Sentenza n. 165 del 1989

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SENTENZA N.165

ANNO 1989

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Dott. Francesco SAJA, Presidente

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Prof. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi promossi con ricorsi delle Regioni Veneto, Sardegna, Umbria, Lombardia ed Emilia-Romagna notificati il 28 e 29 ottobre 1988, depositati in cancelleria il 4, 7 e 15 novembre 1988 ed iscritti ai nn. 20, 21, 23, 24 e 25 del registro ricorsi 1988 per conflitti di attribuzioni sorti a seguito del decreto del Ministro dell'industria, commercio e artigianato 4 agosto 1988, n. 375 (Norme di esecuzione della legge 11 giugno 1971, n. 426, sulla disciplina del commercio).

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 24 gennaio 1989 il Giudice relatore Enzo Cheli;

uditi gli avvocati Giorgio Berti per la Regione Veneto, Sergio Panunzio per la Regione Sardegna, Valerio Onida per le Regioni Umbria, Lombardia ed Emilia-Romagna e l'Avvocato dello Stato Sergio Laporta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Considerato in diritto

 

1. -I cinque ricorsi sollevano conflitti di attribuzione nei confronti dello stesso testo normativo sotto profili in larga parte coincidenti: i giudizi relativi vanno, pertanto, riuniti per essere decisi con unica sentenza.

2.-Alcune Regioni (Emilia-Romagna, Lombardia ed Umbria) denunciano l'illegittimità dell'intero decreto ministeriale 4 agosto 1988 n. 375 per violazione dell'art. 87 della Costituzione, in relazione all'art. 41 della legge 11 giugno 1971 n. 426 ed in riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione. Con tale censura viene contestato il fatto che l'atto normativo in questione (qualificabile come regolamento di esecuzione) sia stato emanato con decreto del Ministro dell'industria anziché con decreto del Presidente della Repubblica, nonostante che il potere espressamente conferito allo stesso Ministro dall'art. 41 della legge n. 426 del 1971 risultasse limitato ad un termine di sei mesi e dovesse comunque considerarsi consumato a seguito dell'emanazione del decreto ministeriale 14 gennaio 1972, contenente il primo regolamento di esecuzione.

La questione é infondata.

Come questa Corte ha già avuto modo di rilevare (sentenza n. 79 del 1970), l'art. 87, quinto comma, della Costituzione non ha inteso esaurire la disciplina della materia dei regolamenti statali, ma soltanto richiamare la tradizionale competenza del Capo dello Stato all’emanazione dei regolamenti governativi deliberati dal Consiglio dei ministri: da tale norma non può farsi, dunque, discendere l'esclusione di altri tipi di regolamenti, quali quelli ministeriali, quando la legge-secondo la formula da ultimo adottata dall'art. 17 della legge 23 agosto 1988 n. 400 - <espressamente conferisca tale potere>. Nella specie, il potere regolamentare esercitato con il decreto di cui e causa trova il suo specifico fondamento legislativo nell'art. 41 della legge n. 426 del 1971, la cui efficacia, riferibile all'intera disciplina esecutiva della legge, non si é venuta ad esaurire né con lo scadere del termine ordinatorio semestrale indicato dalla stessa norma né a seguito dell'emanazione del primo regolamento contenuto nel decreto ministeriale 14 gennaio 1972 (tant'é che successivamente, e a più riprese, sono state emanate altre norme integrative e sostitutive di tale regolamento mediante i decreti ministeriali 28 aprile 1976, 27 giugno 1986 e 7 aprile 1987).

3. -Passando all'esame delle singole censure, vanno in primo luogo valutati i profili concernenti l'asserita lesione dei poteri di programmazione spettanti alle Regioni, nel settore del commercio, ai sensi della legge 11 giugno 1971 n. 426. Tali censure toccano, in primo luogo, in tutti i ricorsi, gli artt. 31, secondo comma, 34, quinto comma e 48, sesto comma, ma si estendono anche, nel ricorso della Regione Veneto, agli artt. 43, secondo comma, e 63, quindicesimo comma, del regolamento impugnato.

