Sentenza n.34 del 1985

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SENTENZA N. 34

ANNO 1985

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai Signori:

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO, Giudici,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 4 del d.l. 17 aprile 1984, n. 70 (Misure urgenti in materia di tariffe, di prezzi amministrati e d’indennità di contingenza) così come convertito dalla legge 12 giugno 1984 n. 219, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 21 maggio 1984 dal Pretore di Pavia nel procedimento civile vertente tra Di Tommaso Pasquale c/S.p.A. Necchi, iscritta al n. 932 del registro ordinanze 1984 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 273 del 1984;

2) ordinanza emessa l'11 giugno 1984 dal Pretore di Roma nel procedimento civile vertente tra S.p.A. F.A.T.M.E. c/Pavinato Giuseppe ed altri, iscritta al n. 1048 del registro ordinanze 1984 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 273 del 1984;

3) ordinanza emessa l'11 giugno 1984 dal Pretore di Roma nel procedimento civile vertente tra S.p.A. Voxson e Rosolia Luigi, iscritta al n. 1049 del registro ordinanze 1984 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 273 del 1984;

4) ordinanza emessa l'11 giugno 1984 dal Pretore di Roma nel procedimento civile vertente tra S.p.A. Elettronica e Scarabotti Roberto, iscritta al n. 1050 del registro ordinanze 1984 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 273 del 1984;

5) ordinanza emessa il 5 luglio 1984 dal Pretore di Sestri Ponente nel procedimento civile tra S.p.A. Italcantieri e Franceschi Bruno ed altri, iscritta al n. 1071 del registro ordinanze 1984 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 273 del 1984.

Visti gli atti di costituzione della soc. Necchi, di Pavinato Giuseppe ed altri, di Rosolia Luigi, della soc. Elettronica, di Scarabotti Roberto e di Franceschi Bruno ed altri, nonché gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 12 dicembre 1984 il Giudice relatore Livio Paladin;

uditi gli avvocati Marcello Gorla per la S.p.A. Necchi, Roberto Muggia per Pavinato, Rosolia ed altri, Giuliano Properzi e Renato Scognamiglio per la soc. Elettronica, Franco Tiby per Scarabotti, Luciano Ventura per Franceschi ed altri e l'Avvocato dello Stato Dante Corti per il Presidente del Consiglio del ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un giudizio civile instaurato da un dipendente della S.p.A. Necchi, per ottenere da tale società la corresponsione dei quattro punti di contingenza maturati nel febbraio 1984, l'adito Pretore di Pavia - con ordinanza emessa il 21 maggio 1984 - ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 del d.l. 17 aprile 1984, n. 70: in base al quale, "per il semestre febbraio-luglio 1984, i punti di variazione della misura dell'indennità di contingenza e d’indennità analoghe, per i lavoratori privati, e della indennità integrativa speciale..., per i dipendenti pubblici, restano determinati in due dal 1 febbraio e non possono essere determinati in più di due dal 1 maggio 1984".

In verità, l'ordinanza di rimessione considera manifestamente infondate le eccezioni proposte al riguardo dall'attore, con riferimento agli artt. 3, 36 e 77 della Costituzione. Quanto all'art. 3, il diverso trattamento dei cittadini sarebbe giustificato dalla peculiarità delle situazioni in esame (secondo il criterio affermato da questa Corte nella sentenza n. 141 del 1980). Quanto all'art. 36, la giusta retribuzione andrebbe autonomamente valutata dal giudice, senza che i contratti collettivi rappresentino in tal senso "parametri... vincolanti" (e senza che sia sostenibile la costituzionalizzazione dei "meccanismi d’indicizzazione in atto"). E, quanto all'art. 77, nella specie il Governo non avrebbe abusato della decretazione d'urgenza, data l'esigenza di evitare il prodursi di "effetti moltiplicatori" dell'inflazione; né si potrebbe ipotizzare una violazione del terzo comma dell'articolo stesso, dal momento che l'introduzione di misure retroattive non sarebbe riservata alle leggi formali.

Il giudice a quo ritiene invece violato il primo comma dell'art. 39 Cost., dato il contrasto riscontrabile fra la norma predetta e la libertà d’organizzazione sindacale concepita come comprensiva della libertà di contrattazione. Fermo restando che non sussisterebbe, allo stato, una riserva della materia retributiva a favore dell'autonomia collettiva (come affermato da questa Corte, nella sentenza n. 106 del 1962), il Pretore di Pavia dubita, infatti, che "la legge possa autoritativamente rimuovere in peius il risultato già perfezionato della contrattazione"; tanto più che, nel caso in esame, non vi sarebbe stato il "consenso del sindacato", messo in rilievo dalla Corte stessa nella sentenza n. 141 del 1980, data la posizione contraria della componente maggioritaria della CGIL. Né si potrebbe argomentare la legittimità della norma impugnata dalla transitorietà di essa, dall'urgenza di provvedere in materia o dalla minima incidenza dell'intervento legislativo, poiché nessuno di tali argomenti varrebbe a giustificare la lesione d'una libertà costituzionale.

2. - Con tre ordinanze emesse l'11 giugno 1984, nel corso di altrettanti procedimenti instaurati da lavoratori dipendenti della S.p.A. FATME, della S.p.A. Voxson e della S.p.A. Elettronica, il Pretore di Roma ha congiuntamente impugnato gli artt. 3 e 4 del d.l. n. 70 del 1984, per asserito contrasto con gli artt. 3, 36, 39, 70 e 77 della Costituzione.

