Sentenza n. 325 del 1989

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SENTENZA N.325

ANNO 1989

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Dott. Francesco SAJA, Presidente

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Prof. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 39 del codice penale militare di pace, promosso con un’ordinanza emessa il 27 ottobre 1988 dal Tribunale militare di Padova, nel procedimento penale a carico di Pavan Emanuele, iscritta al n. 811 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 3, prima serie speciale, dell'anno 1989.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 aprile 1989 il Giudice relatore Ettore Gallo.

 

Considerato in diritto

 

1. - Il Tribunale militare di Padova dubita ancora una volta della legittimità costituzionale dell'art. 39 del codice penale militare di pace, denunziandolo in riferimento agli stessi parametri invocati nelle precedenti ordinanze. Non é esatto, però, che la questione si presenti negli stessi termini, come afferma l'Avvocatura generale: nel qual caso, comunque, la conseguenza sarebbe stata analoga declaratoria di manifesta inammissibilità, e non d'infondatezza come da essa viene richiesto.

In realtà, qui si tratta di un giostraio che, aggirandosi con la sua modesta carovana per le piazze di vari paesi, ha sicuramente notato - e, del resto, non lo nega - il manifesto che dispone la chiamata alle armi della sua classe. Egli sostiene, pero, di non avere soffermato l'attenzione su di esso a causa dei precedenti concernenti i suoi due fratelli maggiori, ai quali era stata notificata la cartolina-precetto. Egli nutriva, perciò, ragionevole convinzione che solo da questo momento decorresse l'obbligo di presentarsi al Corpo designato.

Questa volta, dunque, a differenza dei casi esaminati in precedenza, l'ignoranza, e l'errore ad essa conseguente, venivano a cadere proprio su quei doveri inerenti al proprio stato che l'art. 39 del codice penale militare di pace dichiara irrilevanti come scusanti dell'illecito perpetrato.

Ritiene, peraltro, il Tribunale militare che la norma impugnata, essendo norma speciale, deroghi tanto all'art. 5 del codice penale -così come dichiarato parzialmente illegittimo dalla citata sentenza di questa Corte - quanto all'art. 47, primo e terzo comma del codice penale: anche perché l'ordinanza mostra di non condividere un certo recente favorevole orientamento giurisprudenziale che disattende il rigore interpretativo dei lavori preparatori e della relazione al codice penale militare di pace.

Di qui, la nuova denunzia a questa Corte.

2. - Occorre tenere distinti nella questione, cosi come sollevata, il profilo che si riferisce all'art. 5 del codice penale, da quello che ha riguardo all'errore nei sensi di cui all'art. 47, primo e terzo comma del codice penale.

Sotto il primo profilo, infatti, se é vero che la sentenza 23 marzo 1988, n. 364 di questa Corte ha aperto un ambito di rilevanza scusante dell'errore, é pur vero, pero, che lo ha posto in funzione dell'inevitabilità dell'errore stesso, additando tutta una serie di indicazioni di principio che consentono di delineare con sufficiente certezza l'ambito stesso.

Essenzialmente - secondo la sentenza - l'errore inevitabile é riferito, sul piano soggettivo, ai doveri strumentali di diligenza, fra cui soprattutto quelli d'informazione. In altri termini, inevitabile - e quindi escludente la colpevolezza - e soltanto quell'errore che non si é potuto evitare nemmeno adempiendo ai doveri strumentali d'informazione e conoscenza: doveri peraltro mediati dalla normale socializzazione degli individui e dal funzionamento delle varie fonti sociali d'informazione, alle quali chi e tenuto ad attingere può, di fatto e di regola, attingere.

Orbene, un'eventuale delegittimazione dell'art. 39 citato sotto questo riflesso (in quanto, cioè, non contempla l'inevitabilità dell'errore nei limiti di cui sopra)-postulerebbe che il Tribunale rimettente avesse motivato, agli effetti della rilevanza, sul punto relativo all'inevitabilità dell'errore del Pavan. E questo, infatti, il dato da cui nasce l'imprescindibilità di un giudizio della Corte ai fini della decisione di merito, in quanto, allo stato, nell'art. 39 del codice penale militare di pace non sarebbe appunto previsto-almeno secondo l'interpretazione dell'ordinanza - quell'ambito di rilevanza scusante dell'errore che la Corte ha riconosciuto nell'art. 5 del codice penale.