Con riferimento a questo primo ordine di doglianze i vari ricorsi, pur sviluppando argomentazioni in parte diverse, muovono nella sostanza dagli stessi presupposti e in particolare dalla considerazione: a) che la legge n. 426 del 1971 sarebbe venuta a delineare, nella materia del commercio, un compiuto sistema di programmazione regionale (fondato sugli artt. 13, 26 e 27 della stessa legge), in certo senso sovraordinato rispetto alla programmazione attuata dai Comuni con i piani di sviluppo ed adeguamento delle reti di vendita; b) che tale sistema risulterebbe sconvolto dalle norme del decreto ministeriale n. 375 del 1988 appena richiamate, a causa delle indebite restrizioni che tali norme avrebbero, direttamente o indirettamente, apportato ai poteri conferiti alle Regioni dalla stessa legge n. 426.

A questo proposito, occorre in primo luogo ricordare come le Regioni a statuto ordinario non dispongano di una competenza legislativa propria in tema di <commercio>, non essendo tale materia compresa nell'elenco formulato dall'art. 117 della Costituzione: nell'area afferente al <commercio> spettano, di conseguenza, alle stesse Regioni soltanto i poteri che lo Stato ha conferito o delegato mediante leggi ordinarie od atti con forza di legge, quali la legge n. 426 del 1971 (con le successive modificazioni) ed il d.P.R. n. 616 del 1977 (artt. 51 ss.) (diversa si presenta, invece, su questo punto, la posizione della Regione autonoma della Sardegna che, in ragione dei contenuti del suo Statuto speciale, dovrà essere considerata a parte: cfr. infra n. 9).

Una seconda osservazione da fare attiene al fatto che la legge n. 426 del 1971, nel porre una disciplina organica del commercio, ha individuato nei Comuni i soggetti primari della programmazione commerciale e nei piani comunali di sviluppo ed adeguamento della rete di vendita gli strumenti fondamentali di tale programmazione (artt. 11 ss.). Nel quadro di tale contesto, la stessa legge ha anche attribuito alle Regioni alcuni rilevanti, ma delimitati poteri di controllo e di indirizzo, riferiti in particolare sia alla connessione tra programmazione commerciale e programmazione urbanistica (artt. 13 e 14), sia all'insediamento delle maggiori strutture di vendita, destinate a servire ambiti più ampi del territorio comunale (artt. 26, 27 e 28).

Da tali richiami discendono due corollari, suscettibili di valere ai fini della soluzione dei conflitti in esame.

Il primo é che, stante la distinta definizione degli ambiti di competenza, regionali e comunali, tracciati dalla legge n. 426, non tutte le limitazioni apportate, mediante regolamento, ai poteri comunali potranno, solo per questo, riflettersi anche nella sfera delle attribuzioni regionali. Il secondo attiene al fatto che, vertendosi in materia non spettante alla sfera regionale per attribuzione costituzionale, le limitazioni eventualmente introdotte in via regolamentare nei confronti di tale sfera saranno suscettibili di dar luogo a lesioni contestabili in sede di conflitto solo ove vengano a contrastare con le norme primarie attributive della competenza, riducendo indebitamente la sfera dei poteri conferiti o delegati alle stesse Regioni o dalla legge n. 426 o da altra fonte di livello equivalente.

4.-Poste tali premesse, dev'essere innanzitutto affermata l'inammissibilità delle censure relative agli artt. 31, secondo comma, 34, quinto comma, 43, secondo comma e 63, quindicesimo comma, del regolamento in esame.

Nessuna delle norme in questione appare, infatti, suscettibile di incidere, né direttamente né indirettamente, nella sfera delle attribuzioni conferite alle Regioni dalla legge n. 426 o da altra fonte primaria in materia di commercio.

