Sentenza n. 170 del 1986

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SENTENZA N. 170

ANNO 1986

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Prof. Antonio LAPERGOLA, Presidente

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 10, secondo comma, ultimo periodo, del r.d. 7 febbraio 1926 n. 426 (Disposizioni transitorie e di attuazione della l. 11 giugno 1925 n. 998 per la riforma delle vigenti disposizioni sulla affrancazione dei canoni, censi ed altre prestazioni perpetue), promosso con ordinanza emessa il 25 febbraio 1982 dal Tribunale regionale delle acque pubbliche presso la Corte d'appello di Roma nel procedimento civile vertente tra ENEL (Ente nazionale per l'energia elettrica) e Gentilozzi Franco ed altri, iscritta al n. 770 del registro ordinanze 1982 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 324 dell'anno 1982.

Visto l'atto di costituzione dell'ENEL nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 20 maggio 1986 il Giudice relatore Francesco Saja;

uditi l'avv. Ernesto Conte per l'ENEL e l'Avvocato dello Stato Benedetto Baccari per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Con ricorso del 18 luglio 1980 diretto al Tribunale regionale delle acque pubbliche presso la Corte d'appello di Roma l'Ente nazionale per l'energia elettrica esponeva che Gentilozzi Franco ed altri erano succeduti in un contratto, stipulato nell'anno 1909, da cui essi asserivano essere derivato a loro favore, in corrispettivo del trasferimento della proprietà di un immobile, un diritto perpetuo alla fornitura di un determinato quantitativo annuo di energia elettrica. Debitrice originaria era l'impresa Celso Grifi e c., alla quale erano succeduti prima l'Unione esercizi elettrici (Unes) e poi lo stesso Enel. Tanto premesso, il ricorrente chiedeva in via principale che il detto contratto fosse dichiarato nullo, sia perché contrario ai principi generali sulle concessioni di beni demaniali, sia perché con oggetto giuridicamente impossibile; in subordine chiedeva che ne fosse dichiarata l'inefficacia per impossibilità sopravvenuta e, in ulteriore subordine, che fosse disposto il riscatto della predetta prestazione ai sensi degli artt. 1865 e 1866 cod. civ.

I convenuti, costituitisi, eccepivano tra l'altro che la domanda di riscatto doveva ritenersi improponibile per omesso deposito del prezzo di affrancazione di cui all'art. 10 r.d. 7 febbraio 1926 n. 426.

Con ordinanza del 25 febbraio 1982 (reg. ord. n. 770 del 1982) il Tribunale, ritenuto di non poter accogliere le domande proposte in via principale, sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 cit., secondo comma, ultimo periodo, ossia della parte in cui era disposto che, nelle cause di affrancazione dei canoni, censi ed altre prestazioni perpetue, il mancato deposito del prezzo suddetto rende improponibile la domanda.

Osservava in proposito il collegio che la norma impugnata sembrava in contrasto coi principi di eguaglianza e di difesa in giudizio, in quanto impositiva di un ostacolo processuale non giustificato da motivi di interesse pubblico e di funzionalità del processo stesso.

2. - La Presidenza del Consiglio dei ministri, intervenuta, eccepiva che la norma impugnata doveva ritenersi legittima, in quanto intesa a permettere l'esercizio del diritto di affrancazione solo a chi fosse in grado di sostenere effettivamente il relativo peso economico; la norma era quindi, in definitiva, giustificata da motivi di serietà processuale.

3. - L'Enel si costituiva e chiedeva preliminarmente che la questione fosse dichiarata inammissibile per insufficiente motivazione sulla sua rilevanza nel giudizio a quo, giacché il riscatto della rendita perpetua era stato chiesto soltanto in via "subordinatissima".

Nel merito, l'Ente riteneva che la questione fosse fondata. Infatti nel sistema civilistico si trovavano ipotesi di subordinazione di pronunce costitutive al pagamento di una controprestazione in denaro, ma tale pagamento costituiva tutt'al più condizione di accoglimento della domanda e non presupposto processuale: da ciò conseguiva la disparità di trattamento tra questi casi e quello di specie, in cui il diritto di difesa in giudizio appariva ingiustificatamente sacrificato.