Ma sul punto il Tribunale non si è pronunziato, limitandosi a dare atto che il Pavan era caduto in errore sulla portata imperativa del manifesto di chiamata, senza precisare se lo ritenga eventualmente inevitabile, e per quali motivi.

Sotto tale riflesso, perciò, la questione é inammissibile.

3. -Non così, invece, per quanto si riferisce all'art. 47 del codice penale.

Ferma restando l'inescusabilità dell'errore sulla norma incriminatrice (non più interessano qui i limiti posti dalla più volte richiamata sentenza), l'errore nel quale é incorso il Pavan non cade sulla norma penale (l'ordinanza riferisce, infatti, che egli era ben consapevole dell'obbligo di rispondere alla chiamata) ma sul suo dovere di presentarsi alle armi per effetto del manifesto, quand'anche non gli fosse pervenuta la cartolina- precetto. Errore, perciò, che cade sui doveri che promanano da un atto amministrativo, quale il manifesto di chiamata alle armi: più precisamente, errore derivato da ignoranza della fonte amministrativa da cui il dovere promana.

Ora, é ben vero che dai passi delle relazioni della Commissione reale (n. 40) e della Commissione ministeriale (n. 41) appare evidente che il legislatore dell'epoca, attraverso l'art. 39 del codice penale militare di pace, intendesse estendere la portata dell'art. 5 del codice penale a qualsiasi errore sui doveri militari, derivato da ignoranza od erronea interpretazione, qualunque fosse la fonte da cui il dovere derivava. Così come é vero che, obbedienti a tale mens legislatoris, dottrina e giurisprudenza militare hanno in passato pressoché costantemente interpretato l'art. 39 del codice penale militare di pace nel senso che ivi sarebbe posta una limitazione-in relazione ai doveri militari-all'efficacia scusante dell'errore su legge extra penale di cui all'art. 47, ultimo comma, del codice penale.

Sennonché una tale interpretazione certamente rispondente all'ideologia degli autori del codice, non é più oggi giustificabile, sia perché contraria ai principi fondamentali del diritto penale (che sono principi di civiltà), sia perché nel nuovo ordinamento democratico, anche militare, quei principi sono collegati all'ispirazione di fondo della Costituzione che rende ormai anacronistica quella interpretazione. In realtà, < ignoranza dei doveri>, secondo il linguaggio comune della scienza e della pratica del diritto, sta a significare < ignoranza dei doveri in astratto>, vale a dire < ignoranza delle fonti normative dei doveri>. Ma gli atti amministrativi che condizionano il dovere in concreto sono < fatti> od < atti> (come il manifesto) che rendono operanti il dovere in astratto disciplinato dalla norma giuridica, e perciò si ricollegano al principio di cui alla prima parte dell'art. 47 del codice penale.

Su questa più moderna linea si é posta, del resto, ormai notevole parte della giurisprudenza militare, la quale ha appunto ritenuto che l'errore sulla portata del manifesto, vertendo su un atto amministrativo, é in realtà errore sul presupposto storico per l'attuazione del dovere in concreto.

Errore di fatto, dunque, che incide sul dolo, secondo i principi del diritto penale militare ex art. 16 del codice penale, rendendo rilevante questo errore anche nell'area dell'art. 39 del codice penale militare di pace.

In tali sensi, e cioè aderendo ad un’interpretazione che, nell'adeguarsi ai principi ispiratori della Costituzione, evita di punire comportamenti che, al più, possono essere qualificati come colposi, non può considerarsi fondata, nemmeno sotto questo profilo, la questione di legittimità costituzionale sollevata sotto i vari parametri enunciati in epigrafe.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

1) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 39 del codice penale militare di pace in relazione all'art. 47 del codice penale con riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma, 27 e 52, terzo comma, della Costituzione, sollevata dal Tribunale militare di Padova con ordinanza 27 ottobre 1988;

2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 39 del codice penale militare di pace in relazione all'art. 5 del codice penale, e con riferimento ai detti parametri costituzionali, sollevata dal medesimo Tribunale con la stessa ordinanza.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18/05/89.

 

Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Renato DELL'ANDRO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI.

 

Depositata in cancelleria il 06/06/89.

 

Francesco SAJA, PRESIDENTE

Ettore GALLO, REDATTORE