Sentenza n.115 del 1987

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 115

ANNO 1987

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

Prof. Antonio LA PERGOLA, Presidente

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Prof. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco P. CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

        ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 81 cod. pen. e dell'art. 90 cod. proc. pen., promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 26 novembre 1982 dal Tribunale di Lanusei nel procedimento penale a carico di Puddu Mario, iscritta al n. 230 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.198 dell'anno 1983;

2) ordinanza emessa il 13 gennaio 1984 dal Tribunale di Sondrio nel procedimento penale a carico di Agostini Celso, iscritta al n.1019 del registro ordinanze 1984 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34-bis dell'anno 1985;

3) ordinanza emessa il 28 settembre 1984 dal Tribunale di Lanusei nel procedimento penale a carico di Deidda Cesare, iscritta al n. 1219 del registro ordinanze 1984 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 71-bis dell'anno 1985;

4) ordinanza emessa il 6 marzo 1985 dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto da Ricci Quirino ed altri, iscritta al n. 364 del registro ordinanze 1986 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41 prima s.s. dell'anno 1986;

5) ordinanza emessa il 24 febbraio 1986 dal Pretore di Ferrara nel procedimento penale a carico di Patelli Gianfranco, iscritta al n. 418 del registro ordinanze 1986 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35 prima s.s. dell'anno 1986;

6) ordinanza emessa il 18 dicembre 1985 dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Miano Giuseppe ed altro, iscritta al n. 420 del registro ordinanze 1986 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35 prima s.s. dell'anno 1986;

7) Ordinanza emessa l'8 aprile 1986 dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Micci Andrea, iscritta al n. 421 del registro ord.1986 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35 prima s.s. dell'anno 1986;

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

Udito nell'udienza pubblica del 27 gennaio 1987 il Giudice relatore Ettore Gallo;

Udito l'Avvocato dello Stato Giorgio Azzariti per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Con due ordinanze di identico contenuto, emesse il 26 novembre 1982 ed il 28 settembre 1984, il Tribunale di Lanusei, illustratane la rilevanza, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 81 cpv. cod.pen. e 90 cod.proc.pen. nella parte in cui escludono la possibilità di effettuare il giudizio di continuazione tra reati meno gravi, in ordine ai quali vi sia stata condanna passata in giudicato, e reati più gravi per i quali sia ancora in corso il giudizio.

Rilevato che le norme denunziate impongono, da un lato, che l'aumento della pena debba essere operato su quella inflitta per il reato più grave e, dall'altro, sanciscono il principio dell'intangibilità del giudicato, il Tribunale lamenta le ingiustificate disparità di trattamento cui tale complesso normativo darebbe luogo. Infatti, mentre per chi sia giudicato prima per i reati più gravi, ovvero contemporaneamente per i reati più gravi e meno gravi, é possibile applicare un semplice aumento di pena, nel caso denunziato dovrebbe applicarsi il cumulo materiale delle pene, con violazione del principio d'eguaglianza.

Conclude il Tribunale affermando di non ignorare le ragioni che indussero il legislatore a sancire il principio dell'intangibilità del giudicato, ma ritiene che la possibilità di applicare la continuazione, nei casi come quello in esame, possa proporsi come eccezione a detto principio, limitatamente alla modificabilità della pena irrogata: e ciò in aderenza al diritto di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e al principio del favor rei.

2. - Analoga questione, ma in relazione al solo art. 81 c.p., sollevavano il Tribunale di Sondrio, la Corte di cassazione e il Pretore di Ferrara, con ordinanze emesse rispettivamente il 13 gennaio 1984, il 6 marzo 1985, il 24 febbraio 1986, nonché il Tribunale di Torino con due ordinanze emesse il 18 dicembre 1985 e l'8 aprile 1986.

In particolare la Corte di cassazione (alla cui motivazione si riferisce il Tribunale di Torino) rileva che, negando l'applicabilità dell'istituto della continuazione nell'ipotesi in esame, si verrebbero a trattare casi diversi come uguali. Il reato continuato verrebbe, infatti, sanzionato come il concorso materiale dei reati, perché si applicherebbe al primo quel cumulo materiale delle pene che é previsto solo per il secondo, nonostante fra continuazione e concorso materiale sussista una profonda differenza ontologica.