Le dette considerazioni venivano ulteriormente svolte dall'Ente in una memoria depositata in prossimità dell'udienza.

Considerato in diritto

1. - Con l'ordinanza in epigrafe il Tribunale regionale delle acque pubbliche presso la Corte d'appello di Roma ha denunciato, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 113 Cost., la disposizione dell'art. 10 r.d. 7 febbraio 1926 n. 426. nella parte in cui subordina la proponibilità della domanda di affrancazione di prestazioni perpetue al preventivo deposito del prezzo. Rilevato che l'imposizione di determinati oneri, i quali condizionano la tutela giurisdizionale, deve considerarsi legittima soltanto se ricorrono valide ragioni giustificative, il giudice a quo ritiene che nell'ipotesi suddetta mancherebbe ogni fondamento razionale, con la conseguente violazione dei parametri costituzionali indicati.

2. - La Corte osserva preliminarmente che deve escludersi la natura regolamentare del cit. r.d. 7 febbraio 1926 n. 426, trattandosi per contro di un decreto delegato, il quale come tale ha forza di legge e rientra quindi nella previsione dell'art. 134, primo comma, Cost. Per vero, esso venne emanato in base all'art. 20 l. 11 giugno 1925 n. 998 (contenente la conversione in legge del r.d. l. 15 luglio 1923 n. 1717, per la riforma delle disposizioni sulla affrancazione dei canoni, censi ed altre prestazioni perpetue) che autorizzò il Governo ad emanare "le disposizioni transitorie ed ogni altra disposizione occorrente per l'attuazione della (suddetta) legge nonché a coordinare la medesima con le altre leggi vigenti." Il provvedimento risulta quindi diretto a dettare il regime transitorio dalla precedente alla successiva disciplina nonché ad operare il necessario coordinamento delle norme che regolano la materia e tale funzione non può essere svolta se non da disposizioni aventi, nella gerarchia delle fonti, natura pari a quella delle norme medesime. Il che, peraltro, trova conferma negli elementi esteriori e nell'assenza dei requisiti procedimentali dei provvedimenti regolamentari, quale il parere del Consiglio di Stato.

3. - L'Enel ha eccepito l'inammissibilità della proposta questione per difetto di motivazione sulla rilevanza, in quanto la domanda di affrancazione era stata proposta solo subordinatamente e pertanto il giudice a quo avrebbe prima dovuto esaminare le domande formulate in via principale (nullità originaria o sopravvenuta inefficacia della convenzione dedotta in giudizio). Senonché il detto giudice ha preso in considerazione le indicate istanze principali, rilevando espressamente nell'ordinanza di rimessione che esse non potevano trovare accoglimento e proprio perciò ha proceduto all'esame della domanda di affrancazione, sollevando la questione di costituzionalità di cui si tratta: pertanto é evidente l'insussistenza dell'eccepito difetto di motivazione sulla rilevanza.

4. - Nel merito rileva la Corte che, in tema di oneri collegati alla pretesa dedotta in giudizio, debbono, tra le varie fattispecie normative, ritenersi conformi ai principi costituzionali quelle dirette ad assicurare uno svolgimento del processo aderente alla sua effettiva funzione, e quindi a prevenire inammissibili eccessi nell'esercizio del diritto di azione nonché a stimolare il senso di responsabilità della parte. Invero il diritto alla tutela giurisdizionale non può essere concepito in maniera così assoluta e illimitata da escludere la legittimità costituzionale di rimedi intesi ad evitare uno sviamento della funzione propria del processo attraverso la proposizione di domande palesemente infondate o meramente pretestuose. Alle norme ora indicate si contrappongono quelle a cui non può riconoscersi la medesima finalità perché prevedono delle limitazioni alla tutela giurisdizionale prive di concreta e obbiettiva giustificazione nell'ambito del processo, con l'intuitiva conseguenza che queste ultime non possono ritenersi costituzionalmente legittime.

