Sentenza n. 49 del 1989

 CONSULTA ONLINE 

 

 

 

SENTENZA N.49

ANNO 1989

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Dott. Francesco SAJA, Presidente

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 7, comma terzo, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati); 2, comma secondo, n. 3, della legge 7 maggio 1981, n. 180 (Modifiche all'ordinamento giudiziario militare di pace), 2, comma secondo, n. 3, legge 7 maggio 1981, n. 180 (Modifiche all'ordinamento giudiziario militare di pace) e 90 del codice penale militare di pace, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 27 aprile 1988 dal Tribunale militare di Padova nel procedimento penale a carico di Bianchi Enrico, iscritta al n. 334 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 31, prima serie speciale, dell'anno 1988;

2) ordinanza emessa il 27 aprile 1988 dal Tribunale militare di Padova nel procedimento penale a carico di Barracco Francesco, iscritta al n. 335 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 31, prima serie speciale, dell'anno 1988.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 29 novembre 1988 il Giudice relatore Gabriele Pescatore;

udito l'Avvocato dello Stato Giorgio Zagari per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Il Tribunale militare di Padova, con ordinanza 27 aprile 1988 (R.O. n. 334 del 1988), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 101 e 108 della Costituzione, degli artt. 7, terzo comma, della legge 13 aprile 1988, n. 117 e 2, secondo comma, n. 3, della legge 7 maggio 1981, n. 180.

Le questioni sono state proposte nel corso di un procedimento penale avente ad oggetto il reato di diserzione ed il giudice rimettente le ha ritenute rilevanti, affermando che la normativa sulla responsabilità dei giudici influisce sulle loro decisioni e, quindi, sul giudizio a quo.

L'art. 7, comma terzo, della legge n. 117 del 1988 dispone che "i cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare organi giudiziari collegiali rispondono in caso di dolo e nei casi di colpa grave di cui all'art. 2, comma terzo, lett. b e c (affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; negazione determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento). Tale norma, secondo il giudice a quo, si applica, fra l'altro, anche ai componenti laici dei tribunali militari, e cioè agli ufficiali ai quali, con estrazione a sorte, vengono conferite le funzioni di giudice.

Lo stesso art. 7 prevede che i giudici conciliatori e i giudici popolari rispondano soltanto in caso di dolo.

Nell'ordinanza di rimessione si dubita della costituzionalità della norma, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della ingiustificata differenza di trattamento tra giudici non togati, essendo essi tutti accomunati dalla caratteristica di essere sforniti di specifica competenza nelle discipline giuridiche. Secondo il giudice a quo sarebbe, in particolare, del tutto irragionevole che il giudice laico del Tribunale militare e della Corte militare d'Appello, piuttosto che essere assimilato al giudice popolare, il quale risponde solo a titolo di dolo, sia stato assimilato a giudici che rispondono anche a titolo di colpa grave. Infatti, il giudice militare non togato non integra il collegio militare in qualità di esperto in una determinata disciplina non giuridica, ma quale esponente dell'istituzione cui appartiene l'imputato. Si tratterebbe, quindi, di una figura sui generis che, nonostante la diversità dell'origine storica, presenta delle analogie con quella del giudice popolare ed a questa dovrebbe essere assimilata riguardo alla responsabilità. Si sottolinea, al riguardo, che il conferimento delle funzioni giudiziarie avviene, analogamente a quanto previsto per i giudici popolari, previa estrazione a sorte, ma nell'ambito di elenchi alla cui formazione gli interessati non concorrono in modo alcuno; che l'ufficio è gratuito e di breve durata; che non è prevista un'anzianità minima e che, di fatto, il giudice militare non togato finisce con l'essere il più delle volte un sottotenente di prima nomina.

Nell'ordinanza si dubita pure della legittimità costituzionale dell'art. 2, comma secondo, della legge 7 maggio 1981, n. 180, in relazione agli artt. 3, 101 e 108 della Costituzione in quanto, nello stabilire che il Tribunale militare, oltre che di due magistrati, si componga anche di un ufficiale, non ha svincolato l'ufficiale dal potere gerarchico-disciplinare dei superiori. Situazione questa, aggravata dal venir meno della segretezza del voto in conseguenza dell'entrata in vigore della legge n. 117 del 1988 e tale da inficiare l'indipendenza del giudice.