Per converso verrebbero trattate situazioni uguali come diverse, assoggettando al c.d. "cumulo giuridico" delle pene l'autore di violazioni, compiute, in continuazione oggetto di uno stesso procedimento, e viceversa al cumulo materiale l'autore di violazioni continuate, formanti oggetto di procedimenti distinti.

Alle denunziate disparità di trattamento, la Corte (e così pure il Tribunale di Torino) aggiunge un'ulteriore censura ex art. 25 Cost.

Secondo i giudici rimettenti, infatti, la violazione del principio di legalità deriverebbe dalla circostanza che, nell'ambito di più violazioni collegate dal vincolo della continuazione, verrebbero inflitte pene distinte come conseguenza, non di un preciso ed univoco disposto di legge sulla inapplicabilità dell'istituto della continuazione in specifiche situazioni di fatto, bensì di un casuale rapporto fra due o più procedimenti penali aventi per oggetto violazioni pur sempre riconducibili al medesimo disegno criminoso. Né varrebbe obbiettare che la fonte della inapplicabilità della continuazione in tale ipotesi si rinviene pur sempre in una norma di legge, ricavata per via di interpretazione ex art. 90 c.p.p., giacché quel che difetta é l'attitudine di tale normativa ad essere applicata in via astratta e generale, dipendendo il trattamento penalistico meno favorevole al reo solo da vicende occasionali.

3. - Il Tribunale di Sondrio e il Pretore di Ferrara, pure, infine, limitano la loro eccezione all'art. 81 secondo co. cod.pen. adottando sostanzialmente la prima parte della riportata motivazione della Corte di cassazione, in riferimento all'art. 3 Cost.

4. - Le ordinanze sono state regolarmente notificate, comunicate e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale. Dinanzi alla Corte costituzionale é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato.

Con riferimento alle ordinanze che hanno denunziato il solo art. 81 cpv. cod. pen., l'Avvocatura chiede che la questione venga dichiarata inammissibile, per essere stato denunziato un articolo del codice penale che non contiene la norma sospettata di illegittimità costituzionale. Infatti la Corte di cassazione avrebbe chiarito che l'ostacolo all'applicazione della disciplina del reato continuato, quando il reato già giudicato costituisce violazione meno grave di quello oggetto del giudizio in corso, é costituito dal principio dell'intangibilità della cosa giudicata.

In ogni caso, la questione non sarebbe nel caso in esame fondata poiché l'inapplicabilità della continuazione costituirebbe manifestazione del principio di non modificabilità del giudicato che, ponendosi come fondamentale nell'ordinamento, sarebbe alla base dell'ultimo comma dell'art.24 e del secondo comma dell'art.27 Cost.

L'intervenuto giudicato sul reato meno grave, perciò, diversificando le posizioni poste a confronto dai giudici denunzianti, giustificherebbe la ritenuta diversità di trattamento.

Rileva infine l'Avvocatura che le ordinanze di rimessione postulano un intervento additivo della Corte costituzionale in materia rimessa alla discrezionalità del legislatore; non viene, però, formulata in proposito una ulteriore eccezione di inammissibilità.

Considerato in diritto

1. - Tutte le ordinanze prospettano la stessa questione di legittimità costituzionale dell'art. 81 secondo comma cod. pen., benché talune investano anche l'art. 90 cod. proc. pen., e tutte la riferiscono all'art. 3 Cost., salvo la Corte di cassazione che estende il riferimento anche all'art. 25 Cost.

La questione sollevata é, perciò, sostanzialmente unica, e i procedimenti possono, quindi, essere riuniti per essere decisi con la stessa sentenza.

2. - Preliminarmente va dichiarata l'inammissibilità della questione sollevata dalle due ordinanze 18 dicembre 1985 n. 420/1986 e 8 aprile 1986 n. 421/1986 del Tribunale di Torino, nonché dell'ordinanza 24 febbraio 1986 n. 418/1986 del Pretore di Ferrara. Le prime due per difetto di motivazione sia in ordine alla non manifesta infondatezza che alla rilevanza. La terza per carenza di motivazione sulla rilevanza.

