Sentenza n. 286 del 1990

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N.286

ANNO 1990

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Francesco SAJA, Presidente

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 6 e 8, primo comma, del decreto legislativo 23 novembre 1988, n. 509 (Norme per la revisione delle categorie delle minorazioni e malattie invalidanti, nonchè dei benefici previsti dalla legislazione vigente per le medesime categorie, ai sensi dell'articolo 2, comma 1, della legge 26 luglio 1988, n. 291) e dell'art. 1, secondo comma, della legge 21 marzo 1988, n. 93 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 8 febbraio 1988, n. 25, recante norme in materia di assistenza ai sordomuti, ai mutilati ed invalidi civili ultrasessantacinquenni), promosso con ordinanza emessa il 21 dicembre 1989 dal Pretore di La Spezia nel procedimento civile vertente tra Ferrari Domenico e l'I.N.P.S. ed altro, iscritto al n. 90 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell'anno 1990.

Visto l'atto di costituzione di Ferrari Domenico nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 3 maggio 1990 il Giudice relatore Ugo Spagnoli.

Ritenuto in fatto

1. - Decidendo sulla domanda di riconoscimento del diritto alla pensione sociale in sostituzione di quella di inabilità proposta da Ferrari Domenico, che, dopo il compimento dei sessantacinque anni, aveva chiesto la pensione di inabilità ma non l'aveva ottenuta pur essendo stato riconosciuto invalido al 100% dalla competente commissione sanitaria, il Pretore di La Spezia - nel presupposto che l'istante potesse fruire, quanto alle condizioni di reddito, di quest'ultimo beneficio ma non anche della pensione sociale - ha sollevato, con ordinanza del 21 dicembre 1989, una questione di legittimità costituzionale:

a) degli arti. 6 e 8, primo comma, del decreto legislativo 23 novembre 1988, n. 509, in riferimento agli artt. 3 e 76 Cost.;

b) in via subordinata, dell'art. 1 della legge 21 marzo 1988, n. 93, in relazione agli artt. 3 e 97 Cost.

1.1. - La censura sub a) poggia su una ricostruzione, in via interpretativa, della legislazione anteriore al decreto legislativo n. 509 del 1988 - ritenuto applicabile nel caso di specie - in base alla quale questo assumerebbe carattere innovativo, in violazione dei limiti della delega conferita con la legge 26 luglio 1988, n. 291.

Riassumendo la precedente situazione normativa, il giudice a quo ricorda, innanzitutto, che il problema della concedibilità della pensione sociale, in sostituzione della richiesta pensione d'invalidità, agli invalidi civili assoluti che presentino domanda dopo il compimento del sessantacinquesimo anno di età sorse a seguito degli artt. 1 della legge n. 29 del 1977 (di conversione del decreto-legge n. 850 del 1976) e 14-septies della legge n. 33 del 1980, che - rispettivamente per gli invalidi civili assoluti e parziali - introdussero ai fini della sola pensione (o assegno) d'invalidità limiti di reddito più favorevoli rispetto a quelli precedenti, che coincidevano con i limiti previsti per la pensione sociale.

Contraddicendo una precedente prassi amministrativa, il Consiglio di Stato (parere n. 463 del 1987) ritenne che l'attribuzione automatica della pensione sociale agli ultrasessantacinquenni alle più favorevoli condizioni di reddito previste per i trattamenti d'invalidità fosse possibile solo ove questi ultimi fossero già stati ottenuti prima del compimento dei sessantacinquesimo anno. In caso, invece, di domanda per il riconoscimento dell'invalidità presentata dopo i sessantacinque anni, occorreva, ai fini dell'attribuzione - in via sostitutiva - della pensione sociale, il possesso delle più rigorose condizioni reddituali previste per quest'ultima.

