituzione: tale precetto esige che la scelta della misura della pena sia un atto di autonomia del giudice, da esercitarsi nell'ambito e con l'osservanza dei criteri generali ed astratti precostituiti dal legislatore, il quale, tuttavia, non può limitare la funzione giurisdizionale fino al punto di ridurla ad una mera riproduzione protocollare di una valutazione altrui.

 

In secondo luogo, la norma in esame contrasta anche con l'art. 111, primo comma, della Costituzione, in quanto l'obbligo della motivazione ivi previsto non può essere correttamente adempiuto dal giudice, riducendosi la motivazione stessa, in caso di dissenso, ad una pura finzione, espressione non già di autonomia bensì di soggezione alla richiesta della parte pubblica.

 

Nel procedimento per decreto, osserva ancora il giudice remittente, il giudice é vincolato ad una richiesta unilaterale, a differenza di quanto avviene nell'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti, ove inoltre, pure in presenza di un consenso esplicito, l'emanazione del provvedimento é subordinata ad un controllo di correttezza sull'applicazione e sulla comparazione delle circostanze prospettate dalle parti, cioé sulla misura della pena pattiziamente stabilita.

 

Nè potrebbe ritenersi, infine, che nel procedimento de quo il consenso dell'imputato abbia rilevanza processuale come eventuale e posticipato. Tale tesi é infondata, in quanto l'opposizione può essere configurata soltanto come atto di dissenso sulla scelta dei rito effettuata dal pubblico ministero (come si desumerebbe dall'art. 461, terzo comma, del codice di procedura penale); inoltre, in concreto l'opposizione può fondarsi su motivi diversi da quelli attinenti alla misura della pena e perfettamente compatibili con l'accettazione della stessa, ma, ciò nonostante, il giudice dei dibattimento deve revocare il decreto di condanna e può applicare una pena anche diversa e più grave di quella fissata nel decreto stesso (art. 464, terzo e quarto comma).

 

2.- É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l'infondatezza della questione.

 

L'Avvocatura dello Stato sostiene che il giudice remittente erroneamente ritiene che il giudice per le indagini preliminari non possa rigettare la richiesta di decreto di condanna quanto ritenga non adeguata la pena indicata dal pubblico ministero. Dal combinato disposto degli artt. 459 e 460 del codice di procedura penale si desume, invece, il contrario, cioé che il giudice esercita sulla richiesta la consueta delibazione in fatto e in diritto, senza alcuna limitazione.

 

L'unica particolarità in ordine ai poteri del giudice é quella che egli é vincolato all'alternativa "rigetto-accoglimento in integro" del decreto, ma ciò non viola l'art. 111 della Costituzione, in quanto non comporta affatto, prosegue l'Avvocatura, che la funzione giurisdizionale sia svuotata della sua tipica fisionomia: accogliendo la richiesta del pubblico ministero, infatti, il giudice viene implicitamente a riconoscerne la giustezza in tutti i suoi aspetti, formali e sostanziali. Ciò é confermato dal fatto che il decreto penale di condanna é un atto del giudice, che deve contenere, tra l'altro, la "concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui é fondata la decisione, comprese le ragioni dell'eventuale diminuzione della pena al di sotto del minimo edittale" (art. 460, primo comma, lett. c).

 

Considerato in diritto

 

1.-Il giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Camerino solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 460, secondo comma, del codice di procedura penale del 1988 (comma applicabile nel procedimento pretorile in base al generale rinvio operato dall'art. 565 dello stesso codice), nella parte in cui dispone che il giudice, nell'emettere il decreto penale di condanna, < applica la pena nella misura richiesta dal pubblico ministero>. Ad avviso del remittente la norma preclude al giudice, che sia in disaccordo sulla misura della pena indicata dal pubblico ministero nella richiesta di emissione del decreto, di applicare la pena in misura diversa; nè il giudice potrebbe ovviare a tale situazione non accogliendo la richiesta e restituendo gli atti al pubblico ministero, ai sensi dell'art . 459, terzo comma, del codice, in quanto tale possibilità sarebbe prevista per motivi attinenti unicamente al rito e non anche al merito della richiesta stessa. Ciò posto, la norma impugnata violerebbe il principio della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, della Costituzione), il quale esige che la scelta della misura della pena sia un atto di autonomia del giudice e che la funzione giurisdizionale non sia ridotta a mera riproduzione di valutazioni altrui; nonchè il principio dell'obbligo della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali (art. 111, primo comma, della Costituzione), in quanto la motivazione in ordine all'entità della pena si riduce, in caso di dissenso, a pura finzione.