Il principio generale d'eguaglianza risulterebbe infatti violato, sia per la "sottrazione di parte del reddito dei lavoratori subordinati, a favore dei datori di lavoro", sia perché i lavoratori stessi sarebbero i soli colpiti, sia perché verrebbero egualmente incisi i redditi più bassi e quelli più alti. Del pari, "al lavoro prestato nella stessa quantità e qualità" farebbe riscontro "una retribuzione con potere di acquisto diminuita rispetto a quella corrisposta nel periodo precedente". Ancora, sarebbe di fatto impedito "l'esercizio della libertà sindacale riconosciuta e garantita" dall'art. 39. E ne verrebbero infine contraddette sia la norma costituzionale che riserva alle Camere la funzione legislativa, sia quella che consente i provvedimenti governativi con forza di legge nei soli casi di necessità e d'urgenza.

3. - In seguito ad un’opposizione proposta dalla S.p.A. Italcantieri, quanto al decreto ingiuntivo 17 aprile 1984, emesso dal Pretore di Sestri Ponente per intimare il pagamento di determinate somme a titolo d'indennità di contingenza, il Pretore stesso ha impugnato a sua volta sia l'art. 3 del d.l. n. 70 del 1984, come convertito dalla legge 12 giugno 1984, n. 219, sia l'ultimo comma dell'articolo unico della stessa legge di conversione, in riferimento agli artt. 3, 36 e 39 della Costituzione.

L'ordinanza di rimessione - datata 5 luglio 1984 - considera manifestamente infondate le eccezioni sollevate dai lavoratori convenuti con riferimento all'art. 77, secondo e terzo comma, della Costituzione: da un lato, perché il verificare se esistano o meno i presupposti giustificativi della necessità e dell'urgenza sarebbe riservato al "giudizio immediato del Parlamento" ed al "giudizio successivo del corpo elettorale"; d'altro lato, perché le Camere avrebbero regolato autonomamente i rapporti giuridici sorti sulla base del non convertito d.l. n. 10 del 1984, sia pur riproducendo l'art. 4 del d.l. n. 70. Sarebbe invece violato il principio d'eguaglianza, dato che la norma impugnata inciderebbe sui soli percettori di redditi di lavoro subordinato o a questo equiparati, "senza l’adozione di alcuna analoga iniziativa... nei confronti di altri percettori di reddito" e senza "alcuna forma di controllo o di indirizzo ai fini pubblici delle somme risparmiate", che compensi il "massiccio trasferimento di ricchezza dai lavoratori subordinati ai datori di lavoro".

Inoltre la norma impugnata - diversamente da quelle prese in esame dalla Corte nelle sentenze n. 106 del 1962 e n. 141 del 1980 - verrebbe a sostituirsi alle norme pattizie in vigore, peggiorando il trattamento economico di tutti i lavoratori senza l'assenso della CGIL; sicché ne verrebbe violata la libertà sindacale, che potrebbe dirsi garantita "solo quando venga in concreto consentito ai lavoratori associati ed alle loro rappresentanze di godere di un’ampia libertà negoziale" (tanto più che tale compressione non sarebbe stata preordinata "al raggiungimento degli scopi previsti... dalla Costituzione"). Nel medesimo tempo, d'altronde, l'eliminazione retroattiva di aumenti periodici maturati o maturandi determinerebbe un "evidente squilibrio della proporzione assunta a rango costituzionale" dall'art. 36, primo comma: per di più comportando sacrifici ineguali, secondo che si tratti di lavoratori a più o meno basso salario.

4. - a) Nel giudizio instaurato dal Pretore di Pavia si é costituita la società Necchi, contestando la prospettata violazione dell'art. 39 Cost.. L'inesistenza di una riserva, costituzionalmente garantita, che abiliti la sola contrattazione collettiva a disciplinare i rapporti di lavoro, varrebbe infatti ad escludere che la legge non possa mai modificare i rapporti medesimi, ancorché regolati in via contrattuale. In particolare, sarebbe di esclusiva competenza del legislatore - come sostenuto in dottrina ed in sede di conversione della norma impugnata - il perseguimento di interessi pubblici nel settore in esame, tanto più quanto la legge stessa non si sovrapponga in modo definitivo alle autodeterminazioni delle parti. Né si potrebbe affermare che, nella specie, siano configurabili diritti ormai acquisiti, come tali intangibili da parte del legislatore: poiché si tratterebbe, viceversa, di diritti destinati a maturarsi appena al termine del periodo di paga.

b) Alle motivazioni ed alle conclusioni del Pretore di Roma aderiscono invece i costituiti lavoratori dipendenti delle società FATME, Voxson ed Elettronica. Il dipendente della Elettronica Roberto Scarabotti argomenta - in particolar modo - che l'art. 3 del d.l. n. 70 assumerebbe "un carattere addirittura ablativo rispetto a diritti di carattere patrimoniale acquisiti dal lavoratore in forza di prestazioni lavorative già erogate da mesi" donde una "confisca" di una parte del salario che contrasterebbe con l'art. 36 della Costituzione.

Analogamente conclude il segretario generale del partito politico "Democrazia proletaria", intervenuto ad adiuvandum nel giudizio di cui all'ordinanza n. 1050 del 1984 (come risulta dal verbale dell'udienza dell'11 giugno 1984). Nell'atto di costituzione si aggiunge, per altro, che l'impugnato art. 4 del d.l. n. 70, con cui si facevano salvi gli effetti prodotti dal decaduto d.l. n. 10 del 1984, rileverebbe tuttora ai fini del giudizio a quo, dato che la legge di conversione n. 219 del medesimo anno non sarebbe entrata in vigore se non a conclusione della vacatio di 15 giorni dalla sua pubblicazione; sicché questa Corte ne dovrebbe pronunciare l'annullamento per contrasto con l'ultimo comma dell'art. 77 della Costituzione.