Intervennero allora due decreti-legge. Col primo (n. 495 del 9 dicembre 1987) si dispose - come "interpretazione autenticai degli artt. 10 e 11 della legge n. 854 del 1973 - che la pensione sociale fosse concessa agli invalidi civili ultrasessantacinquenni aventi le condizioni reddituali previste per i trattamenti d'invalidità: ma esso decadde. Col secondo (n. 25 dell'8 febbraio 1988), si previde, tra l'altro, che la pensione sociale fosse riconosciuta - peraltro, nei limiti del bilancio dell'I.N.P.S. - a coloro cui la condizione di invalido fosse stata riconosciuta con delibera pervenuta a tale Istituto prima dell'entrata in vigore del decreto: ma tale disposizione fu soppressa dalla legge di conversione 21 marzo 1988, n. 93. Con quest'ultima legge, peraltro, vennero fatti salvi i provvedimenti adottati ed i rapporti sorti in base al citato decreto-legge n. 495: clausola, questa, che é stata intesa o come limitata ai casi di già avvenuta liquidazione della pensione sociale in base alla citata prassi amministrativa (tesi dell'I.N.P.S.); ovvero come estesa a tutte le delibere di riconoscimento del diritto alla pensione d'invalidità adottate non solo nel periodo di vigenza del decreto ma anche anteriormente (circ. Min. Int. n. 8/89)

1.2.- Tanto premesso, il giudice a quo contesta, sul piano interpretativo, che alla stregua delle norme anteriori a quelle impugnate fosse esclusa la possibilità per l'invalido totale ultrasessantacinquenne di richiedere la pensione d'invalidità. Argomenta, al riguardo, del diverso tenore degli artt. 12 e 13 della legge n. 118 del 1971, osservando che il limite dei sessantacinque anni é espressamente previsto solo per l'assegno e non anche per la pensione d'invalidità. Nè il contrario potrebbe desumersi dall'art. 19 della stessa legge, che andrebbe inteso nel senso della sostituzione della pensione sociale anche alle pensioni di invalidità ancora da liquidare. La tesi sarebbe confortata anche da ragioni logiche, giacchè solo l'invalidità parziale, e non anche quella totale, può ritenersi assorbita dalla vecchiaia.

A questa stregua, il predetto decreto-legge n. 495 del 1987 avrebbe veramente valore interpretativo, mentre innovative sarebbero solo le citate disposizioni del decreto-legge n. 25 del 1988 (nn. 2 e 3dellaart. 1) poi soppresse dalla legge di conversione n. 93 del 1988. Dopo tale soppressione, dunque, la pensione d'invalidità, ad avviso del giudice a quo, restava richiedibile anche dagli ultrasessantacinquenni: ed avrebbero quindi valore innovativo le impugnate disposizioni del decreto legislativo n. 509 del 1988, laddove prevedono che gli ultrasessantacinquenni si considerano invalidi "ai soli fini della concessione dell'indennità di accompagnamento" (art. 6), che la pensione di invalidità di cui all'art. 12 legge n. 118 del 1971 é concessa ai mutilati ed invalidi civili "di età compresa tra il diciottesimo ed il sessantacinquesimo anno", e che dopo tale età é corrisposta in sua sostituzione la pensione sociale (art. 8).

Considerato che la norma di delega (art. 2 legge n. 291 del 1988) consente al massimo modifiche tecniche e di dettaglio alla precedente disciplina, ma non innovazioni alla configurazione ed alle caratteristiche dei trattamenti in discorso, il giudice a quo prospetta una violazione dell'art. 76 Cost. per eccesso di delega. Assume, inoltre, che tali disposizioni, in quanto perpetuano la differenziazione dei limiti reddituali tra pensione d'invalidità e pensione sociale, darebbero luogo ad ingiustificata disparità di trattamento tra soggetti che siano parimenti totalmente inabili e percettori del medesimo reddito, consentendo la fruizione della pensione sociale (in sostituzione di quella di inabilità) solo a chi sia stato riconosciuto inabile prima dei sessantacinque anni e non anche a chi abbia chiesto successivamente il riconoscimento dell'inabilità.