 

2. - La questione non è fondata.

 

La tesi del giudice remittente si basa su una lettura errata dell'art. 459, terzo comma, del codice di procedura penale. Nè dal suo tenore letterale (Il giudice, quando non accoglie la richiesta, se non deve pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell'art. 129, restituisce gli atti al pubblico ministero), nè da altre disposizioni relative al procedimento per decreto, è dato trarre argomenti che possano giustificare la lettura restrittiva fornita dal giudice a quo, secondo cui solamente motivi attinenti all'ammissibilità del rito potrebbero legittimare il mancato accoglimento della richiesta e la conseguente restituzione degli atti al pubblico ministero. Al contrario, come esattamente osserva l'Avvocatura generale dello Stato in conformità alla pressochè unanime dottrina, l'art. 459, terzo comma, attribuisce al giudice un sindacato completo sulla richiesta del pubblico ministero: egli può, quindi, rigettarla anche nel caso in cui ritenga non adeguata la misura della pena in essa indicata.

 

Ciò posto, vengono automaticamente a cadere le censure di incostituzionalità avverso la norma impugnata.

 

É chiaro, infatti, che, una volta accertato che il giudice per le indagini preliminari ha un potere di controllo pieno, nel rito e nel merito, sulla richiesta di emissione del decreto penale presentata dal pubblico ministero, il successivo vincolo in forza del quale, nel caso di accoglimento della richiesta, egli non possa discostarsi dalla misura della pena indicata (vincolo, peraltro, giustificato dalla mancanza di un potere di opposizione da parte del pubblico ministero avverso il decreto) non determina alcuna lesione dei principi invocati nell'ordinanza di rimessione.

 

3. - Osserva ancora il giudice remittente che, anche ammettendo che il giudice possa rigettare la richiesta del pubblico ministero per inadeguatezza della pena, al pubblico ministero altro non resterebbe che emettere il decreto di citazione a giudizio, con conseguente frustrazione delle esigenze di speditezza e di economia processuale che costituiscono la ratio del procedimento per decreto.

 

Pur prescindendo dal rilievo che tale doglianza nulla ha a che vedere con i parametri costituzionali invocati, nemmeno quest'ultima tesi del giudice a quo può essere condivisa. Deve, infatti, ritenersi che, a seguito della restituzione degli atti da parte del giudice che non intenda accogliere la richiesta di decreto, il pubblico ministero viene ad essere reinvestito di tutti i poteri ad esso spettanti. A parte, quindi, la possibilità, che pur deve ammettersi, di una reiterazione della richiesta con le modificazioni ritenute idonee a renderla accoglibile (e qualora ovviamente ne perdurino le altre condizioni previste dalla legge), nulla impedisce al pubblico ministero di indirizzare il procedimento, ove in concreto ne ricorrano i presupposti, verso altri riti semplificati, atti ad evitare il passaggio al dibattimento. Anzi, come si legge nella Relazione al progetto preliminare del codice, proprio allo scopo di favorire l'instaurazione di altri riti differenziati è stato disposto che il giudice che non ritenga di emettere il decreto di condanna restituisca gli atti al pubblico ministero, a differenza di quanto era previsto nel Progetto preliminare del 1978, secondo il quale in tal caso era lo stesso pretore a procedere all'emissione del decreto di citazione a giudizio.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 460, secondo comma, del codice di procedura penale del 1988, sollevata, in riferimento agli artt. 101, secondo comma, e 111, primo comma, della Costituzione, dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Camerino con l'ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26/09/90.

 

Francesco SAJA, PRESIDENTE

 

Mauro FERRI, REDATTORE

 

Depositata in cancelleria il 12/10/90.