2. - Dinanzi a questa Corte si è costituito, nel giudizio così promosso, il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate.

Quanto alla prima di esse, nelle note depositate si osserva che nella figura del magistrato "laico" che concorre a formare il tribunale militare sussistono elementi di differenziazione rispetto a quella del giudice popolare, in quanto "egli è pur sempre un ufficiale militare con capacità acquisite attraverso uno specifico corso di studi che lo pongono in condizione di dare al giudizio un apporto specialistico (diverso da quello che dà il giudice popolare nel procedimento di assise) soprattutto in ordine alla ricostruzione della fattispecie e alla sua rispondenza all'ipotesi incriminatrice prevista dal c.p.m.p.". Sarebbe perciò ragionevole che egli risponda anche per colpa grave, nelle ipotesi di cui alle lett. b) e c) dell'art. 2, comma terzo della legge n. 117 del 1988, senza che ricorra un'ingiustificata disparità di trattamento.

Quanto alla seconda questione, l'Avvocatura Generale dello Stato sostiene che la previsione costituzionale (art. 103) di una speciale giurisdizione militare necessariamente comporta, rispetto alla giurisdizione ordinaria, differenze di rito e ordinamento. Tuttavia la prestazione dell'ufficio del giudice, da parte dell'ufficiale ad esso chiamato, non si svolge nell'ambito di uno stato di subordinazione gerarchica, dovendosi ritenere che egli, nello svolgimento di tale funzione, sia subordinato solo alla legge.

3. - Questione analoga è stata sollevata dallo stesso Tribunale militare di Padova con ordinanza 27 aprile 1988 (R.O. n. 335 del 1988), emessa nel corso di un procedimento per furto militare aggravato, procacciamento di notizie riservate non a scopo di spionaggio e possesso ingiustificato di mezzi di spionaggio.

Con tale ordinanza il giudice a quo ha sollevato anche questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dell'art. 90 c.p.m.p., che punisce - tra l'altro - il possesso ingiustificato di mezzi di spionaggio.

A sostegno della non manifesta infondatezza della questione, si premette che il reato previsto dall'art. 90 sussiste solo quando non ricorra la finalità di spionaggio, poiché l'art. 7 della legge 23 marzo 1956 n. 167 ha introdotto nel c.p.m.p. un art. 89 bis, che punisce con pene più severe quelle stesse condotte che sono descritte nell'art. 90 quando siano poste in essere a scopo di spionaggio. Inoltre esso, punendo condotte preparatorie rispetto ai reati di procacciamento e di rivelazione non a scopo di spionaggio, previsti rispettivamente dagli artt. 89 e 91 c.p.m.p., è applicabile solamente quando dei detti reati di procacciamento e di rivelazione non sussista l'elemento materiale, né completo, né a titolo di tentativo.

Secondo il giudice a quo, il trattamento sanzionatorio comminato per il reato cui si riferisce l'impugnazione sarebbe irragionevolmente più grave rispetto a quello comminato per i su detti reati di procacciamento e di rivelazione, comportanti una diretta lesione del bene giuridico tutelato. Infatti, mentre la necessaria proporzione è rispettata per le analoghe figure del codice penale comune (artt. 260 e 256 - 258 c.p.), nel c.p.m.p. le condotte accomunate nella previsione dell'art. 90, comma primo, sono punite con la reclusione militare da cinque a dieci anni, pena più grave che non quella, della reclusione militare da tre a dieci anni, comminata per il reato contemplato dall'art. 89. Quanto al trattamento sanzionatorio del reato previsto dall'art. 91, esso è più severo, consistendo nella reclusione militare da cinque e ventiquattro anni, ma ugualmente sbilanciato rispetto a quello del reato de quo a causa dell'uguale misura, cinque anni, del minimo edittale.

Ancora più sbilanciata sarebbe poi la disciplina in esame, qualora si aderisca all'interpretazione giurisprudenziale per cui la disposizione dell'art. 93 c.p.m.p. - applicabile agli artt. 89 e 91 quando la notizia procacciata o rivelata non sia segreta ma semplicemente riservata - non sarebbe correlabile anche all'art. 90 per configurare nelle varie forme un reato punito con pena sensibilmente inferiore, nelle ipotesi in cui i disegni, modelli ecc. siano atti a fornire non già notizie segrete, ma di mero carattere riservato.

