Sentenza n 234 del 1984

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SENTENZA N. 234

ANNO 1984

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LAPERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI,Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 366 codice penale, degli artt. 142 e 449 codice di procedura penale e dell'art. 251 codice di procedura civile, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 27 marzo 1980 dal Pretore di Ragusa nel procedimento penale a carico di Di Grazia Lorenzo, iscritta al n. 463 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 194 dell'anno 1980;

2) ordinanza emessa il 19 maggio 1980 dal Pretore di Torino nei procedimenti penali a carico di Conversano Francesco e Fuiano Rosa, iscritta al n. 508 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 249 dell'anno 1980;

3) ordinanza emessa il 23 gennaio 1981 dal Pretore di Torino nel procedimento civile vertente tra Riba Giuseppina e Weruska Paplowa, iscritta al n. 281 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 248 dell'anno 1981.

Udito nella camera di consiglio del 16 novembre 1983 il Giudice relatore Giovanni Conso.

Ritenuto in fatto

1. - Il Pretore di Ragusa, con ordinanza del 27 marzo 1980 emessa nel corso del procedimento penale a carico di Di Grazia Lorenzo, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 8 e 19 della Costituzione, questione di legittimità degli artt. 366 c.p. e 449 c.p.p. "nella parte in cui impongono l'obbligo della prestazione del giuramento anche al testimone tenuto ad astenersi dal giurare a causa della sua religione".

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 194 del 16 luglio 1980.

La parte privata non si é costituita né ha spiegato intervento la Presidenza del Consiglio dei ministri.

2. - Nel corso del procedimento penale pendente avanti al Pretore di Torino a carico di Conversano Francesco, veniva citata quale teste Fuiano Rosa, la quale, invitata a prestare il giuramento prescritto dagli artt. 142 e 449 c.p.p., secondo la formula risultante dalle modifiche apportate dalla sentenza n. 117 del 1979 di questa Corte, rifiutava di pronunciare le parole "lo giuro" dichiarando che la sua fede religiosa le proibiva di prestare qualsiasi forma di giuramento; la teste aggiungeva di essere consapevole del dovere di dire la verità e della responsabilità che, nel dire il falso, si sarebbe assunta davanti agli uomini, riferendo di condividere l'obbligo di dire la verità ma di poterlo adempiere soltanto impegnandosi sulla sua persona. Concludeva le sue dichiarazioni con le seguenti parole: "sono disposta ad accogliere tutta la formula del giuramento che mi é stata letta, sostituendo la parola "giurate" con un'altra, quale "assicurate", vi "impegnate" ed altre simili".

Il Pretore, rilevato che dalla decisione di non ammettere la Fuiano a deporre sarebbero potute derivare gravi conseguenze sia in ordine all'accertamento della penale responsabilità della Conversano, sia con riguardo al diritto della parte civile al risarcimento dei danni, sospendeva il giudizio sull'ammissibilità della deposizione "per preventivamente esaminare la rilevanza e fondatezza del contrasto tra gli artt. 142 e 449 c.p.p. e 24 e 112 Cost."; di nuovo vanamente ammonita la teste, procedeva a suo carico, con il rito di cui all'art. 435 c.p.p., per il reato di rifiuto di uffici legalmente dovuti previsto dall'art. 366 c.p.

La Fuiano, interrogata nella sua nuova qualità di imputata, confermava di essersi rifiutata di prestare giuramento in quanto la confessione religiosa alla quale appartiene le vieta in maniera tassativa di pronunciare le parole "lo giuro".

Con ordinanza emessa il 19 maggio 1980 il Pretore ha sollevato, su eccezione del pubblico ministero e della difesa, questione di legittimità - in riferimento agli artt. 2, parte prima, 8, 19 e 21, 3, primo e secondo comma, seconda parte, 24, primo e secondo comma, Cost., alle "disposizioni contenute nell'intero titolo IV della parte seconda Cost. ed in ispecie dell'art. 112 e dei valori costituzionali alla cui tutela sono preordinate le garanzie costituzionali della funzione giurisdizionale" - degli artt. 142 e 449 c.p.p., nella parte in cui non prevedono forme equipollenti al giuramento per i testi appartenenti a confessioni religiose le quali, dando rilevanza religiosa ad ogni giuramento, prescrivono di non pronunciare mai le parole "lo giuro".