Al contrario, la convenuta società Elettronica sostiene la non fondatezza della proposta questione, con particolare riguardo ai parametri rappresentati dagli artt. 70 e 77: in ordine ai quali si deduce che il Governo potrebbe legittimamente reiterare l'esercizio della decretazione legislativa, qualora esista e permanga "il caso di necessità e di urgenza". Del resto, il rapporto all'esame del giudice a quo non sarebbe sorto sulla base del decaduto d.l. n. 10, che ormai non esisteva nel momento in cui l'Elettronica propose opposizione, appellandosi al sopravvenuto d.l. n. 70; e non sarebbe dunque pertinente neppure il richiamo all'ultimo comma dell'art. 77 della Costituzione.

c) Si sono finalmente costituiti i lavoratori convenuti nel giudizio pendente presso il Pretore di Sestri Ponente: i quali aderiscono alla tesi del giudice stesso, osservando in particolare che l'art. 39 della Costituzione, garantendo l'autonomia sindacale, tutelerebbe in qualche misura la corrispondente autonomia negoziale e dunque varrebbe ad escludere che lo Stato possa "sostituirsi totalmente al sindacato per regolare il rapporto di lavoro".

d) In tutti i giudizi é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la Corte dichiari inammissibili o non fondate le questioni predette.

Quanto all'art. 4 del d.l. n. 70, già reso superfluo dalla portata retroattiva del precedente art. 3, la ragion d'essere della sua denuncia sarebbe comunque venuta meno, non appena la relativa legge di conversione lo ha soppresso. D'altronde, per entrambe le norme impugnate dal Pretore di Roma, le ordinanze di rimessione avrebbero omesso ogni giudizio di rilevanza (trascurando inoltre di indicare gli oggetti ed i termini delle vertenze sottoposte all'esame del Pretore stesso).

Nel merito, i giudici a quibus non avrebbero tenuto presente che la norma impugnata riguarda, in via eccezionale e temporanea, il solo automatismo degli aumenti retributivi, peculiare del trattamento economico dei lavoratori dipendenti; né avrebbero considerato il quadro nel quale si colloca la norma predetta, che sarebbe stata inserita in una manovra economica più ampia ed accompagnata da varie misure compensative (quali il blocco dell'equo canone, la ridistribuzione degli assegni familiari, il controllo dei prezzi, la regolamentazione dei tickets in materia sanitaria...): il che varrebbe ad escludere la violazione degli artt. 3 e 36 Cost.. Quanto all'art. 39, l'Avvocatura dello Stato osserva invece che l'intervento in esame sarebbe collegato all'accordo sul costo del lavoro del 22 gennaio 1983, oltre che sorretto dal consenso maggioritario delle organizzazioni sindacali; ed aggiunge, comunque, il richiamo dei principi già affermati dalla Corte, in ordine ai rapporti fra l'attività normativa dei sindacati e l'attività del Parlamento. Quanto infine agli artt. 70 e 77 Cost., premesso che il Governo avrebbe provveduto - nella specie - "in via di necessità ed urgenza", sarebbe stata fatta in ogni caso salva la competenza delle Camere a regolare rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti-legge non convertiti.

5. - In vista della pubblica udienza, hanno depositato memorie le società Necchi ed Elettronica, i lavoratori costituitisi nei giudizi introdotti dalle ordinanze nn. 1048 e 1049 del Pretore di Roma e n. 1071/1984 del Pretore di Sestri Ponente, il partito politico "Democrazia proletaria", nonché l'Avvocatura dello Stato per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Oltre che svolgere le rispettive tesi, nelle memorie dei lavoratori dipendenti dalle società FATME e Voxson si respinge l'assunto dell'Avvocatura dello Stato, per cui le impugnazioni promosse dal Pretore di Roma non sarebbero rilevanti nei giudizi a quibus; e si riafferma che, tra la decadenza del d.l. n. 10 e l'entrata in vigore del conseguente d.l. n. 70, si sarebbe prodotto un vuoto normativo, sia pure ridotto ad un unico giorno: il che dovrebbe indurre la Corte ad emettere "non solo un monito ma un provvedimento che richiami il Governo ad un rispetto di norme poste a tutela e nell'interesse della collettività e ponga un freno ad un modo di produzione legislativa tanto arrogante quanto improvvisato e facilone".

Viceversa, nella memoria della società Elettronica si deduce l'attuale inesistenza od irrilevanza della questione promossa dal Pretore di Roma in riferimento agli artt. 70 e 77 Cost., date la conversione in legge del d.l. n. 70 e la soppressione dell'art. 4 del decreto medesimo. Analogamente, nella memoria dell'Avvocatura dello Stato si contesta che "la salvezza degli effetti di un decreto-legge non convertito debba essere disposta dal Parlamento prima che il decreto - legge perda la sua efficacia"; e conclusivamente si rileva - per un altro verso - che il partito politico "Democrazia proletaria", non essendo parte in nessuno dei giudizi a quibus, non avrebbe titolo per interloquire dinanzi alla Corte.

 

Considerato in diritto

 

1. - I cinque giudizi possono essere riuniti e decisi con unica sentenza, in quanto hanno tutti per tema - esclusivo o comunque principale - la legittimità costituzionale dell'art. 3 del decreto-legge 17 aprile 1984, n. 70 (recante "misure urgenti in materia di tariffe, di prezzi amministrati e di indennità di contingenza"). Tutte le ordinanze di rimessione ritengono infatti illegittima la prescrizione in virtù della quale, "per il semestre febbraio-luglio 1984, i punti di variazione della misura della indennità di contingenza e di indennità analoghe, per i lavoratori privati, e della indennità integrativa speciale di cui all'articolo 3 del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17, convertito, con modificazioni, nella legge 25 marzo 1983, n. 79, per i dipendenti pubblici, restano determinati in due dal 1 febbraio e non possono essere determinati in più di due dal 1 maggio 1984"; anche se nelle ordinanze stesse si fa talvolta riferimento al solo art. 39, primo comma (R.O. 932/1984), talaltra agli artt. 3, 36 e 39 (R.O. 1071/1984), talaltra ancora agli stessi artt. 70 e 77 della Costituzione (R.O. 1048-1050/1984).