In proposito va ricordato che l'art. 31, secondo comma, dello stesso regolamento stabilisce che la determinazione del limite massimo della superficie globale di vendita va effettuata solo per l'apertura di <nuovi esercizi>, con conseguente esclusione dell'operatività del limite nei confronti dei trasferimenti e degli ampliamenti: tale norma-a parte ogni considerazione in ordine alla sua possibile compatibilità con quanto disposto dall'art. 12, secondo comma della legge n. 426, dove il limite in questione é riferito al <rilascio di nuove autorizzazioni>- non assume come destinatarie le Regioni, ma soltanto i Comuni, cui spetta il compito di fissare, nell'ambito dei piani comunali del commercio, il limite massimo della superficie globale di vendita per i vari settori merceologici e di applicare in concreto tale limite ai fini dell'esercizio dei propri poteri autorizzatori.

Analoghe osservazioni possono valere anche nei confronti delle disposizioni contenute nell'art. 34, quinto comma, dove si stabilisce il divieto di imporre limiti massimi di superficie di vendita per ciascun esercizio, e nell'art. 43, secondo comma, dove si definisce la misura dell'ampliamento suscettibile di modificare le caratteristiche dell'esercizio. Il divieto formulato nella prima disposizione attiene, infatti, esclusivamente ai poteri dei Comuni, cui la legge consente di indicare, per i vari settori merceologici, la superficie minima, ma non la massima dei locali adibiti alla vendita (art. 12, primo comma, legge n. 426/71), mentre la seconda disposizione (che si limita a riprodurre quanto già disposto dall'art. 29 del decreto ministeriale 28 aprile 1976, contenente norme integrative e sostitutive del regolamento di esecuzione emanato con decreto ministeriale 14 gennaio 1972) adotta una definizione degli ampliamenti modificativi delle caratteristiche dell'esercizio che non tocca i poteri regionali, dal momento che investe soltanto - secondo l'esplicita limitazione contenuta nella norma il potere di autorizzazione conferito al sindaco dall'art. 24, secondo comma, della legge n. 426, senza incidere, di contro, nel potere di nullaosta conferito alla Giunta regionale, per il settore della grande distribuzione, dagli artt. 26 e 27 della stessa legge.

Infine, l'inammissibilità della censura formulata, nei confronti dell'art. 63, quindicesimo comma del regolamento discende chiaramente dal fatto che questa norma-prevedendo in via transitoria l'estensione di determinate tabelle merceologiche relative a generi alimentari anche ai prodotti di altra tabella - oltre a non comportare un ampliamento automatico delle superfici di vendita, si limita soltanto a circoscrivere il potere discrezionale attribuito al Sindaco ai fini del rilascio delle autorizzazioni concernenti le diverse tabelle, potere estraneo alla sfera delle attribuzioni regionali.

5 - Con un’ulteriore censura - formulata in tutti i ricorsi - viene contestata la legittimità dell'art . 48, sesto comma, del decreto in esame, dove si esclude la necessita del nulla-osta regionale (previsto dagli artt. 26 e 27 della legge n. 426) per l'impianto delle grandi strutture di vendita, sia nel caso del trasferimento di sede sia nel caso dell'ampliamento della superficie di vendita, salvo che a seguito di successivi amplia menti di un esercizio preesistente siano raggiunti i limiti (rispettivamente di 400 e 1500 mq) indicati dagli stessi articoli della legge. Ad avviso delle ricorrenti, tale norma regolamentare verrebbe indebitamente a limitare il potere di nulla-osta conferito alle Regioni dalla legge n. 426 per le maggiori strutture di vendita, scalzando i poteri regionali di controllo e di programmazione sugli esercizi ad attrazione ultracomunale e, di conseguenza, sull'intera rete distributiva esistente nel territorio regionale.

La questione non é fondata.