4. - Dinanzi a questa Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

Nelle note depositate si osserva in proposito che, secondo l'opinione unanime della dottrina e della giurisprudenza, con le fattispecie criminose disciplinate dall'art. 90 c.p.m.p. - significativamente denominate "spionaggio indiziario" - il legislatore ha inteso perseguire autonomamente condotte preparatorie rispetto a quelle di procacciamento o rivelazione di notizie segrete. L'art. 90 prevede, cioè, reati di mero sospetto o di pericolo presunto, ma considerata l'estrema rilevanza e delicatezza degli interessi da proteggere non sarebbe irrazionale che condotte solo sintomatiche di una presumibile lesione di tali interessi siano punite più severamente di quelle che effettivamente li ledano.

Considerato in diritto

1. - Le due ordinanze del Tribunale militare di Padova sottopongono all'esame della Corte questioni in parte identiche.

I relativi giudizi vengono quindi riuniti per essere decisi con una unica sentenza.

2. - La prima questione, comune ad entrambe le ordinanze, concerne l'articolo 7, terzo comma, della legge 13 aprile 1988, n. 117, in base al quale i componenti laici dei tribunali militari (nella qualità di "cittadini estranei alla magistratura, che concorrono a formare organi giudiziari collegiali") rispondono per i danni cagionati nell'esercizio delle loro funzioni, oltre che in caso di dolo, anche nei casi di colpa grave di cui all'art. 2, terzo comma, lettere b) e c) (affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza e incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento).

La norma viene impugnata in riferimento all'art. 3 della Costituzione perché, prevedendo la responsabilità del componente laico del tribunale militare anche a titolo di colpa grave, assimila lo stesso ai giudici esperti anziché ai giudici popolari, i quali rispondono soltanto a titolo di dolo. Si assume infatti che detto componente non integra il collegio in qualità di esperto di una determinata disciplina non giuridica, ma quale esponente della istituzione cui appartiene l'imputato.

Pur essendo una figura sui generis, esso presenterebbe analogie con la figura del giudice popolare, al quale dovrebbe essere assimilato quanto alla disciplina della responsabilità.

3. - La questione é infondata.

La norma impugnata limita la responsabilità dei giudici laici ad una parte soltanto delle ipotesi in cui viene riconosciuta quella dei giudici professionali. La limitazione e più ampia, circoscrivendo la responsabilità alle sole ipotesi di dolo, per i giudici conciliatori ed i giudici popolari; é più ridotta invece per i cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali, perché per costoro si può configurare anche una responsabilità a titolo di colpa nelle già ricordate ipotesi delle lettere b) e c) dell'articolo 2 della legge.

La Corte ha già statuito, con sentenza 19 gennaio 1989, n. 18, che le linee generali di questa disciplina risultano tali da non meritare censure di legittimità. Sebbene si possano prospettare anche scelte diverse da quelle adottate dal legislatore, come di fatto se ne sono prospettate nel corso del dibattito parlamentare, deve riconoscersi che non e privo di ragionevole giustificazione il prevedere una più circoscritta area di responsabilità per coloro che non hanno né i compiti, né la specifica professionalità, né lo status del giudice togato.

Allo stesso modo, e pur qui ammettendo entro certi limiti la possibilità di differenti scelte, non e privo di ragionevole giustificazione che all'interno del gruppo dei laici chiamati a partecipare all'amministrazione della giustizia venga distinta la posizione dei giudici esperti da quella dei giudici popolari e dei giudici conciliatori.