Né la materia del contendere viene mutata, nella sua sostanza, per effetto delle ulteriori impugnazioni dell'art. 4 del d.l. n. 70 (R.O. 1048-1050/1984) e dell'ultimo comma dell'articolo unico della legge di conversione 12 giugno 1984, n. 219 (R.O. 1071/1984): entrambi riguardanti "gli atti ed i provvedimenti adottati", nonché "gli effetti prodotti e i rapporti giuridici sorti sulla base del decreto-legge 15 febbraio 1984, n. 10". Sia l'uno che l'altro di tali disposti devono considerarsi impugnati, cioé, nelle sole parti in cui fanno salvi gli effetti dell'art. 3 del decaduto d.l. n. 10, relativo appunto al cosiddetto taglio dei punti di contingenza: indipendentemente dagli effetti prodottisi in applicazione degli artt. 1, 2 e 4 del decreto medesimo.

2. - Preliminarmente, va esaminata l'ammissibilità della costituzione del partito politico "Democrazia proletaria", nel giudizio instaurato dal Pretore di Roma mediante l'ordinanza n. 1050 del 1984. L'Avvocatura dello Stato ha infatti eccepito - come si é ricordato in narrativa - che tale soggetto non avrebbe "titolo per interloquire"; ed ha sostanzialmente mantenuto ferma l'eccezione nella pubblica udienza - pur riconoscendo che il partito in questione era intervenuto ad adiuvandum dinanzi al giudice a quo - dato che l'impugnativa proposta dal Pretore di Roma non assumerebbe giuridica rilevanza dal punto di vista di un partito politico.

Senonché l'eccezione va respinta, in quanto non é dubbio che anche i soggetti i quali spieghino intervento nel processo civile, ai sensi dell'art. 105 c.p.c., rientrino pur sempre nell'ampia figura di parte, presupposta dagli artt. 23 ss. della legge n. 87 del 1953. Sotto questo aspetto, é determinante la circostanza che il partito politico "Democrazia proletaria" non sia stato estromesso dal giudizio a quo, per decisione del Pretore competente. E non si deve confondere la rilevanza della questione di legittimità costituzionale, che a certi effetti può essere riesaminata dalla Corte, con l'interesse ad agire o ad intervenire nel processo principale, che non si presta affatto a formare l'oggetto di autonome valutazioni della Corte stessa (come ha già precisato la sentenza n. 24 del 1959).

3. - L'Avvocatura dello Stato ha inoltre eccepito che le questioni proposte dal Pretore di Roma sarebbero tutte inammissibili, per difetto di motivazione sulla loro rilevanza. Ma la Corte ritiene che a dimostrare la rilevanza medesima sia sufficiente la considerazione che tali questioni sono state sollevate accogliendo le eccezioni delle parti resistenti, ai fini di una serie di giudizi instaurati dalle società FATME, Voxson ed Elettronica, nei confronti di numerosi lavoratori da esse dipendenti: senza che nessuno dei soggetti conseguentemente costituitisi dinanzi alla Corte abbia contestato gli assunti del Pretore, quanto al carattere pregiudiziale della proposta impugnativa rispetto alla definizione delle cause di merito.

Appare invece fondata l'ulteriore eccezione, con cui l'Avvocatura ha messo in luce l'inattualità dell'impugnazione concernente l'art. 4 del d.l. n. 70. Effettivamente, tale disposizione é stata soppressa dalla legge n. 219 del 1984; mentre l'identica clausola, con cui l'ultimo comma dell'articolo unico della legge stessa ha regolato i rapporti giuridici sorti sotto l'imperio del d.l. n. 10, si é sicuramente sostituita all'art. 4 del d.l. n. 70 con effetto ex tunc. A fronte di ciò, non rilevano le insistite argomentazioni delle difese dei lavoratori interessati (e del partito politico "Democrazia proletaria"), circa l'illegittimità costituzionale dei decreti-legge che facciano salvi gli effetti di precedenti decreti non convertiti da parte delle Camere, o circa la vacatio che avrebbe ritardato l'entrata in vigore della legge n. 219 del 1984, o circa il vuoto che si sarebbe registrato fra la decadenza del d.l. n. 10 e l'entrata in vigore del d.l. n. 70. Comunque sia di tali problemi, fermo rimane che il denunciato art. 4 non é più suscettibile che essere applicato nei giudizi a quibus; sicché la relativa impugnazione dev'esser dichiarata inammisibile.

4. - Fra i vari parametri costituzionali cui fanno richiamo le ordinanze di rimessione, un primario rilievo spetta al primo comma dell'art. 39: sia perché tutte le ordinanze si riferiscono alla garanzia di libertà della organizzazione sindacale; sia perché la verifica sulla competenza del legislatore a disciplinare i rapporti in questione si presenta logicamente preliminare, rispetto alle indagini sui vizi denunciati in vista degli artt. 3 e 36 della Costituzione.