Il Tribunale di Torino, infatti, quanto alla non manifesta infondatezza, si limita a riferirsi alla motivazione della sentenza della Corte di cassazione, che peraltro nemmeno riporta. É costante giurisprudenza di questa Corte che la motivazione deve risultare dall'ordinanza, non essendo consentita una motivazione per relationem. Quanto poi alla rilevanza, va osservato che le ordinanze in nessun punto avvertono se il giudice effettivamente ravvisi la sussistenza dell'unicità del disegno criminoso fra le violazioni oggetto del giudizio in corso e quelle oggetto del giudicato. In guisa che il quesito appare posto astrattamente, in vista di un eventuale riconoscimento del vincolo della continuazione.

Per quanto concerne, poi, l'ordinanza del Pretore di Ferrara, va rilevato che non é possibile conoscere dall'ordinanza il reato per cui é sorta l'attuale imputazione, né quello oggetto del precedente giudicato. Peraltro anche il Pretore é silente in ordine al momento decisivo sulla rilevanza della proposta questione, giacché non dice se ritenga effettivamente sussistente nella specie l'unicità del disegno criminoso fra l'episodio oggetto del processo in corso e quello precedentemente giudicato. Condizione essenziale questa per l'applicabilità di quell'istituto della continuazione che giustifica la rilevanza della proposta questione.

3. - Non sembra potersi dubitare che le situazioni prospettate dalle ordinanze di rimessione contemplino effettivamente ipotesi di disparità di trattamento.

L'art. 81, secondo co., cod. pen., infatti, prevede un particolare trattamento sanzionatorio per colui che, con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette, anche in tempi diversi, più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge. Il codice non fa distinzioni, né pone altre condizioni se non quella concernente l'unicità del disegno criminoso di cui le singole violazioni si pongono come attuative. Si ritenga poi questa del reato continuato una nuova ed unitaria figura, oppure una speciale fattispecie complessa, é questione dogmatica che, comunque, non tocca il principio affermato nel secondo comma dell'art.81: secondo il quale, verificandosi la detta situazione, spetta all'imputato il particolare trattamento sanzionatorio previsto nella prima parte dell'articolo. D'altra parte, deve rilevarsi che, dopo la riforma del 1974, essendosi introdotta una nozione eterogenea di reato continuato, il problema dell'unità o della pluralità di reati o, meglio, dell'unità reale o fittizia dei reati, non conserva più importanza, visto che nella realtà esistono più reati ontologicamente distinti che vengono unificati ai fini sanzionatori. Ciò che rileva, dunque, ai fini dell'unificazione é soltanto l'esistenza del requisito soggettivo rappresentato dall'unicità del disegno criminoso, che non s'identifica assolutamente con il dolo (che é, anzi, diverso per ciascun reato), ma bensì con l'ideazione complessiva, con il piano criminoso generale, di cui ciascun reato é un momento attuativo. Che poi talvolta i vari reati, uniti dalla continuazione, possano essere dalla legge considerati separabili, ciò dipende proprio dalla natura stessa della continuazione che trova la sua giustificazione nella indulgentiae causa: ogniqualvolta l'unificazione sia per risolversi a danno dell'imputato, é lecito operare la scissione, parziale o totale, a seconda che lo richieda il favor rei.

Tutto questo si é ricordato per rendere evidente quanto l'istituto sia fermamente radicato nell'ordinamento, sempre più orientato ad ovviare in ogni modo alle eccessività sanzionatorie derivanti dal concorso materiale di reati, specie nei confronti di un codice noto per il sostenuto rigore delle pene. Al punto da non sembrare azzardato il collegamento che l'ordinanza della Cassazione instaura con il principio di cui al secondo comma dell'art. 25 Cost., dato che la pena che la legge prevede per il reato continuato non può essere che quella predeterminata dal legislatore nell'art. 81, secondo co., cod.pen. Applicare una pena di misura diversa e con criteri diversi da quelli contemplati dalla legge non può, infatti, essere ritenuto conforme al principio di legalità. Mentre - come correttamente notano le ordinanze di rimessione - quando talune delle violazioni attuative dell'unico disegno criminoso sono già state oggetto di precedente giudicato, ed altre in ulteriore continuazione vengano successivamente all'esame del giudice, l'applicazione di pene distinte viene a vanificare la volontà del legislatore, e non perché l'ipotesi sia prevista da specifica eccezione normativa, ma soltanto perché le diverse violazioni si sono occasionalmente presentate all'esame dei giudici in tempi diversi.