Gli artt. 26 e 27 della legge n. 426 riferiscono testualmente il nulla-osta regionale alla <apertura> degli esercizi di vendita al dettaglio e dei centri commerciali caratterizzati da particolari dimensioni: tale formulazione, ove venga confrontata con la più ampia dizione adottata dal primo comma dell'art. 24-che impone l'autorizzazione comunale sia per l'<apertura di esercizi al minuto>, sia per il <trasferimento in altra zona>, sia per l'<ampliamento degli esercizi già esistenti>-induce a ritenere che la volontà espressa dal legislatore sia stata nel senso di limitare l'ambito di incidenza del nulla-osta regionale alla sola ipotesi di <apertura> (cui il regolamento ha equiparato, con interpretazione estensiva, gli ampliamenti suscettibili di superare i limiti di superficie indicati negli stessi articoli della legge), con esclusione delle diverse ipotesi di <trasferimento> ed <ampliamento> dell'esercizio. Tale interpretazione risultava, del resto, già adottata nell'art. 32 del regolamento emanato con decreto ministeriale 28 aprile 1976, dove - nel riformulare la disciplina espressa dall'art. 46 del decreto ministeriale 14 gennaio 1972-implicitamente si delimitava l'ambito di applicazione del nulla-osta regionale richiesto dagli artt. 26 e 27 della legge, dal momento che si affermava la sua necessita <non soltanto quando la superficie di vendita raggiunga i limiti di cui agli articoli stessi fin dal momento della prima attivazione dell'esercizio, ma anche quando tali limiti siano raggiunti per via di successivi ampliamenti di un esercizio preesistente>, tacendo di ogni altra ipotesi.

Nessun contrasto é dato, dunque, ravvisare tra la disciplina posta dall'art. 48, sesto comma, del regolamento impugnato e le competenze assegnate alle Regioni, in materia di programmazione commerciale, dagli artt. 26 e 27 della legge n. 426. D'altro canto, neppure i rilievi formulati nei vari ricorsi circa l'irrazionalità della limitazione affermata con la norma di cui é causa ai fini di un efficace svolgimento della programmazione regionale nel settore della grande distribuzione possono valere in questa sede, dal momento che tali rilievi vengono tutti a collegarsi alla prospettiva di una possibile (ed anche auspicabile) riforma della legge sul commercio, incentrata su di un'ipotesi di rafforzamento della presenza regionale nel settore della grande distribuzione, ma esulano sicuramente dagli oggetti deducibili in sede di conflitto di attribuzione.

6.-Un'ulteriore censura, comune a tutti i ricorsi, investe la disciplina dei corsi professionali per gli esercenti il commercio stabilita dall'art. 20 del decreto impugnato, dove si regolano le materie di insegnamento ed i programmi dei corsi (commi primo e quinto), gli scrutini finali (commi sesto e settimo), nonché alcune condizioni per l'iscrizione, conseguente alla frequenza dei corsi, nel registro degli esercenti il commercio (commi secondo, terzo, quarto e ottavo). Secondo le ricorrenti tale disciplina risulterebbe invasiva delle competenze spettanti alle Regioni ordinarie in materia di istruzione professionale ai sensi degli artt. 117 e 118 della Costituzione, 35 e 36 del d.P.R. 616 del 1977 e della legge-quadro in materia di formazione professionale (legge 21 dicembre 1978 n. 845), tenendo anche conto degli svolgimenti della giurisprudenza elaborata in tema di corsi professionali dalla Corte costituzionale.

La censura é in parte fondata.

Questa Corte con la sentenza n. 89 del 1977 - giudicando in un conflitto di attribuzione sollevato nei confronti di un decreto ministeriale relativo ai corsi professionali istituiti ai sensi della legge n. 426 del 1971 -ebbe modo di affermare la competenza delle Regioni alla regolamentazione di tali corsi, salva la possibilità per lo Stato <di controllare preventivamente che le materie di insegnamento, che spetta alle Regioni stabilire, siano idonee al conseguimento della qualificazione professionale>. Con la stessa sentenza la Corte riservo allo Stato anche la fase della valutazione dei risultati della frequenza ai corsi, dal momento che tale verifica <abilita - per la via mediata dell'iscrizione nel registro - all'esercizio dell'attività commerciale nell'intero territorio nazionale> ed attiene, pertanto, alla materia del <commercio> di competenza statale.