I giudici a quibus riconoscono che l'art. 39 é rimasto finora inattuato, per ciò che riguarda la registrazione dei sindacati e la loro conseguente potestà di "stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce". Ma, non potendosi mettere in dubbio l'immediata efficacia precettiva del primo comma dello stesso articolo, essi ritengono che ne discenda pur sempre un limite alle intromissioni legislative nella disciplina dei rapporti di lavoro. La libertà di organizzazione sindacale verrebbe infatti vanificata o privata delle sue fondamentali implicazioni, se non fosse comprensiva dell'attività contrattuale e della connessa libertà negoziale; sicché non sarebbe contestabile, a pena di contraddire l'invocato precetto costituzionale, che già nel diritto positivo - indipendentemente dalla produzione delle apposite "norme di legge" destinate a regolare la registrazione, l'ordinamento interno ed il peso rispettivo delle varie associazioni sindacali nelle rappresentanze unitarie previste dall'art. 39, quarto comma - sussista una competenza propria dei sindacati. Ma, nella specie, questa competenza sarebbe stata indebitamente invasa o compressa dal legislatore, essendo mancato - a giustificazione dei d.l. n. 10 e n. 70 del 1984 - il consenso della componente maggioritaria della CGIL. E in tali circostanze non si poteva disporre autoritativamente - secondo il ricordato assunto del Pretore di Pavia - per "rimuovere in peius il risultato già perfezionato della contrattazione" (quale risultava dal punto 7 dell'accordo sul costo del lavoro, datato 22 gennaio 1983); tanto più che la compressione della sfera di autonomia sindacale non si sarebbe fondata - secondo un rilievo del Pretore di Sestri Ponente, ampiamente svolto da alcune memorie difensive - sull'esigenza di raggiungere nessun altro scopo indicato dalla Costituzione per la tutela del lavoro in genere e dei lavoratori dipendenti in particolare.

Con ciò - come si vede - il problema che la Corte é chiamata a risolvere si pone in termini almeno parzialmente nuovi, non pregiudicati dalla precedente giurisprudenza della Corte stessa. Vero é che, fin dalla sentenza n. 106 del 1962, é stato negato che dall'art. 39 derivi senz'altro "una riserva, normativa o contrattuale, in favore dei sindacati, per il regolamento dei rapporti di lavoro"; e questa tesi, subito ripresa dalla sentenza n. 120 del 1963, ha poi ricevuto una salda riaffermazione da parte della sentenza n. 141 del 1980, là dove si osserva che, "sino a quando l'art. 39 non sarà attuato non si può ne si deve ipotizzare conflitto tra attività normativa dei sindacati e attività legislativa del Parlamento...". Ma la Corte ha del pari avvertito, già nella prima di tali decisioni, che "una legge, la quale cercasse di conseguire questo medesimo risultato della dilatazione ed estensione, che é una tendenza propria della natura del contratto collettivo, a tutti gli appartenenti alla categoria alla quale il contratto si riferisce, in maniera diversa da quella stabilita dal precetto costituzionale, sarebbe palesemente illegittima": il che vale a più forte ragione - come fu allora notato dai commentatori di tale pronuncia - ad escludere che fosse e sia consentito al legislatore ordinario di cancellare o di contraddire ad arbitrio la libertà delle scelte sindacali e gli esiti contrattuali di esse.

Nel caso in esame, però, a smentire la pretesa violazione dell'art. 39, primo comma (sia pure largamente interpretato), stanno le caratteristiche stesse delle misure adottate mediante l'art 3 del d.l. n. 70 ed i presupposti dai quali hanno preso le mosse l'intervento del Governo e la conseguente legge di conversione. Da un lato, non va trascurata la considerazione che il legislatore non ha sostituito o sovrapposto una nuova ed organica disciplina a quella già dettata dal punto 7 del citato accordo sul costo del lavoro, bensì ha previsto un " taglio" di singoli punti di variazione dell'indennità di contingenza e dell'indennità integrativa speciale, con riguardo al semestre febbraio-luglio 1984. D'altro lato, é comunque decisivo che il legislatore abbia inteso perseguire, ed abbia in effetti perseguito, finalità di carattere pubblico, trascendenti l'ambito nel quale si colloca - per Costituzione - la libertà di organizzazione sindacale e la corrispondente autonomia negoziale: con la conseguenza che si può oggi ripetere ciò che sosteneva la sentenza n. 60 del 1968, in cui veniva sottolineata "non solo la non avvenuta attuazione dell'ordinamento sindacale, al quale... é collegata la contrattazione collettiva di diritto pubblico, efficace erga omnes, ma soprattutto la potestà, proprio della legge, al fine della tutela di superiori interessi generali, affidata agli organi politici, di limitare l'ambito della contrattazione stessa con norme da questa non derogabili".