1.3.- Per l'ipotesi di ritenuta erroneità della interpretazione delle precedenti disposizioni presupposta nel punto precedente, il giudice a quo prospetta, in via subordinata, Una censura d'incostituzionalità dell'art. 1, comma secondo, della legge n. 93 del 1988, in quanto, facendo salvi i provvedimenti emanati ed i rapporti giuridici sorti in base al citato decreto-legge n. 495 del 1987, consente l'erogazione della pensione sociale - pur in difetto delle relative condizioni reddituali - agli invalidi riconosciuti tali dopo i sessantacinque anni per i quali, all'epoca della vigenza di tale decreto, la delibera ricognitiva delle C.P.A.B.P. fosse stata già adottata o trasmessa all'I.N.P.S. In detta ipotesi, invero, sarebbe tale norma a risultare innovativo rispetto alla precedente disciplina di diniego della pensione sociale agli invalidi ultrasessantacinquenni aventi redditi superiori a quelli per essa previsti: ed essa confliggerebbe con gli artt. 3 e 97 Cost., in quanto ne consentirebbe la concessione a soggetti che, rispetto all'attore nel giudizio principale, versino nelle stesse condizioni d'invalidità e reddituali ed abbiano chiesto contemporaneamente il riconoscimento dell'invalidità; sicchè l'unico, irragionevole discrimine sarebbe costituito dalla celerità dell'amministrazione nel provvedere sulla domanda.

2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio tramite l'Avvocatura dello Stato, dopo un'ampia ricostruzione della normativa e delle vicende relative alla sua applicazione, contesta - rispetto alla questione proposta in via principale - il denunciato eccesso di delega, in quanto la concedibilità, dopo i sessantacinque anni, della sola pensione sociale, con i limiti reddituali per questa previsti, già risultava - pur se contraddetta dalla prassi amministrativa - dall'art. 19 della legge n. 118 del 1971. Le norme impugnate sarebbero d'altra parte riconducibili al criterio direttivo posto nell'art. 2, comma primo, lettera c) della legge delegante

Nemmeno sussisterebbe, poi, la dedotta violazione del principio di uguaglianza, sia per la disomogeneità delle situazioni poste a raffronto dato che nel caso di presentazione della domanda successivamente al compimento del sessantacinquesimo anno di età, sarebbe difficile distinguere tra inabilità connessa all'età avanzata e inabilità derivante da pregresse condizioni di salute - sia perchè comunque il vizio lamentato andrebbe semmai ricondotto alle disposizioni che stabiliscono diversi limiti di reddito ai fini del conseguimento della pensione sociale e, rispettivamente, di quella d'invalidità.

L'Avvocatura contesta, inoltre, il presupposto da cui muove il giudice a quo - e cioé che in base all'art. 12 della legge n. 118 del 1971 la pensione d'invalidità fosse richiedibile dopo il compimento di sessantacinque anni - osservando che il contrario già risultava dall'art. 2 della legge n. 743 del 1969.

Infondata sarebbe, poi, anche la questione proposta in via subordinata, sia per il carattere necessariamente temporale della disposizione impugnata - destinata a sanare particolari situazioni pregresse - sia per la sua natura derogatoria, che la rende inidonea a fungere da parametro ai fini del rispetto del principio d'uguaglianza.

3.- La parte privata Ferrari Domenico, rappresentata e difesa dall'avv. S. Cabibbo, prospetta l'opportunità che venga assunta come principale la questione proposta in via subordinata, in ragione dei fatto che la recente giurisprudenza della Corte di cassazione (sentenza n. 2808 del 9 giugno 1989) ha radicalmente escluso, in base al combinato disposto degli artt. 12 e 19 della legge n. 118 dei 1971, la possibilità per l'ultrasessantacinquenne di richiedere la pensione d'invalidità, con ciò implicitamente ritenendo che il disposto dell'art. I della legge n. 93 dei 1988 si riferisca solo ai casi in cui fosse stato emanato il provvedimento di liquidazione. Questa lettura restrittiva renderebbe manifesta l'irrazionalità di tale disposizione, dato che l'elemento discriminante tra soggetti della stessa categoria sarebbe costituito dall'atto di liquidazione dell'Amministrazione, il che la renderebbe arbitra del diritto.

Considerato in diritto

1.-Considerando la situazione di chi, in base ad un accertato stato di inabilità assoluta, abbia richiesto dopo il compimento dei sessantacinque anni il riconoscimento dell'invalidità civile onde ottenere la pensione sociale sostitutiva di quella d'invalidità alle più favorevoli condizioni reddituali previste per quest'ultima, il Pretore di La Spezia dubita innanzitutto, in riferimento agli artt. 3 e 76 Cost., della legittimità costituzionale degli artt. 6 e 8 del decreto legislativo 23 novembre 1988, n. 509, in quanto escludono che dopo i sessantacinque anni la condizione d'invalido dia titolo alla pensione d'invalidità, prevedendo che essa rilevi solo ai fini dell'assistenza sanitaria e della concessione dell'indennità di accompagnamento. Si sarebbero così introdotte, a suo avviso, innovazioni alla previgente legislazione non consentite dalla delega conferita con l'art. 2 della legge 26 luglio 1988, n. 291 e si sarebbe irrazionalmente discriminato tra soggetti di pari reddito e parimenti inabili al 100 per cento in base al solo elemento della presentazione della domanda di riconoscimento dell'inabilità prima o dopo i sessantacinque anni.