Tali indicazioni-successivamente confermate in sede legislativa, attraverso l'art. 36 del d.P.R. n. 616 del 1977, dove si attribuiscono alla competenza regionale le funzioni amministrative relative alla formazione degli operatori commerciali-inducono a ritenere la doglianza fondata con riferimento al primo comma dell'art. 20, nella parte in cui rinvia, ai fini della definizione del contenuto dei corsi, alle materie elencate nell'allegato 6: attraverso questa elencazione di materie si viene, infatti, indebitamente a sottrarre alla sfera delle ricorrenti un momento essenziale dell'organizzazione dei corsi, momento riservato alle Regioni, pur con la possibilità di un controllo preventivo dello Stato sulle stesse materie (possibilità fatta salva dal quinto comma dell'art. 20). Le censure prospettate nei confronti degli altri commi, diversi dal primo, dello stesso art. 20 non possono, invece, trovare accoglimento, dal momento che le norme oggetto d'impugnativa attengono tutte ad aspetti della materia (scrutini finali; composizione della commissione d'esame; requisiti per l'iscrizione nel registro) già riconosciuti da questa Corte di spettanza statale.

7. -Tutti i ricorsi (ad eccezione di quello presentato dalla Regione Veneto) sollevano conflitto anche nei confronti dell'art. 36, concernente la rilevazione della consistenza della rete distributiva.

A questo proposito i ricorsi lamentano che le norme contenute in tale articolo abbiano delineato un sistema informativo che - per il fatto di collegare direttamente i Comuni alle Camere di commercio-avrebbe, nella sostanza, emarginato le Regioni, attribuendo per giunta al solo Ministero il potere di determinare, con assoluta discrezionalità, i modi di utilizzazione dei dati raccolti.

Anche questa censura non può essere condivisa.

L'articolo in esame prevede che <ai fini dell'attuazione di un sistema di raccolta e diffusione di dati sulla rete distributiva comunale, regionale e nazionale, ogni Comune deve inviare alla Camera di commercio competente per territorio, al termine di ciascun trimestre, copie delle autorizzazioni alla vendita di qualsiasi tipo e delle licenze.... rilasciate o revocate nel corso del trimestre>, aggiungendo che <i dati raccolti sono a disposizione degli enti e degli organi pubblici interessati>. Lo stesso articolo, dopo aver precisato alcune modalità per la raccolta dei dati, attribuisce al Ministero dell'industria il compito di stabilire <le modalità di acquisizione, utilizzazione e messa a disposizione> dei dati raccolti.

Se é vero che tale disciplina mira ad instaurare un sistema informativo sulla consistenza della rete commerciale centrato sulle Camere di commercio e regolato dal Ministero dell'industria, à anche vero che la soluzione adottata non esclude di per sé la possibilità di altri sistemi informativi, attivabili da parte delle Regioni, anche con la collaborazione dei Comuni e delle Camere di commercio. D'altro canto, la considerazione che la disciplina tracciata dalla norma impugnata avrebbe affidato alla mera discrezionalità dell'amministrazione statale la possibilità di accesso della Regione ai dati raccolti appare contraddetta dallo stesso contenuto della norma, che si é preoccupata di imporre a carico dell'amministrazione statale un preciso obbligo di messa a disposizione dei dati raccolti a favore di tutti gli enti interessati (tra cui, in primo luogo, la Regione). In tale contesto, anche la disciplina relativa alle modalità per l'utilizzazione e la messa a disposizione dei dati raccolti non potrà non risultare funzionale all'esigenza di garantire il rispetto di tale obbligo da parte dello Stato e, conseguentemente, l'esercizio del diritto di accesso da parte dei soggetti interessati.

8. - Una censura particolare viene prospettata dalla sola Regione Veneto con riferimento all’art . 32 del regolamento in esame, concernente la disciplina relativa alla classificazione degli esercizi destinati alla somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, alle condizioni per il rilascio delle relative licenze nonché ad alcune modalità di svolgimento dell'attività di somministrazione.

Secondo la ricorrente, le norme contenute in tale articolo verrebbero a violare la sfera di competenza regionale in materia di pubblici esercizi di vendita e consumo di alimenti e bevande, delegata ai sensi dell'art. 52, primo comma, lett. a) del D.P.R. n. 616 del 1977, avendo <prosciugato> l'intero spazio normativo concesso alle Regioni nelle materie delegate.