Ora, se si considera che é proprio il legislatore stesso ad avere previsto che la comminazione delle più violazioni avvenga "anche in tempi diversi", senza che per questo resti alterata la sostanza della fattispecie di reato continuato: ed, anzi, se si ritiene che proprio questo é l'elemento che oggi diversifica (oltre all'eventuale eterogeneità) il reato continuato dal concorso formale di reati, si deve convenire che appare quanto meno incoerente con tali premesse che una situazione processuale (giudizio in tempi diversi), ordinariamente corrispondente appunto a quella diversa commissione temporale dei fatti di reato, impedisca l'applicazione della pena nei sensi prescritti dalla legge.

Ipotesi queste, fra l'altro, piuttosto frequenti attualmente, attese le leggi che impongono il giudizio direttissimo per taluni reati meno gravi, sicuramente collegati da vincolo di continuazione con quelli più gravi di lunga indagine, spesso inseriti in processi di annosa durata.

Per quante escogitazioni la giurisprudenza abbia messo in atto per ovviare a tali inconvenienti, sta di fatto che siffatte situazioni si verificano ormai di consueto: al limite persino perché, nei processi contumaciali, i giudici delle varie violazioni non ne hanno reciproca notizia. Talché non può dubitarsi che l'applicazione o meno della continuazione dipenda da situazioni del tutto occasionali.

4. - A siffatte considerazioni viene, però, obbiettato che, in realtà, esiste una norma di legge, sia pure processuale, che rappresenta l'ostacolo normativo all'applicazione dell'istituto quando su talune violazioni sia caduto il giudicato: ognuno ha inteso che ci riferiamo all'art. 90 cod. proc. pen. Non sarebbe, perciò, inibita di per sé, in via astratta e teorica, l'unificazione delle varie violazioni, secondo il dettato della legge. Ma lo sarebbe di fatto per l'interferire di una ragione diversa: la forza e l'intangibilità del giudicato, frattanto sopravvenuto a congelare alcune violazioni fuori della possibilità di entrare nei criteri sanzionatori dell'art. 81, secondo co. cod.pen.

La giurisprudenza, però, già dalla fine degli anni '60, superate precedenti resistenze, nell'intento di non lasciare inapplicato un principio ispirato al favor rei, ha operato delle distinzioni. É ormai pacifico, infatti, per concorde e consolidato giudizio della magistratura ordinaria, sia di merito che di legittimità, che il giudicato stesso non rappresenta un ostacolo a ricostituire l'unità della continuazione quando la violazione più grave si trovi fra quelle che furono oggetto del giudicato. In tal caso, il giudice del procedimento in corso deve soltanto stabilire l'ulteriore aumento da applicare alla pena già inflitta per la violazione più grave (ed altre eventuali). Non vi sarebbe, perciò, alcuna violazione del giudicato, che resta fermo, mentre sarebbe il giudice del processo in corso a valutare le violazioni sottoposte al suo giudizio, identificandole come espressioni di un unico disegno criminoso che le unisce a quella (o quelle) che furono alla base del giudicato: e la pena che va ad aggiungersi alla precedente non tocca quest'ultima.

A questo punto, però, si ferma lo sforzo giurisprudenziale, almeno nella sua prevalente maggioranza. Infatti, quando si tratta di estendere il ragionamento anche all'ipotesi opposta, si obbietta che, se la violazione più grave é nel processo in corso, non é più possibile avvalersi delle precedenti argomentazioni perché il giudicato, a causa della relazione che si stabilisce fra le violazioni precedenti e la pena inflitta, copre sia l'affermazione che fra quelle é la violazione più grave (o comunque la valutazione di gravità dell'eventuale unica violazione), sia la pena calcolata sulla base di quella maggiore gravità. Talché, se il giudice del nuovo processo ravvisa, invece, la gravità maggiore in una delle violazioni fra quelle sottoposte al suo giudizio, ritenute continuative dello stesso disegno criminoso, non potrebbe in alcun modo procedere all'unificazione di queste alle precedenti. Infatti, non potendosi ormai demolire il giudicato, si finirebbe per avere sul piano sostanziale, un reato continuato con due violazioni ambo ritenute le più gravi e, sul piano dell'applicazione della pena, due nuclei inconciliabili, ciascuno dei quali postula rispetto all'altro il ruolo di base attrattiva.