I giudici esperti sono infatti chiamati a comporre i collegi, non a titolo di generica partecipazione popolare, ma in ragione dell'apporto particolarmente qualificato che possono dare in giudizi nei quali si riconosce la presenza di aspetti tecnici così rilevanti da suggerire l'opportunità di creare organi specializzati. L'attitudine a prestare detto apporto trova fondamento in specifiche competenze, che risultano talvolta dal possesso di determinati requisiti culturali (esperti in psicologia, psichiatria, sociologia, pedagogia, per i tribunali per i minorenni, i tribunali di sorveglianza, le sezioni specializzate per le tossicodipendenze), talaltra dalla iscrizione in determinati albi (iscritti negli albi professionali dei dottori in scienze agrarie, dei periti agrari e dei geometri, per le sezioni specializzate agrarie), talaltra infine dalla appartenenza ad un determinato corpo professionale o ad una determinata amministrazione, appartenenza che lascia presumere una utile familiarità con le speciali problematiche dei rispettivi settori (giornalista e pubblicista integranti il tribunale e la corte d'appello che giudicano, in sede di impugnazione, delle delibere del Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti; funzionari del Genio civile integranti il tribunale regionale delle acque pubbliche).

In tutti questi collegi gli esperti, in ragione del possesso di particolari cognizioni derivanti dalla specifica formazione culturale e dalla esperienza acquisita, hanno il compito di integrare le conoscenze prevalentemente tecnico-giuridiche dei giudici professionali. Essi sono quindi chiamati a dare un apporto di grande importanza anche per quanto concerne l'esatta ricostruzione dei fatti sottoposti a giudizio, cosi per l'aspetto oggettivo come per quello soggettivo.

Se si ha riguardo al quadro generale della disciplina, non può certo ritenersi arbitrario che la posizione dell'ufficiale chiamato a far parte del tribunale sia stata assimilata, quanto alle ipotesi in cui lo stesso può incorrere nella responsabilità civile, alla posizione dei giudici esperti presenti nei diversi tipi di organi specializzati.

Significativi elementi possono trarsi dalle modalità di scelta di detto componente. Esso viene infatti estratto a sorte soltanto tra gli ufficiali che prestano servizio nella circoscrizione del tribunale militare, senza distinzione circa l'arma di appartenenza. E' da escludere, quindi, che possa parlarsi, come si fa nell'ordinanza di rimessione, di analogia con la figura del giudice popolare e comunque della caratterizzazione dell'ufficiale membro del collegio quale esponente della istituzione cui appartiene l'imputato. Al contrario, la scelta tra i soli ufficiali e indice dell'intenzione di assicurare al collegio l'apporto di persona dotata di un buon livello culturale e di quelle cognizioni più ampie e più complete che vengono dall'inserimento in compiti di maggiore responsabilità. A sua volta, l'indifferenza circa l'arma di appartenenza del prescelto rende evidente che il legislatore ha inteso valorizzare la conoscenza della vita militare nel suo ordinamento e nella sua organizzazione in termini generali e non già il sentimento ed il giudizio di coloro che in concreto condividono l'esperienza della più circoscritta unita territoriale in cui l'imputato si e trovato a prestare il proprio servizio.

Le particolarità della normativa inducono quindi a ritenere che l'ufficiale membro del collegio sia chiamato a dare un qualificato contributo inerente alla peculiarità della vita e dell'organizzazione militare: contributo consistente nell'aiutare il collegio a fondare le proprie valutazioni sulla piena conoscenza e la piena comprensione dei molteplici aspetti del concreto atteggiarsi di quel settore; delle condizioni che lo caratterizzano e dei problemi che vi si pongono. Aspetti tutti che non possono non riflettersi sulla ricostruzione e valutazione degli elementi oggettivi e soggettivi dei fatti-reato sottoposti al giudizio del tribunale, anche alla luce di quei valori tipici dell'ordinamento militare che già la Corte ha ritenuto tali da concorrere a giustificare l'esistenza della speciale giurisdizione (sentenza 22 luglio 1976, n. 192).

4. -La seconda questione, comune alle due ordinanze, concerne l'art. 2, comma secondo, della legge 7 maggio 1981, n. 180, nella parte in cui stabilisce che il tribunale militare si compone, oltre che di due magistrati militari, anche di un militare non magi strato. La norma sarebbe in contrasto con gli articoli 3, 101 e 108 della Costituzione, dato che non introduce alcuna deroga alla soggezione dell'ufficiale al potere gerarchico - disciplinare dei superiori.