Più precisamente, é l'accordo sul costo del lavoro, stipulato il 22 gennaio 1983, che risulta anomalo rispetto alle previsioni costituzionali contenute non solo nel primo ma anche nell'ultimo comma dell'art. 39. Stando alla Costituzione, la contrattazione collettiva spettante ai sindacati riguarda determinate "categorie" di lavoratori, sia pur liberamente definite dalle parti, e appare destinata a svolgersi in un diretto ed esclusivo rapporto fra le rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro. Per contro, gli accordi sul tipo di quello derogato dai d.l. n. 10 e n. 70 attengono anzitutto alla generalità dei lavoratori dipendenti, sia privati che pubblici: il che determina un contesto comprensivo di situazioni giuridicamente diverse, tenuto conto che il trattamento economico degli impiegati dello Stato e delle istituzioni assimilate non é immediatamente affidato alla contrattazione collettiva, nemmeno per effetto della cosiddetta legge quadro sul pubblico impiego (come ha ricordato la sentenza n. 219 del 1984); e già in questo senso può richiedere, per assicurare l'uniformità del regime in questione, che l'operatività dell'accordo sia fatta dipendere dall'entrata in vigore di una o più leggi statali. Inoltre, gli accordi stessi rappresentano il frutto dichiarato di trattative triangolari che vedono ufficialmente partecipe il Governo, non solo nella veste di un semplice mediatore o in quanto datore di lavoro per ciò che riguarda il pubblico impiego, ma quale soggetto che assume a sua volta una serie di impegni politici, spesso assai precisi e rilevanti: come risulta sin dalla premessa dell'accordo stipulato il 22 gennaio 1983, per cui "il Governo, le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro" - vista l'esigenza di contenere l'inflazione entro il 13 per cento nell'83 ed entro il 10 per cento nell'84 - "enunciano l'obiettivo parallelo di affrontare il grave problema dell'occupazione mediante una serie di misure legislative ed amministrative e di comportamenti consensuali delle parti sociali". Né va dimenticato come fosse previsto, nello stesso punto 7 lett. d, che "alla fine di ciascun anno" il Governo e le parti sociali si sarebbero nuovamente incontrati, "per verificare l'andamento dell'inflazione rispetto al tasso d'inflazione programmato e per valutare le misure di compensazione in caso di scostamento": verifica e valutazione che sono appunto avvenute - pur senza che la trattativa approdasse ad un esito positivo - alla vigilia dell'emanazione del d.l. n. 10 del 1984.

É da dubitare, quindi, che i fenomeni così ricostruiti, pur non contrastando con la Costituzione, rientrino nel quadro tipizzato dall'art. 39, dal momento che le organizzazioni sindacali non sono in tal campo separate dagli organi statali di governo, bensì cooperanti con essi. Ne segue, in ogni caso, che gli interessi pubblici ed i fini sociali coinvolti da tali trattative debbono poter venire perseguiti e soddisfatti dalla legge, quand'anche l'accordo fra il Governo e le parti sociali non sia raggiungibile: così come spetta alla legge coordinare l'attività economica pubblica e privata ai sensi del terzo comma dell'art. 41 Cost.. Diversamente, infatti, ne sarebbe alterata la vigente forma di governo; mentre la contrattazione collettiva ne risulterebbe, in difetto dell'ordinamento sindacale previsto dall'art. 39, ancora più estesa e garantita che in base all'inattuato quarto comma dell'articolo stesso.

5. - Le censure già prospettate con riferimento all'art. 39, primo comma, sono però risollevate - da parte dei Pretori di Roma e di Sestri Ponente - anche in vista dell'art. 36 della Costituzione: a conferma dell'intreccio che nel caso in esame si riscontra fra tali parametri (ed anzi li collega allo stesso principio di eguaglianza, generando una sorta di combinato disposto).

Quanto all'art. 36, le ordinanze di rimessione procedono dall'implicita ma sicura premessa che l'indennità di contingenza e l'indennità integrativa speciale facciano parte della retribuzione (come la Corte ha recentemente presupposto, in ordine al secondo di questi istituti, con la sentenza n. 277 del 1984). Ma, precisamente in tal senso, le ordinanze e le difese dei lavoratori costituiti assumono - in sostanza - che la giusta retribuzione garantita dall'art. 36, primo comma, coincida con la complessiva retribuzione contrattualmente prevista e dovuta: intaccando la quale, l'art. 3 del d.l. n. 70 avrebbe leso i diritti costituzionalmente assicurati ai lavoratori, per ciò che riguarda sia la proporzionalità sia la sufficienza dei salari e degli stipendi. Da un lato, infatti, quantità e qualità del lavoro sarebbero rimaste ferme, senza però ritrovare un corrispettivo nei salari o negli stipendi reali, decurtati dalla perdurante inflazione; d'altro lato, il "taglio" dell'indennità di contingenza e dell'indennità integrativa speciale avrebbe maggiormente inciso sulle retribuzioni più basse, cioé su quel minimo retributivo che la cosiddetta scala mobile sarebbe intesa a salvaguardare. Di più: il d.l. n. 10, e principalmente, il d.l. n. 70 del 1984 avrebbero disposto in modo retroattivo circa il trimestre febbraio-aprile del medesimo anno, violando diritti ormai maturati in relazione ad un fenomeno inflattivo già verificatosi nel precedente trimestre; sicché né sarebbe derivata, sotto questo aspetto, una confisca delle retribuzioni dovute ai lavoratori dipendenti, resa ancor più grave dalla mancata conversione del primo dei citati provvedimenti governativi.

A fronte di tale denuncia, va subito notato che non é risolutivo l'argomento addotto dal Pretore di Pavia per dichiararne la manifesta infondatezza: vale a dire che spetterebbe comunque al giudice di garantire - caso per caso - la retribuzione complessivamente intesa, senza specifico riguardo alle singole voci retributive. Tesi del genere, in vero, sono state più volte fatte proprie dalla stessa Corte, a partire dalla sentenza n. 156 del 1971 (che ha dichiarato illegittimo l'art. 7, secondo comma, della legge n. 741 del 1959, nella parte in cui si escludeva che "la sopravvenuta non corrispondenza dei minimi economici al salario sufficiente" conferisse al giudice "i poteri che gli vengono dall'art. 36 Cost.") fino alla ricordata sentenza n. 141 del 1980. Ma, nel presente giudizio, simili risposte non sarebbero adeguate, poiché i Pretori di Roma e di Sestri Ponente contestano in radice che la legge ordinaria possa legittimamente escludere dalle retribuzioni determinanti punti di variazione dell'indennità di contingenza e dell'indennità integrativa speciale, spettanti in base all'accordo del 22 gennaio 1983; e dunque argomentano l'esistenza di un diretto contrasto tra l'art. 3 del d.l. n. 70 ed il primo comma dell'art. 36, indipendentemente dall'entità delle concrete lesioni che i lavoratori coinvolti nei giudizi a quibus potrebbero avere subito.