Ma, se così é, non senza ragione trovano le ordinanze di rimessione che il trattamento gravemente differenziato si acuisce ancor più (e, per la Cassazione, anche la violazione del principio di legalità), giacché l'applicazione o la negazione della pena, prevista ex lege per il reato continuato, viene così a dipendere da una doppia fatalità: che le singole violazioni si trovino in due processi distinti, di cui l'uno concluso con il giudicato, e che la violazione più grave si trovi o non in quest'ultimo.

Si chiede, perciò, a questa Corte di eliminare l'illegittimità costituzionale dipendente dalla sperequazione esistente fra situazioni eguali (più violazioni unite dal vincolo della continuazione), e dalla violazione del principio di legalità che così si determina impedendosi l'applicazione della pena che il legislatore prescrive.

5. - Ma questa Corte non potrebbe in altro modo eliminare la prospettata illegittimità se non intervenendo, sull'una o sull'altra norma, mediante una decisione che evidentemente dovrebbe essere "additiva". Sennonché, a prescindere da tale problema, la difficoltà che, comunque, non sembra superabile é altra.

Si é detto "sull'una o sull'altra norma" perché, in realtà, s'é visto che, mentre il Tribunale di Lanusei ha investito della denunzia d'illegittimità tanto l'art. 81, secondo co., cod.pen. quanto l'art. 90 cod. proc. pen., le altre ordinanze hanno limitato l'impugnazione al solo articolo del codice penale sostanziale. Orbene, se questo non sembra comportare l'inammissibilità che l'Avvocatura dello Stato sostiene per tutte le questioni sollevate esclusivamente in ordine all'art. 81, secondo co., cod.pen. (per le ragioni che fra poco vedremo), resta vero, però, che l'esplicita denunzia del tribunale di Lanusei, ma anche le argomentazioni delle altre ordinanze che pure s'appuntano sull'art. 90 cod. proc. pen., mettono in evidenza una non contestabile alternativa che si pone come insuperabile sbarramento alla risoluzione della situazione attraverso il giudizio di legittimità costituzionale.

Non esiste, infatti, un'unica soluzione costituzionalmente obbligata che la Corte possa indicare, ma una ampia alternativa, peraltro collegata ad altre ipotesi sub-alternative.

L'alternativa sarebbe quella ormai evidente fra la possibilità d'intervenire sulla norma stessa di diritto sostantivo (art. 81, secondo co., cod. pen.) per dichiararne l'illegittimità nella parte in cui non consente l'applicazione del principio anche alle ipotesi in cui talune delle violazioni sia coperta dal giudicato, sia o non la più grave: e la possibilità di regolare, invece, la disuguaglianza nella fase esecutiva, attraverso norme di diritto processuale, della specie di quelle previste nell'art. 579 cod. proc. pen. o negli art.li 78 e 80 cod. pen.

Possibilità alternativa che - come si accennava - si riverbera poi nei modi di attuazione della prima, così come dimostrano le varie formule escogitate dalle magistrature che hanno ritenuto di poter superare le difficoltà sul piano interpretativo. Ma che, del resto, lambisce anche la seconda alternativa, ove si consideri che già il Progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale, redatto dalla Commissione Ministeriale nominata con d.m. 18 settembre 1974 sulla base della legge-delega 3 aprile 1974 n. 108, prevedeva all'art. 632 la possibilità, per il condannato con più sentenze irrevocabili, di chiedere al giudice dell'esecuzione l'applicazione del secondo co. dell'art. 81 cod. pen.: giudice cui quell'articolo attribuiva le più ampie facoltà di riduzione della pena e persino di concessione dei cosidetti benefici di legge.