Anche tale censura, alla luce di una corretta lettura della disciplina impugnata, non può essere accolta.

L'art. 32 del decreto in esame contiene disposizioni di attuazione ed esecuzione della legge 14 ottobre 1974 n. 524, concernente la materia degli esercizi pubblici di vendita e consumo di alimenti e bevande. Questa materia- come la ricorrente ricorda - ha formato oggetto di delega alle Regioni ordinarie ai sensi dell'art. 52, primo comma, lett. a) del D.P.R. n. 616 del 1977: di talché spetta oggi alle Regioni, nella stessa materia, oltre l'esercizio delle funzioni amministrative, emanare <norme legislative di organizzazione e di spesa, nonché norme di attuazione ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 117 della Costituzione> (art. 7, primo comma, d.P.R. n. 616 del 1977).

Tale contesto non esclude, peraltro, la possibilità che lo Stato possa intervenire in via suppletiva, mediante lo strumento regolamentare, al fine di porre norme esecutive di una propria legge. Ove si verifichi tale ipotesi - corrispondente al caso in esame - il regolamento statale sarà in grado di svolgere la sua efficacia solo e fino a quando la Regione non venga a sua volta ad adottare, nella stessa materia, una propria disciplina attraverso norme di attuazione emanate ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 117 della Costituzione (cfr. sentenze n. 195 del 1986 e n. 226 del 1986).

Norme di questo tipo, nella specie, non risultano essere state adottate dalla Regione ricorrente, di talché nessun effetto invasivo attuale può essere imputato alla norma regolamentare di cui é causa.

9. -Un esame specifico richiede, infine, il ricorso proposto dalla Regione Sardegna, che, pur investendo norme (artt. 20, 31, 34, 36 e 48) impugnate anche dagli altri ricorsi, pone in gioco il richiamo a parametri differenziati (artt. 4, 5 e 6 dello Statuto speciale; artt. 1, 3, 25, 39 ss. del d.P.R. 19 giugno 1979 n. 348), connessi alla specialità dell'autonomia regionale.

A questo proposito va ricordato come spetti alla Regione Sardegna -diversamente da quanto previsto per le Regioni ordinarie-una competenza legislativa propria, di tipo concorrente, in materia di <commercio> (art. 4 lett. a) dello Statuto speciale), competenza che le norme di attuazione statutaria hanno specificato nella <attività intesa ad organizzare, promuovere e favorire la distribuzione, la somministrazione e l'approvvigionamento delle merci>, con un riferimento particolare anche alla <formazione dei piani urbanistici commerciali regionali>, ed all'<esercizio delle funzioni di vigilanza e tutela relative ai piani di urbanistica commerciale dei Comuni> (art. 39, primo comma e secondo comma lett. do) d.P.R. 19 giugno 1979, n. 348). La posizione della Regione Sardegna risulta, d'altro canto, differenziata da quella delle Regioni ordinarie anche con riferimento alla materia dell'istruzione professionale - posta in gioco dall'art. 20 del regolamento impugnato - che, pur non attribuita alla Regione in sede statutaria, e stata alla stessa delegata dalle norme di attuazione anche con riferimento specifico alla <formazione degli operatori del commercio di cui alla legge 11 giugno 1971, n. 426> (artt. 25 e 26 lett. b) d.P.R. n. 348 del 1979).

Queste disposizioni - nel caratterizzare la specialità della posizione della Regione Sardegna rispetto alle attribuzioni investite dal decreto impugnato -, consentono alla stessa Regione di limitare, nella materia <commercio>, l'incidenza della legge n. 426 del 1971 ai soli principi fondamentali in essa contenuti, nonché di adottare, nella materia dell'<istruzione professionale>, proprie norme di integrazione ed attuazione ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. n. 348 del 1979: con la conseguente possibilità, nella prima materia, di sostituire con le norme espresse attraverso la propria legislazione concorrente la disciplina legislativa di dettaglio e regolamentare posta dallo Stato; nella seconda materia, di far prevalere le proprie norme di attuazione sulle norme poste dai regolamenti statali.