Tuttavia, quand'anche costruita in questi termini, l'impugnativa non é fondata. In primo luogo, non é pertinente il richiamo all'esigenza che le retribuzioni siano proporzionate "alla quantità e qualità" del lavoro prestato, essendo ben noto che il cosiddetto punto unico della "scala mobile" ha determinato un notevole appiattimento delle retribuzioni stesse, anziché la loro differenziazione secondo la natura delle diverse attività lavorative. In secondo luogo, non si può ritenere che il "taglio" della contingenza e dell'indennità integrativa speciale abbia menomato la garanzia della retribuzione sufficiente (senza più assicurare "l'esistenza libera e dignitosa" dei lavoratori e delle loro famiglie), se non presupponendo che gli attuali meccanismi di indicizzazione siano stati costituzionalizzati o valgano comunque ad integrare il primo comma dell'art. 36, ai fini dei giudizi sulla legittimità costituzionale delle norme di legge. Senonché la Corte ha già precisato - mediante la sentenza n. 43 del 1980 - che "il legislatore ben può adeguare la retribuzione alle variazioni nel costo della vita con interventi adottati di volta in volta senza essere vincolato all'adozione di meccanismi automatici". Ed anzi, nella specie, Governo e Parlamento si sono limitati ad apportare - in una situazione di emergenza economica - un'eccezione al normale funzionamento della "scala mobile", senza affatto sopprimere né sostituire integralmente il sistema di scatti delle indennità in esame risultante dall'accordo del 22 gennaio 1983.

Se dunque si considera che tale sistema presenta un carattere altamente convenzionale - in quanto costituisce il frutto di libere scelte relative al valore dei punti ed alle quote dei salari e degli stipendi protette dagli aumenti del costo della vita - occorre concludere che non si tratta dell'unico mezzo atto a soddisfare le esigenze indicate nell'ultima parte dell'art. 36, primo comma; bensì di uno tra i vari strumenti possibili, il cui funzionamento può essere desensibilizzato o rallentato - come é già avvenuto nel gennaio '83 - senza per questo violare la Costituzione. Chi invece lo contesta, in nome del mancato consenso di una confederazione sindacale, finisce per riproporre in veste diversa la pretesa violazione dell'art. 39, primo comma, su cui questa Corte si é già pronunciata.

Del resto, nel valutare le ragioni giustificative dell'art. 3 del d.l. n. 70, in vista del principio della giusta retribuzione, non va dimenticata la premessa di tale provvedimento, con cui sono state ritenute "la necessità e l'urgenza di adottare misure immediate e temporanee per conseguire il contenimento dell'inflazione nei limiti medi del tasso programmato per l'anno 1984, al fine di favorire la ripresa economica generale e mantenere il potere di acquisto delle retribuzioni". Vero é che, in quel periodo, il contenimento dell'inflazione era solo auspicato, senza che il d.l. n. 70 (come già il d.l. n. 10) prevedesse alcun compenso per i lavoratori interessati, qualora la manovra non avesse sortito gli effetti preordinati dal legislatore. Ma, nel momento del presente giudizio, si può constatare che lo scopo é stato in buona parte conseguito; e questo risultato appare per sé stesso rilevante, in relazione a quanto disposto dal primo comma dell'art. 36 Cost., senza che occorra stabilire in quale misura ciò sia ricollegabile alla norma impugnata e per quali aspetti, invece, dipenda da fattori di tutt'altro genere.

Né sembra alla Corte che si possano scindere i due periodi sui quali incide l'art. 3, per concludere che la disciplina in discussione sia legittima nella parte concernente il trimestre maggio - luglio 1984 e vada invece annullata - per l'effetto retroattivo di tale manovra - quanto al trimestre febbraio-aprile (o quanto ai giorni precedenti l'entrata in vigore del d.l. 17 aprile 1984, n. 70). Distinzioni del genere non terrebbero nel debito conto, in primo luogo, la reale portata del sacrificio economico imposto dall'art. 3, che non si é riferita alle sole retribuzioni dovute per il semestre febbraio-luglio, ma si é ripercossa e continua a ripercuotersi sugli stipendi e sui salari, successivamente al 1 agosto 1984; sicché la parte essenziale dell'intervento in esame ha avuto comunque riguardo all'avvenire e non al solo passato. Ma nel medesimo senso si aggiunge il rilievo che il principio d'irretroattività delle leggi non opera incondizionatamente sul piano costituzionale al di fuori dell'area delle norme penali sostanziali (ai sensi della sentenza 1 febbraio 1982, n. 15, sui limiti massimi della carcerazione preventiva); che, anzi, la retroattività risulta connaturata alla disciplina dei "rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti" - in applicazione del terzo comma dell'art. 77 Cost. - come si é verificato nel caso del citato ultimo comma dell'articolo unico della legge di conversione 12 giugno 1984, n. 219 (concernente gli effetti prodotti dal d.l. 15 febbraio 1984, n. 10); e che il d.l. n. 10 é provvisoriamente entrato in vigore, a sua volta, subito prima che l'Istituto centrale di statistica provvedesse a stabilire le variazioni dell'indice del costo della vita per la determinazione dell'indennità di contingenza relativa al trimestre febbraio-aprile 1984.