In sintesi, secondo il giudice a quo, che più volte richiama la sentenza n. 117 del 1979 di questa Corte, per adeguare gli artt. 142 e 449 c.p.p. ai precetti costituzionali "appare necessario aggiungere dopo le parole "giuramento" - "giurate", altri termini equipollenti (quali "promessa-promettete", "impegno- vi impegnate"), dando facoltà al teste di rispondere, oltre che con le parole "lo giuro", con altre (quali: "lo prometto", "mi impegno", "lo assicuro" etc.), ovvero, se si vuole conservare l'unicità della formula, sostituire la parola "giuramento" con altre, quali " promessa", "impegno" etc. "dato che" per i credenti uguale effetto vincolante morale ha sia il giuramento verso la Divinità e sia una solenne promessa nella quale si chiami quale testimone e garante la stessa Divinità".

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 249 del 10 settembre 1980.

Nel giudizio non si é costituita la parte privata, né ha spiegato intervento la Presidenza del Consiglio dei ministri.

3. - Nel corso del procedimento civile promosso da Riba Giuseppina nei confronti di Weruska Paplowa avanti al Pretore di Torino, veniva citato quale teste, sul capitolo della parte convenuta, Carotenuto Mario; invitato a prestare il giuramento prescritto dall'art. 251 c.p.c., con la formula come modificata dalla sentenza n. 117 del 1979 di questa Corte, il Carotenuto rifiutava di pronunciare le parole "lo giuro" dichiarando di non poter giurare a causa della sua condizione di religioso appartenente ai testimoni di Geova, aggiungendo che poteva soltanto impegnarsi a dire la verità.

Il Pretore, premesso che la formula "lo giuro" é richiesta dall'art. 251 c.p.c. a pena di nullità, rilevava che, in mancanza della prestazione del giuramento, la deposizione sarebbe stata viziata da nullità insanabile; disposta, quindi, la trasmissione del verbale di udienza al pubblico ministero ex art. 3 c.p.p., con ordinanza in data 23 gennaio 1981 ha sollevato, in riferimento agli stessi parametri invocati sub 2, questione di legittimità dell'art. 251 c.p.c., nella parte in cui non prevede formule equipollenti al giuramento per i testi appartenenti a confessioni religiose le quali, dando rilevanza religiosa ad ogni giuramento, prescrivono di non pronunciare mai la parola "lo giuro".

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 248 del 9 settembre 1981.

Nel giudizio non si é costituita la parte privata né ha spiegato intervento la Presidenza del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

1. - Le tre ordinanze in epigrafe portano all'esame della Corte questioni di legittimità costituzionale in parte coincidenti, in parte strettamente connesse: ciò giustifica la riunione dei relativi giudizi, onde deciderli con un'unica sentenza.

2. - Oggetto di censura sono le norme che nel processo civile (art. 251 c.p.c.) e nel processo penale (artt. 142 e 449 c.p.p.), tramite soprattutto la comminatoria di una sanzione penale (art. 366 c.p.), impongono di prestare giuramento anche al testimone la cui religione di appartenenza faccia divieto di pronunciare le parole "lo giuro".

3. - Dai numerosi parametri costituzionali invocati e dal concorde richiamo della sentenza n. 117 del 1979, con cui questa Corte ebbe a dichiarare illegittimi gli stessi artt. 251 c.p.c., 142 e 449 c.p.p. nelle rispettive parti in cui non limitavano al testimone "credente" "l'assunzione con il giuramento di una responsabilità davanti a Dio", oltreché "davanti agli uomini", viene dato di ricavare il nucleo centrale dei dubbi manifestati dai giudici a quibus: prima ancora di dolersi del fatto che il giuramento sia imposto ad un teste obbligato dalla sua religione a non prestare giuramento, le ordinanze di rimessione si dolgono del fatto che tale teste sia assoggettato ad una formula che, proprio per i credenti, contiene tuttora un esplicito riferimento a Dio.

4. - Così individuati, nelle loro grandi linee, i termini fondamentali delle questioni dedotte, la Corte non può procedere ad analizzarle nel merito senza averne previamente verificata l'ammissibilità.

5. - Per quanto riguarda l'ordinanza del Pretore di Ragusa, emerge con evidenza come essa non contenga cenno alcuno né alla rilevanza della questione proposta né alle circostanze concrete del caso di specie, così da tradursi nella prospettazione di una questione di legittimità costituzionale meramente astratta, in elusione del precetto di cui all'art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87.

La questione va, pertanto, dichiarata manifestamente inammissibile per assoluto difetto di motivazione sulla rilevanza.