2. -La censura riferita all'art. 76 Cost. non è fondata, in quanto deve ritenersi erroneo il presupposto interpretativo su cui essa poggia, che cioè la preclusione al riconoscimento dell'invalidità-ed alla concessione della relativa pensione - non fosse già prevista dalla normativa anteriore alle disposizioni impugnate. Tale tesi, che si basa essenzialmente sul diverso tenore degli artt. 12 e 13 della legge n. 118 del 1971, è stata bensì a suo tempo seguita dalla prassi invalsa in sede amministrativa. Ma successivamente essa è stata smentita non solo dal parere del Consiglio di Stato (I sez., n. 463 del 1987) che lo stesso giudice a quo ricorda, ma anche da pronunce di questa stessa Corte (sentenza n. 769 del 1988) e della Corte di cassazione (sez. lav., n. 2808 del 1989) cui la giurisprudenza di merito si è uniformata: sicchè deve ritenersi consolidato l'indirizzo interpretativo che fa risalire la preclusione al riconoscimento dell'invalidità dopo i sessantacinque anni al disposto dell'art. 11 della legge n. 854 del 1973, che, prevedendo l'automatica sostituzione della pensione sociale a quella d'invalidità al compimento dei sessantacinque anni, comporta di necessità che a chi abbia superato tale età possa essere attribuita solo la prima (e non la seconda) di dette provvidenze, ovviamente alle condizioni reddituali per essa previste. Nello stesso senso depone, del resto, la mancata conversione in legge del decreto-legge 9 dicembre 1987, n. 495, con il quale-sotto forma di <interpretazione autentica> del citato art. 11 (nonchè dell'art. 10) della legge n. 854 del 1973-si era proposta l'attribuzione della pensione sociale in base ai limiti di reddito previsti per i trattamenti d'invalidità a chi fosse stato riconosciuto invalido in base a domanda presentata dopo il compimento del sessantacinquesimo anno di età.

Poichè dunque le disposizioni impugnate non hanno carattere innovativo, deve escludersi il denunciato eccesso dai limiti della delega.

A tali norme, d'altra parte, non può neanche ascriversi la disparità di trattamento lamentata dal giudice a quo. Non è certo irrazionale, invero, un sistema che prevede la corresponsione della pensione sociale in luogo di quella d'invalidità nel momento in cui l'inabilità al lavoro cui questa mira a sopperire diventa praticamente indistinguibile da quella presuntivamente derivante dall'età (sentenza n. 769 cit.) e che provvede alle ulteriori esigenze dell'invalido non correlate all'incapacità lavorativa con gli strumenti dell'assistenza socio- sanitaria e dell'indennità di accompagnamento. La diversificazione che il giudice remittente evidenzia tra soggetti di pari reddito e parimenti inabili a seconda che l'invalidità sia riconosciuta prima o dopo i sessantacinque anni non discende in realtà da tale congegno normativo, ma dalle disposizioni-diverse da quelle qui impugnate - che stabiliscono diversi limiti di reddito ai fini del conseguimento della pensione d'invalidità e, rispettivamente, di quella sociale.

Se essi venissero ricondotti all'originaria omogeneità, non vi sarebbe ragione di richiedere, dopo i sessantacinque anni, quest'ultimo trattamento alle condizioni reddituali del primo.

L'incoerenza nel sistema assistenziale che da ciò discende - e che non è sanabile con l'alterazione dei rapporti tra i due trattamenti richiesta dal giudice a quo-è stata già segnalata da questa Corte nella sentenza n. 769 del 1988; e va qui ribadita l'esigenza che vi si ponga rimedio con un appropriato riequilibrio che realizzi un adeguato contemperamento degli interessi in gioco.