6. - Quanto infine all'art. 3 Cost., le ordinanze emesse dai Pretori di Roma e di Sestri Ponente denunciano le discriminazioni derivanti dall'eccezione introdotta nel normale funzionamento della "scala mobile", mediante la norma impugnata: ritenendo lesiva del principio costituzionale d'eguaglianza sia la disparità di trattamento riscontrabile fra gli stessi lavoratori subordinati, secondo i diversi livelli di reddito, sia l'imposizione del detto sacrificio ai soli percettori dei redditi di lavoro dipendente, anziché ai lavoratori autonomi, ai beneficiari di redditi di capitale, e via discorrendo. L'intera manovra sarebbe infatti viziata dal suo carattere parziale e disorganico, per non aver fronteggiato nel loro complesso i fattori dell'inflazione monetaria e non aver mirato a perseguire specifici interessi pubblici, limitandosi invece a trasferire ricchezze dai lavoratori dipendenti ai rispettivi datori di lavoro.

Ma, anche in tal senso, la questione non é fondata. Oltre agli argomenti già dedotti in riferimento al primo comma dell'art. 36 Cost., vale anzitutto il rilievo che la norma in discussione non é sprovvista - se non altro in linea di principio - di una intrinseca ragione giustificativa. I lavoratori dipendenti non sono infatti i passivi spettatori della vicenda in esame, in quanto incisi da una disciplina che si limiti a privarli di una parte - sia pure esigua - delle loro spettanze; ma risultano cointeressati alla soluzione dei problemi del costo del lavoro in genere e della "scala mobile" in particolare, come prova il fatto che tali questioni - già prima dei d.l. n. 10 e n. 70 del 1984 - hanno rappresentato il tema dell'accordo del gennaio 1983 (e costituiscono tuttora l'oggetto di continue analisi e proposte delle parti sociali). Da un lato, cioé, dalla soluzione di quei problemi possono dipendere la competitività se non la stessa esistenza delle imprese private e pubbliche; dall'altro lato, vi é un nesso fra le manovre del genere in esame e la tutela del valore reale delle retribuzioni complessivamente intese, che resta invece esposto a costanti pericoli, se non si realizza il contenimento dell'inflazione.

Né giova comparare - ai fini del presente giudizio - la condizione dei lavoratori dipendenti con quella dei percettori di altri redditi; poiché raffronti siffatti si prestano ad essere operati e discussi sul piano politico (ed hanno già formato, in questo senso, la materia di accese polemiche), ma non bastano a determinare l'illegittimità costituzionale della norma denunciata, per violazione del principio di eguaglianza. Dal punto di vista del contenimento dell'inflazione, i meccanismi di indicizzazione sul tipo della "scala mobile" danno infatti luogo a peculiari motivi di difficoltà, che non sono omogenei rispetto a quelli concernenti le categorie per le quali non operano i meccanismi stessi. Se mai, regge solo il confronto con il sistema di aggiornamento dell'"equo canone", previsto dall'art. 24 della legge 27 luglio 1978, n. 392; ma non é casuale che anche questo meccanismo sia stato bloccato per lo scorso anno, in virtù dell'apposita legge 25 luglio 1984, n. 337.

D'altronde, il legislatore ha variamente cercato di bilanciare il "taglio" dei punti di variazione dell'indennità di contingenza e dell'indennità integrativa speciale, attraverso una serie di altre misure che vanno ricordate nel loro insieme, senza limitarsi a considerare le disposizioni del d.l. n. 70. All'interno di questo provvedimento, fa comunque spicco la nuova disciplina degli assegni familiari, introdotta dall'art. 2 del decreto e dalla relativa tabella, con il preciso scopo di alleviare il sacrificio riguardante i lavoratori a basso reddito, che debbano farsi carico di figli minori. Ma, più in generale, vanno tenuti presenti il blocco delle tariffe e dei prezzi amministrati, stabilito ai sensi dell'art. 1 del decreto medesimo, ed il mancato aggiornamento - cui si é fatto cenno - dell'"equo canone" per il 1984; e possono ancora citarsi ulteriori interventi protettivi del lavoro, come quelli regolati - da ultimo - attraverso il decreto-legge n. 726 e la legge di conversione n. 863 del 1984, a sostegno ed incremento dei livelli occupazionali.

7. - Complessivamente, quindi, le proposte impugnazioni devono essere respinte. A1 richiamo degli artt. 3, 36 e 39 non aggiunge nulla, infatti, il riferimento agli artt. 70 e 77 Cost., effettuato dal Pretore di Roma quando non era stata ancora promulgata la legge 12 giugno 1984, n. 219: una volta sopraggiunta la conversione del d.l. n. 70 e la convalida legislativa degli effetti prodotti dal d.l. 10, non ha più senso, cioé, dedurne la violazione della norma che attribuisce alle Camere la funzione legislativa, né della norma che riserva alle Camere stesse la disciplina dei rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti. E, d'altra parte, non occorre svolgere alcun separato discorso per ciò che riguarda l'ultimo comma dell'articolo unico della legge n. 219, impuguata dal solo Pretore di Sestri Ponente: poiché le censure sollevate in tal senso non si distinguono affatto da quelle proposte, e già esaminate, nei confronti del d.l. n. 70.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 del d.l. 17 aprile 1984, n. 70, sollevata dal Pretore di Roma - in riferimento agli artt. 3, 36, 39, 70 e 77 della Costituzione - con le ordinanze indicate in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3 del d.l. n. 70 del 1984 e dell'articolo unico, ultimo comma, della legge 12 giugno 1984, n. 219, rispettivamente sollevate dai Pretori di Pavia, di Roma e Sestri Ponente - in riferimento agli artt. 3, 36, 39, 70 e 77 della Costituzione - con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 febbraio 1985.

Leopoldo ELIA - Livio PALADIN

Depositata in cancelleria il 7 febbraio 1985.