Sentenza n.51 del 1984

 

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SENTENZA N. 51

 

ANNO 1984

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

 

Prof. Antonino DE STEFANO

 

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

 

Avv. Oronzo REALE

 

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

 

Avv. Alberto MALAGUGINI

 

Prof. Livio PALADIN

 

Dott. Arnaldo MACCARONE

 

Prof. Virgilio ANDRIOLI

 

Prof. Giuseppe FERRARI

 

Dott. Francesco SAJA

 

Prof. Giovanni CONSO

 

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI,Giudici,

 

ha pronunciato la seguente

 

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 56 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come integrato dall'art. 96 del D.P.R. 29 aprile 1976, n. 431, promossi con due ordinanze emesse il 10 giugno 1982 dal Magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Firenze, iscritte ai nn. 520 e 521 del registro ordinanze 1982 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18 del 1983.

 

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 16 novembre 1983 il Giudice relatore Giovanni Conso.

 

Ritenuto in fatto

 

Tagliaferri Giovanni, detenuto nella casa di reclusione di Firenze in espiazione di pena, presentava in data 31 luglio 1981, al Magistrato di sorveglianza presso quel Tribunale istanza di remissione del debito per le spese processuali il cui pagamento gli era stato richiesto con avviso notificato il giorno prima.

 

Il Magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Firenze - premesso che, dovendo il Tagliaferri essere dimesso per fine pena il 16 dicembre 1991, l'istanza, in quanto presentata anteriormente all'ultimo mese di detenzione e, quindi, prima del termine stabilito dal "combinato disposto" dell'art. 56 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), e dell'art. 96 del D.P.R. 29 aprile 1976, n. 431 (Regolamento per l'esecuzione della legge 26 luglio 1975, n. 354), avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile alla stregua della "interpretazione ormai consolidatasi della Suprema corte di cassazione" - con ordinanza del 10 giugno 1982 ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 56 della legge n. 354 del 1975,"così come integrato" dall'art. 96 del D.P.R. n. 431 del 1976,"nella parte in cui prevede termini perentori per la presentazione dell'istanza di remissione del debito e nella parte in cui non prevede la sospensione della procedura di esecuzione da parte degli uffici del campione penale fino ad un mese prima della scarcerazione".

 

Secondo il giudice a quo, gli indicati parametri costituzionali sarebbero vulnerati alternativamente: verrebbe in considerazione il principio di eguaglianza ove si ritenesse, da un punto di vista " sostanziale", che l'imposizione di termini perentori e l'assenza di una sospensione ex lege in attesa della maturazione dei termini non attribuisca a tutti i soggetti il diritto alla remissione; sarebbe violato il diritto di azione e difesa se, invece, si ritenesse, da un punto di vista "processuale", che l'esercizio del diritto alla remissione, potenzialmente attribuito a tutti gli interessati, resti condizionato dalla casuale circostanza del trovarsi più o meno vicini alla scadenza della pena.

 

La "costituzionalizzazione" della normativa impugnata dovrebbe, in sintesi, secondo il giudice a quo, "passare o attraverso la eliminazione dal sistema dei termini perentori, oppure, fermi restando i termini, attraverso la censura costituzionale di una mancata previsione, nella normativa vigente, di una sospensione ex lege, generale, di tutte le esecuzioni civili per il recupero dei crediti in attesa della maturazione dei termini".

 

Analoghe questioni lo stesso Magistrato di sorveglianza ha sollevato, con ordinanza in pari data, nel procedimento conseguente all'istanza di remissione del debito per spese processuali e di mantenimento in carcere, presentata da Natali Sergio, dimesso per fine pena sin dal 26 maggio 1970, istanza pervenuta alla cancelleria del giudice a quo il 5 maggio 1981.

 

Le ordinanze, ritualmente notificate e comunicate, sono state entrambe pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 18 del 19 gennaio 1983.

 

Nei due giudizi é intervenuta la Presidenza del Consiglio dei ministri, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo preliminarmente che le questioni siano dichiarate inammissibili. E ciò, perché, da un lato, le censure si riferirebbero ad un atto privo di forza di legge, il D.P.R. n. 431 del 1976, il cui art. 96 é l'unica norma che fissi un termine per la proposizione dell'istanza di remissione e, dall'altro, perché non potrebbe ritenersi ormai consolidato l'indirizzo giurisprudenziale circa la natura perentoria dei termini per proporre l'istanza di remissione. In ogni caso, poi, secondo l'Avvocatura, le questioni non sarebbero fondate nel merito.