Mentre la nuova legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81 pur prevedendo al punto 97 (a differenza della precedente) la "possibilità di valutare anche in fase di esecuzione il concorso formale di reati e la continuazione" non sembra, tuttavia, concedere gli stessi poteri al giudice dell'esecuzione, salvo le concrete previsioni che riterrà di formulare il legislatore delegato. D'altra parte, poi, l'espressione "anche" presuppone la possibilità che uguali poteri appartengano al giudice di cognizione, come confermerebbe la limitazione espressa con le parole "sempre che non siano stati precedentemente esclusi nel giudizio di cognizione".

Orbene, a fronte di tante alternative, la costante giurisprudenza di questa Corte ha precisato che "una decisione additiva é consentita, com'é jus receptum, soltanto quando la soluzione adeguatrice non debba essere frutto di una valutazione discrezionale, ma consegua necessariamente al giudizio di legittimità, sì che la Corte in realtà proceda ad un'estensione logicamente necessitata, e implicita nella possibilità interpetrativa del contesto normativo in cui é inserita la disposizione impugnata. Quando, invece, si profili una pluralità di soluzioni, derivanti da varie possibili valutazioni, l'intervento della Corte non é ammissibile, spettando la relativa scelta unicamente al legislatore" (indirizzo espresso con sent. n. 109/1986

, più volte confermato nello stesso anno, dalle sent. nn. 33, 37, 39 nonché 168, 211, 237 e 270; si veda anche la n. 350/1985).

Non é lecito, perciò, alla Corte, nonostante l'evidente disuguaglianza conseguente alla denunziata situazione, intervenire con una dichiarazione d'illegittimità costituzionale.

Il fin qui detto, però, esclude anche che si possa accogliere l'eccezione di inammissibilità avanzata dall'Avvocatura generale, come più sopra accennato. Sia perché - come si é detto - ove un intervento della Corte fosse stato possibile, esso ben poteva teoricamente anche incidere sullo stesso art. 81 cod. pen., sia perché, comunque, come pure si é rilevato, tutte le ordinanze hanno fatto in motivazione continuo riferimento all'ostacolo rappresentato dall'art. 90 cod. proc. pen.: che il tribunale di Lanusei ha peraltro esplicitamente investito.

6. - Tutto questo, ad ogni modo, lungi dall'escludere che il giudice ordinario possa frattanto trovare una soluzione sul piano interpetrativo, sembra anzi confortarne la compatibilità costituzionale.

Come di recente é stato autorevolmente indicato dalle sezioni unite penali della Corte di cassazione, ma anche da qualche giudicatura di merito (tribunale di Milano in più sentenze, Pretore di Milano, Pretore di Sondrio ed altre), e come, del resto é sostenuto anche da parte autorevole della dottrina, il principio dell'intangibilità del giudicato dev'essere rettamente inteso. Risulta chiaramente, infatti, dallo stesso art. 90 cod. proc. pen. che la disposizione é tendenzialmente a favore dell'imputato, che nella norma trova rigorosa tutela da ogni possibilità di essere sottoposto a nuovo giudizio per lo stesso fatto. Ora, ogniqualvolta si consenta, invece, qualunque ne sia la ragione, che il giudicato impedisca di applicare l'istituto della continuazione all'intero sviluppo esecutivo dell'unico disegno criminoso, si viola proprio l'art. 90 cod. proc. pen. in quanto in realtà si consente che, per lo stesso fatto di reato continuato, il giudicabile venga sottoposto a due distinti giudizi con relativo cumulo delle pene, mentre il legislatore prescrive che si determini una pena unica mediante un'unica complessiva valutazione.

Ed é proprio l'ordinamento stesso che é tutto decisamente orientato a non tenere conto del giudicato, e quindi a non mitizzarne l'intangibilità, ogniqualvolta dal giudicato resterebbe sacrificato il buon diritto del cittadino. La citata sentenza delle sezioni unite ha reso manifesto tale orientamento indicando l'art. 579 cod. proc. pen. (che riguarda proprio l'ipotesi di violazione dell'art. 90 cod. proc. pen.) e gli art.li 78 e 80 cod. pen.