In tali sensi si é già orientata la Corte, la quale ha osservato che alla medesima conclusione deve altresì pervenirsi, trattandosi in realtà di analoga censura, in riferimento ai parametri degli artt. 3 e 113 Cost., invocati anche in questo giudizio, (sentt. n. 80 del 1966; n. 157 del 1969).

Nel caso in esame, il prescritto deposito é senza dubbio preordinato ad assicurare preventivamente la serietà della domanda, in modo da escludere l'eventualità che l'attore, una volta definito favorevolmente il giudizio, possa non adempiere la propria obbligazione, mettendo di fatto nel nulla sia l'attività processuale espletata dalle parti sia i provvedimenti del giudice. Il deposito concerne infatti la somma dovuta al creditore dall'onerato quale corrispettivo della richiesta affrancazione, somma dall'onerato stesso determinata secondo un criterio di adeguatezza, salvo l'eventuale provvedimento giudiziale di integrazione, che peraltro nella specie non vi é stato, essendo mancato del tutto il versamento preventivo.

Non é possibile quindi considerare il deposito in questione quale ostacolo alla tutela giurisdizionale, costituendo esso, per contro, lo strumento diretto a far sì che all'affrancazione corrisponda realmente e indefettibilmente il pagamento del prezzo, onde non sia alterato il sinallagma del rapporto giuridico esistente tra le parti. E può aggiungersi che la ratio della norma in questione vale non solo tra le parti, ma anche nei confronti dei terzi, rispetto ai quali l'effetto sostanziale della sentenza si verifica dal momento dell'annotazione della medesima, proprio sul presupposto della sua efficacia immediata, collegata al previo deposito del prezzo (cfr. art. 15, terzo comma, cit. l. 11 giugno 1925 n. 998). L'Enel ha dedotto che la violazione dei sopra indicati precetti costituzionali sussisterebbe non tanto perché il legislatore ha disposto il preventivo deposito, quanto per il motivo che l'ha configurato, secondo il costante orientamento della Corte di cassazione, come presupposto processuale e non quale condizione dell'azione. A tale deduzione la parte é indotta poiché, com'é noto, i presupposti processuali debbono sussistere nel momento della proposizione della domanda, mentre le condizioni dell'azione costituiscono requisiti per il suo accoglimento e quindi possono sopravvenire fino alla pronuncia giudiziale di merito: sicché, se l'onere de quo potesse rientrare in questa seconda categoria, il lamentato ostacolo all'attività processuale sarebbe meno grave (e, nel caso di specie, l'attore potrebbe ancora adempiervi, trovandosi il giudizio principale nella fase istruttoria). Ma neppure sotto il profilo ora indicato la questione può trovare accoglimento. Invero, una volta stabilito che l'onere é stato correttamente imposto dalla legge, la sua qualificazione e la conseguente incidenza nell'iter procedimentale é rimessa alla valutazione discrezionale del legislatore, salvo il controllo di legittimità sotto il profilo dell'arbitrarietà o irrazionalità della norma. E certamente non può considerarsi né arbitraria né irrazionale una disposizione che serve a disciplinare, con giustificato rigore, il processo di affrancazione, in modo che sin dal momento iniziale sia adeguatamente tutelata la posizione del creditore e sia nel contempo esclusa l'eventualità del compimento di un'inutile attività processuale. Non é infine pertinente il richiamo dell'Enel a disposizioni di legge, che variamente disciplinano alcuni oneri connessi alla proposizione delle domande giudiziali, trattandosi di materia riservata, come si é ora detto, alla discrezionalità del legislatore, il quale deve adeguare nei singoli casi il proprio apprezzamento all'istituto considerato, fermo restando il detto limite costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 r.d. 7 febbraio 1926 n. 426, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 113 Cost. dal Tribunale regionale delle acque pubbliche presso la Corte d'appello di Roma con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 giugno 1986.

 

Antonio LAPERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA

 

Depositata in cancelleria il 1 luglio 1986.