Tali possibilità presuppongono, peraltro, in ogni caso, l'esercizio effettivo da parte della Regione delle proprie competenze normative, sia di tipo concorrente che di tipo integrativo: esercizio che, nella specie, non risulta essere stato sinora attuato, ne con riferimento alla materia del <commercio> ne con riferimento al settore particolare dell'<istruzione professionale > connesso alla formazione degli operatori commerciali (la legge regionale 10 giugno 1979 n. 47, sulla formazione professionale in Sardegna, non investe specificamente tale settore).

In tale situazione, non sussistono motivi per limitare l'operatività dell'intera disciplina posta dalla legge n. 426 del 1971 e dai successivi regolamenti statali (vi compreso il regolamento in esame) anche all'ambito dell'ordinamento sardo, tanto più ove si consideri che, ai sensi dello stesso statuto speciale (art. 57), nelle materie attribuite alla competenza della Regione, <fino a quando non sia diversamente disposto con leggi regionali, si applicano le leggi dello Stato>.

La conclusione é, dunque, nel senso che, al momento presente, la posizione della Regione Sardegna - ai fini della soluzione del conflitto di cui e causa - non può considerarsi diversa da quella propria delle altre ricorrenti: salva, in ogni caso, la possibilità per la stessa Regione di addivenire in futuro, mediante l'adozione di appropriati strumenti normativi, ad un diverso svolgimento dei principi posti dalla legislazione statale in tema di distribuzione delle competenze connesse alla materia in esame.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi, dichiara

a) con riferimento ai conflitti sollevati dalle Regioni Umbria, Lombardia ed Emilia-Romagna, che spetta al Ministro per l'industria, il commercio e l'artigianato emanare le norme di esecuzione della legge 11 giugno 1971, n. 426 contenute nel decreto ministeriale 4 agosto 1988, n. 375;

b) con riferimento ai conflitti sollevati dalle Regioni Veneto, Umbria, Lombardia ed Emilia-Romagna, che spetta allo Stato disciplinare gli oggetti di cui agli artt. 20 (salvo l'inciso finale del primo comma), 36 e 48, sesto comma, del decreto ministeriale n. 375 del 1988;

c) con riferimento ai conflitti sollevati dalle Regioni Veneto, Sardegna, Umbria, Lombardia, Emilia-Romagna, che non spetta allo Stato indicare le materie dei corsi professionali di cui all'art. 5, primo comma, n. 3 della legge 11 giugno 1971, n. 426 e conseguentemente annulla l'ultimo inciso del primo comma dell'art. 20 del decreto ministeriale n. 375 del 1988 con l'allegato 6 dello stesso decreto;

d) con riferimento al conflitto sollevato dalla Regione Veneto, che spetta allo Stato, nei limiti di cui in motivazione, disciplinare gli oggetti di cui all'art. 32 del decreto ministeriale n. 375 del 1988;

e) con riferimento al conflitto sollevato dalla Regione speciale Sardegna, che spetta allo Stato, nei limiti di cui in motivazione, disciplinare gli oggetti di cui agli artt. 20 (salvo l'ultimo inciso del primo comma), 36 e 48 del decreto ministeriale n. 375 del 1988.

f) inammissibili i conflitti sollevati dalle Regioni Veneto, Sardegna, Umbria, Lombardia ed Emilia-Romagna avverso gli artt. 31, secondo comma e 34, quinto comma, nonché il conflitto sollevato dalla sola Regione Veneto avverso gli artt. 43, secondo comma e 63, quindicesimo comma, del decreto ministeriale 4 agosto 1988, n. 375 (Norme per l'esecuzione della legge 11 giugno 1971, n. 426, sulla disciplina del commercio).

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 09/03/89.

 

Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Renato DELL'ANDRO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI.

 

Depositata in cancelleria il 29/03/89.

 

Francesco SAJA, PRESIDENTE

Enzo CHELI, REDATTORE