Questa dipendenza - osserva ancora il giudice a quo -poteva, forse, considerarsi non influente sull'esercizio delle funzioni giudiziarie quando in nessun caso subiva eccezioni il principio della segretezza dei voti espressi in camera di consiglio. E' divenuta, per contro, gravemente condizionante nel contesto della normativa introdotta dalla legge n. 117 del 1988, anche perché i superiori gerarchici e l'autorità militare in genere sono titolari dell'azione disciplinare e giudici della responsabilità relativamente agli atti illeciti posti in essere nell'ambito delle deliberazioni collegiali del tribunale militare. Sarebbero quindi violati il principio della dipendenza del giudice soltanto dalla legge e le garanzie di indipendenza dello stesso (articoli 101, comma secondo, e 108, comma secondo, della Costituzione).

5.-Le preoccupazioni del giudice rimettente dovrebbero almeno in parte risultare ridimensionate alla luce di quanto deciso dalla Corte con la già menzionata sentenza n. 18 del 1989, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 16, primo e secondo comma, della legge 13 aprile 1988, n. 117, nella parte in cui non prevede la facoltatività della compilazione del processo verbale concernente la deliberazione dei provvedimenti collegiali.

E' infatti ragionevole prevedere che, per effetto di tale decisione, nella gran parte dei casi non si prenderà nota alcuna del voto dei singoli componenti del collegio. Inoltre, non in tutti i casi di redazione del processo verbale si giungerà al disvelamento della posizione assunta dai singoli, ma solo quando si agirà in sede di giudizio per l'accertamento della responsabilità civile.

Risulterà quindi in definitiva marginale quella possibilità di conoscere il voto dato dal componente militare, sulla quale principalmente si fondano i timori e le censure del giudice a quo.

Ma vi é di più. La responsabilità disciplinare può certamente perseguirsi senza le limitazioni previste dall'art. 2 della legge n. 117 del 1988 per la responsabilità civile (cfr. l'art. 9, comma terzo). La relativa azione va però promossa obbligatoriamente e solo

La subordinazione dell'azione disciplinare a quella di responsabilità, a sua volta, fa sì che per i fatti connessi all'esercizio di funzioni giudiziarie operi sempre il costituito dal giudizio di ammissibilità della domanda, regolato dall'art. 5 della legge n. 117 del 1988. Se si considera che competente a decidere é il tribunale ordinario e che tra i motivi di inammissibilità é inclusa la manifesta infondatezza della domanda, appare evidente che anche l'ufficiale chiamato a far parte del collegio militare fruisce di una efficace protezione contro il pericolo che in sede disciplinare si prendano contro di lui iniziative fondate, invece che su fatti seri rientranti nelle ben determinate ipotesi dell'art. 2, su arbitrarie valutazioni del titolare dell'azione in riferimento a decisioni dallo stesso non condivise.

Se a ciò che si é osservato si aggiunga che il componente militare viene, come si é visto, prescelto mediante estrazione a sorte e che egli permane nelle funzioni per soli due mesi, si ha il quadro complessivo di una normativa nell'ambito della quale il vincolo gerarchico, pur senza essere escluso espressamente, non ha alcuna possibilità di operare in modo lesivo dell'indipendenza del componente laico del tribunale militare.

6. - Con l'ordinanza registrata al n. 335 del 1988, il Tribunale militare di Padova solleva anche questione di legittimità costituzionale dell'art. 90 c.p.m.p., che punisce - primo comma, n. 4-il possesso ingiustificato di mezzi di spionaggio con la reclusione da cinque a dieci anni.

E' irrazionale - osserva il giudice a quo-che tale reato, sussistente solo quando non ricorre la finalità di spionaggio, venga punito più gravemente dei reati di procacciamento e di rivelazione, sempre non a scopo di spionaggio, previsti rispettivamente dagli articoli 89 e 91 dello stesso codice, comportanti una diretta lesione del bene giuridico tutelato, a confronto dei quali l'impugnato art. 90 contempla condotte meramente preparatorie. Sarebbero quindi violati gli artt. 3 e 97 della Costituzione.

7. - La questione é fondata.