3. - Infondata è anche l'ulteriore questione con la quale il Pretore di La Spezia lamenta che l'art. 1, secondo comma, della legge 21 marzo 1988, n. 93 (di conversione del decreto-legge 8 febbraio 1988, n. 25), disponendo che <restano validi gli atti ed i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodotti ed i rapporti giuridici sorti sulla base del (già citato) decreto- legge 9 dicembre 1987, n. 495>, abbia limitato tale sanatoria alle posizioni già definite in forza della provvisoria vigenza di tale decreto e non l'abbia invece estesa agli altri soggetti ultrasessantacinquenni che avevano all'epoca già presentato domanda per il riconoscimento dell'invalidità allo scopo di ottenere la pensione sociale sulla base delle condizioni economiche richieste per quella d'invalidità. A suo avviso, ciò darebbe luogo a violazione degli artt. 3 e 97 Cost., dato che tra le situazioni così poste a confronto sarebbe ravvisabile un unico, irragionevole discrimine, costituito dalla maggiore o minore solerzia dell'amministrazione nel provvedere sulle domande.

L'erroneità di siffatta prospettazione appare evidente sol che si consideri che alla stregua di essa il legislatore dovrebbe ritenersi vincolato, in ossequio al principio di uguaglianza, non solo ad una convalida integrale degli effetti concretamente prodotti dal decreto decaduto-ciò che costituisce non un obbligo, ma una facoltà conferitagli dall'art. 77, terzo comma, Cost.-ma ad estendere l'efficacia della provvisoria regolamentazione in esso contenuta a tutti i rapporti pendenti al momento della sua emanazione o instaurati durante la sua vigenza: ciò che si tradurrebbe in una palese alterazione delle competenze normative rispettivamente assegnate al Governo ed alle Camere dal medesimo art. 77 ed in una conversione surrettizia, per il passato, del decreto-legge decaduto all'atto della convalida prevista dal terzo comma.

L'impossibilità di concepire un tale vincolo rende manifesto ciò che già discende dalle caratteristiche di intrinseca provvisorietà e di perdita di efficacia sin dall'inizio in caso di mancata conversione proprie del decreto-legge: e ciò la sua inidoneità, proprio perchè non convertito, a fungere da parametro in riferimento al principio di uguaglianza. Di conseguenza, nel caso in cui il legislatore ritenga di consolidare i concreti effetti da esso provvisoriamente prodotti, le differenziazioni che inevitabilmente ne scaturiscono tra i soggetti che ne abbiano beneficiato e quelli che ne siano rimasti esclusi non possono riguardarsi che come differenze inapprezzabili alla stregua di detto principio e non valutabili in base ai canoni di correttezza amministrativa.

Nel caso di specie, inoltre, la regola posta nel decreto-legge decaduto è, come si è detto, antitetica sia rispetto a quella risultante dalla legislazione anteriore - confermata nel decreto legislativo n. 509 del 1988 - sia rispetto a quella posta dall'art. I della stessa legge n. 93 del 1988, che si è limitato ad autorizzare l'erogazione delle prestazioni già liquidate agli ultrasessantacinquenni.

La disposizione impugnata si pone perciò come derogatoria rispetto alla regola generale ed è conseguentemente, anche per tale motivo, inidonea a fungere da parametro ai fini del rispetto del principio di uguaglianza.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 6 e 8 del decreto legislativo 23 novembre 1988, n. 509 (Norme per la revisione delle categorie delle minorazioni e malattie invalidanti, nonchè dei benefici previsti dalla legislazione vigente per le medesime categorie, ai sensi dell'articolo 2, comma 1, della legge 26 luglio 1988, n. 291), sollevata in riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione dal Pretore di La Spezia con ordinanza del 21 dicembre 1989 (r.o. n. 90/1990);

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, secondo comma, della legge 21 marzo 1988, n. 93 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto- legge 8 febbraio 1988, n. 25, recante norme in materia di assistenza ai sordomuti, ai mutilati ed invalidi civili ultrasessantacinquenni), sollevata in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione dal predetto Pretore con la medesima ordinanza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 11/06/90.

Francesco SAJA, PRESIDENTE

Ugo SPAGNOLI, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 14/06/90.