Rispetto a questi ultimi articoli, anzi, va aggiunto che la riforma del 1974 ne ha portato il richiamo proprio nel testo dell'art. 81 cod. pen. L'ultimo comma, infatti, oggi recita "nei casi preveduti da questo articolo, la pena non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti": fra i quali evidentemente sono ricompresi gli art.li 78-80 cod. pen. Ciò significa che, almeno agli effetti sanzionatori, dovendosi eseguire più sentenze contro la stessa persona, se risulta che, pur applicando l'istituto della continuazione ("casi preveduti dall'art. 81 cod. pen."), sono stati superati i limiti previsti nell'art. 78 cod. pen., la pena - nonostante il giudicato - va ridotta dentro i limiti. E altrettanto deve fare il giudice che sta giudicando la stessa persona (dopo che questa é già stata condannata) per un altro reato commesso anteriormente o posteriormente alla condanna. Dunque, del giudicato il legislatore mostra di non voler tener conto quando si superino con la pena complessiva i limiti di legge. Ma anche il modo di determinare la pena complessiva previsto nel secondo comma dell'art. 81 cod. pen. rappresenta un limite al cumulo materiale delle pene.

Orientamento che - come s'é visto - si va accentuando con le tendenze attuali; considerato che, come già l'art. 632 del Progetto preliminare redatto sulla base della precedente legge-delega, l'attuale per la riforma del rito penale prevede espressamente che l'operazione di adeguamento della pena al principio fondamentale della continuazione possa essere affidata persino al giudice dell'esecuzione. Il quale, a differenza del giudice di cognizione del secondo processo, deve agire sulla base documentale di sentenze tutte passate in giudicato: e tuttavia si ammette che egli possa compiere valutazioni che i giudici della cognizione non avevano fatto o non erano stati in grado di fare.

D'altra parte, o si ritiene che il giudice del processo in corso si limiti a valutare la situazione sottoposta al suo giudizio, collegandola al precedente giudicato solo agli effetti sanzionatori oppure, se si insiste nell'affermare che una qualche valutazione del precedente giudicato esiste sempre, fosse pure ai limitati effetti di riconoscere l'unicità del disegno criminoso delle precedenti con le susseguenti violazioni, allora bisogna anche ammettere che tutto questo é già consentito dalla concorde giurisprudenza che, pur contestando l'operazione di cui qui si va parlando, non ha difficoltà a dichiararla lecita quando il giudicato copre la violazione più grave. Infatti, la valutazione dell'unicità del disegno criminoso tra le plurime violazioni non é certo subordinata alla sede della violazione più grave, ma riguarda l'unicità del programma, dovunque poi sia per essere ravvisata la presenza della violazione più grave.

Né ha pregio il rilievo - contenuto in qualche ordinanza di manifesta infondatezza da parte dei giudici ordinari - secondo cui "l'esclusione della continuazione (nelle ipotesi di cui si va parlando) non comporta violazione del principio di uguaglianza, ma rientra nella logica del sistema per il quale a situazioni diverse corrispondono trattamenti differenziati". La massima, infatti, che più volte questa Corte ha affermato, si riferisce evidentemente a diversità delle situazioni giuridiche, non certo a quella di situazioni di fatto, e per giunta occasionali, come quelle che qui vengono in esame.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 81, secondo co., cod. pen. sollevata dal Tribunale di Torino, in riferimento agli art.li 3 e 25 Cost., con le ordinanze 18 dicembre 1985 (n. 420/1986) e 8 aprile 1986 (n. 421/1986); nonché dal Pretore di Ferrara, in riferimento al solo art. 3 Cost., con ord. 24 febbraio 1986 (n. 418/1986);

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale degli art.li 81, secondo co. cod. pen. e 90 cod. proc. pen. sollevata dal Tribunale di Lanusei, in riferimento all'art. 3 Cost., con ord. 26 novembre 1982 (n. 230/1983); dal tribunale di Sondrio, nei confronti del solo art. 81, secondo co., cod. pen., con ord. 13 gennaio 1984 (n. 1019/1984) in riferimento all'art. 3 Cost.; dalla Corte di Cassazione, con ord. 6 marzo 1985 (n. 364/1986), sempre nei confronti del solo art. 81, secondo co., cod. pen. e con riferimento agli artt. 3 e 25 Cost.

Così deciso in Roma, in udienza pubblica, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 27 marzo 1987.

 

Il Presidente: LA PERGOLA

Il Redattore: GALLO

Depositata in cancelleria il 9 aprile 1987.

Il direttore della cancelleria: VITALE