La Corte ha più volte affermato, anche con specifico riguardo a norme contenute nel c.p.m.p., che le valutazioni relative alla proporzione tra la pena prevista ed il fatto contemplato rientrano nell'ambito del potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio può tuttavia essere censurato sotto il profilo della legittimità costituzionale nei casi in cui non sia stato rispettato il criterio di ragionevolezza, di modo che la sanzione comminata risulti irrazionale ed arbitraria (cfr. le sentenze 5 maggio 1979, n. 26; 8 maggio 1980, n. 72; 20 maggio 1982, n. 103).

Nel caso di specie, il giudizio di irrazionalità consegue al raffronto della norma impugnata con l'art. 89, che punisce con la reclusione da tre a dieci anni il procacciamento di notizie segrete, non a scopo di spionaggio, e con l'art. 91, che punisce con la reclusione non inferiore a cinque anni la rivelazione di notizie segrete, compiuta sempre non a scopo di spionaggio.

Bisogna infatti considerare che l'art. 89-bis, introdotto nel codice dall'art. 7 della legge 23 marzo 1956, n. 167, sanziona con pene più gravi condotte analoghe a quelle punite dall'impugnato art. 90, primo comma.

Differenzia le fattispecie (a parte l'estensione delle previsioni dell'art. 89 bis al militare in congedo illimitato, secondo quanto disposto dall'art. 1 della menzionata legge n. 167 del 1956, che ha sostituito l'art. 7 c.p.m.p.) la sussistenza o no dello scopo di spionaggio, espressamente richiesto per le fattispecie contemplate nell'art. 89 bis.

Pertanto, devono essere punite a norma dell'art. 90, primo comma, soltanto le condotte poste in essere senza finalità di spionaggio, esattamente come avviene per le fattispecie previste dall'art. 89 e dall'art. 91.

Così stando le cose, é del tutto arbitrario che il possesso ingiustificato di mezzi di spionaggio, previsto dall'art. 90, comma primo, n. 4, venga punito con la reclusione da cinque a dieci anni, mentre con la meno grave sanzione della reclusione da tre a dieci anni viene punito il procacciamento di notizie segrete, fatto che costituisce un comportamento più lesivo dei beni protetti dalle norme rispetto al mero possesso dei mezzi.

L'irrazionalità del trattamento sanzionatorio e confermata dal confronto con l'art. 91, il quale punisce il comportamento nettamente più grave del militare che rivela notizie segrete con una pena che e superiore nel massimo, ma ingiustificatamente uguale nel minimo a quella prevista dall'art. 90, primo comma.

Le riportate considerazioni trovano del resto conforto, come esattamente e rilevato nell'ordinanza del giudice a quo, nella proporzione che invece esiste tra le corrispondenti previsioni del codice penale e segnatamente tra l'art. 260 e l'art. 256. L'art. 260 punisce infatti con la reclusione da uno a cinque anni chi e colto nel possesso ingiustificato di documenti o di qualsiasi altra cosa atta a fornire le notizie indicate nell'art. 256, mentre l'art. 256, primo comma, punisce con la reclusione da tre a dieci anni chi si procura notizie che devono rimanere segrete e l'art. 256, terzo comma, con la reclusione da due a otto anni chi si procura notizie di cui l'Autorità competente ha vietato la divulgazione.

La declaratoria d'illegittimità dell'art. 90, primo comma, n. 4 c.p.m.p. non determina affatto la depenalizzazione delle fatti specie ivi contemplate.

Per colmare transitoriamente la lacuna, nell'attesa di un intervento razionalizzatore del legislatore, vale la norma penale comune di cui al ricordato art. 260, n. 3, del codice penale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 90, primo comma, n. 4, del codice penale militare di pace, nella parte in cui punisce i fatti previsti dal n. 4 dello stesso comma con la reclusione da cinque a dieci anni;

b) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, terzo comma, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), sol levata con le ordinanze in epigrafe in riferimento all’art . 3 della Costituzione;

c) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma secondo, n. 3, della legge 7 maggio 1981, n. 180 (Modifiche all'ordinamento giudiziario militare di pace), sollevata con le ordinanze in epigrafe in riferimento agli artt. 3, 101 e 108 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 09/02/89.

Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Renato DELL'ANDRO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI.

Depositata in cancelleria il 16/02/89.

Francesco SAJA, PRESIDENTE

Gabriele PESCATORE, REDATTORE