6. - Benché puntualmente motivate in ordine alla rilevanza, nemmeno le due ordinanze del Pretore di Torino consentono alla Corte di passare al merito delle relative questioni per vagliarne la fondatezza. Nell'un caso come nell'altro, la domanda che vi é insita si presenta congegnata in termini tali da comportare, qualora dovesse rilevarsi fondata, un tipo di risposta chiaramente eccedente i poteri di questa Corte: si richiede, infatti, di apprestare una disciplina dei preliminari della testimonianza non solo sensibilmente diversa da quella vigente, ma per giunta suscettibile di soluzioni che, ben lungi dal risultare necessitate, si presentano nettamente alternative.

É la stessa motivazione delle ordinanze in esame a fornirne una prima dimostrazione: per adeguare ai precetti costituzionali l'art. 251 c.p.c., da un lato, e gli artt. 142 e 449 c.p.p., dall'altro, occorrerebbe aggiungere dopo le parole "giuramento", "giurate" altri termini equipollenti (quali "promessa - promettete", "impegno - vi impegnate", etc.), dando facoltà al teste di rispondere oltre che con le parole "lo giuro" con altre (quali: "lo prometto", "mi impegno", "lo assicuro" etc.), ovvero, se si vuole osservare l'unicità della formula, sostituire la parola "giuramento" con altre, quali "promessa, impegno", etc.

La varietà, addirittura maggiore, delle soluzioni ipotizzabili trova conferma nel panorama delle formule di impegno solenne rintracciabili all'interno e, più ancora, all'esterno del nostro ordinamento. Anche a voler prescindere - per seguire l'ottica dei giudici a quibus nella sua dimensione più precisa - dai numerosi casi nei quali la formula del giuramento, pur unica, appare totalmente laicizzata, in quanto depurata da qualsiasi riferimento alla Divinità (sarebbero da ricordare, al riguardo, le ipotesi di giuramento legate, oggi in Italia, all'assunzione di obblighi il cui inadempimento é pur esso penalmente sanzionato, come nel caso dei giudici popolari nel procedimento penale di assise, o del consulente tecnico d'ufficio o dell'interprete nel processo civile, e le ipotesi di giuramento legate, negli ordinamenti francese, belga, sovietico, etc, allo stesso adempimento dell'obbligo di testimoniare), non si possono ignorare le non poche esperienze basate su un'opzione tra due o più formule alternativamente predeterminate demandata personalmente al testimone: si collocano lungo tale linea, da gran tempo, gli ordinamenti anglo-americani e, da epoca più recente, ad esempio, il regolamento della Corte europea dei diritti dell'Uomo, il codice penale svizzero e, con una gamma particolarmente vasta di opzioni, l'ordinamento della Repubblica federale tedesca.

A rendere ancora più complessa la situazione contribuisce il fatto che uno dei tipi di formula prospettati dalle due ordinanze del Pretore di Torino ("promessa") risulta attualmente contemplato dall'art. 11, primo e secondo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti la statuto degli impiegati civili dello Stato), per l'impiegato "all'atto dell'assunzione in prova", in contrapposizione al "giuramento" prescritto, invece, dall'art. 11, terzo comma, dello stesso d.P.R. per l'impiegato "prima di assumere il servizio di ruolo". Analogamente dispongono gli artt. 189 e 190 del regio decreto 3 marzo 1934, n. 383 (Testo unico della legge comunale e provinciale), rispettivamente per "il segretario comunale e il segretario provinciale assunti in servizio in via di esperimento" e per "il segretario comunale e il segretario provinciale che abbiano ottenuto la nomina definitiva".

Poiché l'obiettivo perseguito dalle ordinanze di rimessione sarebbe, dunque, raggiungibile unicamente attraverso integrazioni e variazioni della normativa in vigore strettamente dipendenti da una pluralità di scelte discrezionali individuabili dal solo legislatore, anche le questioni proposte dal Pretore di Torino devono, per detta ragione, essere dichiarate inammissibili.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 366 c.p. e 449 c.p.p., sollevata, in riferimento agli artt. 3, 8 e 19 della Costituzione, dal Pretore di Ragusa con l'ordinanza emessa il 27 marzo 1980 (reg. ord. n. 463/1980);

b) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 251 c.p.c., 142 e 449 c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 2, parte prima, 8, 19, 21; 3, primo e secondo comma; 24, primo e secondo comma, della Costituzione, e alle "disposizioni contenute nell'intero titolo IV della parte II della Costituzione", dal Pretore di Torino con le ordinanze emesse il 19 maggio 1980 (reg. ord. n. 508/1980) ed il 23 gennaio 1981 (reg. ord. n. 281/1981).

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 1984.

 

Leopoldo ELIA - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI – Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LAPERGOLA  - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA  - Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI

 

Depositata in cancelleria il 30 luglio 1984.