 

Considerato in diritto

 

Le due cause, riguardando identiche questioni, possono essere riunite e decise con un'unica sentenza.

 

Il Magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Firenze ha impugnato l'art. 56 della legge 26 luglio 1975, n. 354, "così come integrato dall'art. 96 del D.P.R. 29 aprile 1976, n. 431", nella parte in cui prevede termini perentori per proporre la domanda di remissione del debito relativo alle spese del procedimento che il condannato non sia stato in grado di rimborsare e nella parte in cui non prevede la sospensione della procedura di esecuzione per spese del procedimento da parte degli uffici del campione penale fino ad un mese prima della scarcerazione.

 

L'Avvocatura dello Stato ha in primo luogo contestato l'ammissibilità delle denunce d'illegittimità costituzionale pro - spettate dal giudice a quo, negando forza di legge alla norma che attualmente fissa i termini, iniziale e finale, per proporre l'istanza di remissione del debito, norma da identificarsi esclusivamente nell'art. 96 del D.P.R. n. 431 del 1976, e non anche nell'art. 56 della legge n. 354 del 1975.

 

L'eccezione, che riveste carattere assorbente rispetto alle ulteriori deduzioni, preliminari e di merito, contenute nell'atto d'intervento della Presidenza del Consiglio dei ministri, deve essere accolta.

 

E, infatti, il solo art. 96 del D.P.R. 29 aprile 1976, n. 431, a fissare nel primo comma (quale novellato dall'art. 9 del D.P.R. 24 maggio 1977, n. 339) come termine iniziale per la "richiesta" o per la " proposta" di remissione del debito quello di un mese precedente la dimissione e come termine finale quello di tre mesi successivi alla dimissione stessa e, conseguentemente, a disporre, nel quarto comma, che soltanto la presentazione della "richiesta" o della "proposta" entro i suddetti termini sospende il procedimento di esecuzione per il pagamento delle spese del procedimento eventualmente in corso.

 

Il carattere senza dubbio integrativo del D.P.R. n. 431 del 1976 rispetto alla legge n. 354 del 1975 non basta a far venir meno la natura regolamentare del primo, d'altronde costantemente riconosciutagli nella giurisprudenza della Corte di cassazione. Tale natura risulta non solo dall'espresso rinvio, operato dall'art. 87, primo comma, della legge n. 354 del 1975, ad un tale tipo di disciplina - rinvio puntualmente recepito sia nelle premesse del D.P.R. n. 431, sia nelle premesse del successivo D.P.R. di modifica n. 339 del 1977 - ma anche dalla procedura adottata per la loro emanazione, in tutto aderente al paradigma dell'atto regolamentare (deliberazione del Consiglio dei ministri, parere del Consiglio di Stato).

 

La circostanza che le ordinanze di rimessione abbiano coinvolto nel giudizio di legittimità costituzionale anche l'art. 56 della legge 26 luglio 1975, n. 354, si risolve in un accorto, ma non sufficiente, tentativo di aggirare l'ostacolo derivante dalla natura della norma che fissa il termine in oggetto: infatti, l'art. 56 della legge n. 354 del 1975 non contempla, né implicitamente, né tanto meno esplicitamente, la necessità di alcuna integrazione circa i termini per l'esercizio del diritto ivi previsto.

 

Riguardando, dunque, la denuncia nient'altro che un atto privo di forza di legge, come tale non suscettibile di sindacato nella presente sede, le questioni devono essere dichiarate inammissibili, fermi ovviamente restando, anche nella specie, i consueti poteri di ordine generale che consentono al giudice ordinario di censurare gli eventuali profili di illegittimità delle disposizioni regolamentari.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 56 della legge 26 luglio 1975, n. 354, e dell'art. 96 del D.P.R. 29 aprile 1976, n. 431, come modificato dall'art. 9 del D.P.R. 24 maggio 1977, n. 339, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Giudice di sorveglianza presso il Tribunale di Firenze con le ordinanze in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 febbraio 1984.

 

 

Leopoldo ELIA - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE  -Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA  -Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI

 

Depositata in cancelleria il 7 marzo 1984.