Sentenza n. 103 del 1983

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SENTENZA N. 103

ANNO 1983

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

          Dott. Arnaldo MACCARONE

          Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO,

          ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 13, commi terzo e quarto, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637 (Imposta sulle successioni - Debiti risultanti da atti scritti, da provvedimenti giurisdizionali e da titoli di credito) promosso con ordinanza emessa il 6 marzo 1980 dalla Commissione tributaria di 2 grado di Rovigo, sul ricorso proposto dall'Ufficio del registro di Rovigo contro Colognesi Franco ed altri, iscritta al n. 446 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 215 del 6 agosto 1980.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 14 aprile 1982 il Giudice relatore Alberto Malagugini;

udito l'avvocato dello Stato Giuseppe Angelini Rota, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - In sede di liquidazione dell'imposta di successione dovuta dagli eredi di Colognesi Mario, veniva in contestazione la detraibilità dall'attivo ereditario di un saldo passivo di conto corrente recante un debito di L. 17.272.969 nei confronti della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, negata dall'Ufficio del Registro di Rovigo ed affermata invece, su ricorso degli eredi, dalla Commissione tributaria di I grado di quella città in base all'assunto per cui l'esistenza di un contratto di apertura di credito in conto corrente può essere provata - a sensi dell'art. 13, 3 comma, d.P.R. 26/10/1972, n. 637 - anche in base a documenti interni dell'Istituto concedente.

Avverso tale decisione proponeva appello l'Ufficio del Registro, negando che avessero all'uopo efficacia probante i due documenti prodotti (dichiarazione di sussistenza di credito e copia della scheda contabile del c/c) e deducendo che comunque - secondo l'interpretazione data dalla stessa amministrazione finanziaria al 3 e 4 comma del citato art. 13 - non soltanto si ammette in detrazione il solo debito derivante da emissione di assegni negli ultimi dodici mesi, ma il debito stesso in tanto é deducibile in quanto non resti assorbito dagli accreditamenti operati sul conto corrente bancario nel medesimo periodo di tempo. Nella specie, quindi, il debito doveva ritenersi inesistente alla data di apertura della successione, dato che i prelevamenti negli ultimi dodici mesi erano stati inferiori ai versamenti.

Con riferimento a tale interpretazione, la Commissione tributaria di 2 grado di Rovigo sollevava d'ufficio, con ordinanza del 6/3/1980, questione di legittimità dell'art. 13, 3 e 4 comma, d.P.R. 637/72, assumendone il contrasto con l'art. 53 Cost.

Dovendo invero la capacità contributiva degli eredi essere "commisurata all'arricchimento del loro patrimonio in funzione dell'ammontare della quota ereditaria a ciascuno di essi in concreto spettante", il "limitare l'addebitamento agli assegni emessi nell'ultimo anno, con conseguente possibile saldo (attivo o passivo) difforme dai dati reali" sarebbe, ad avviso della Commissione, "non giustificato e non ispirato a criteri di ragionevolezza".

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, veniva pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 215 del 6/8/1980.

2. - Intervenendo nel giudizio così instaurato, l'Avvocatura dello Stato negava che le norme denunziate fossero interpretabili nel senso presupposto dal giudice a quo, assumendo che esse dettano "disposizioni sulla prova della esistenza degli addebitamenti dipendenti da assegni emessi negli ultimi dodici mesi in base a contratti di apertura di credito in conto corrente bancario, e ciò fanno ponendo una disciplina che deroga a quella generale contenuta nel comma primo dello stesso articolo. Non escludono la deduzione della passività corrispondente ad addebitamenti dipendenti da assegni emessi nel periodo anteriore, per i quali deve intendersi che valga appunto la disposizione dettata dal primo comma".

Dopo aver diffusamente richiamato la precedente disciplina della materia, contenuta nell'art. 45 del R.D. 30/12/1923, n. 3270 e nell'articolo unico della legge 24/12/1969, n. 1038, l'Avvocatura osservava che con quest'ultima norma era stata dettata una regolamentazione sussidiaria rispetto a quella generale di cui al citato art. 45, sostituendo alla dimostrazione del rapporto contrattuale di base mediante atto di data certa quella dell'integrale svolgimento del conto a partire dal 31 dicembre dell'anno anteriore all'apertura della successione o dall'ultimo saldo attivo del conto.

Alla stregua di tali precedenti andrebbe inteso l'art. 13 della vigente legge sull'imposta di successione. Esso, al primo comma, detta - come il corrispondente art. 45, primo comma R.D. 3270/1923 - una norma sulla prova ponendo la regola generale per cui si considerano esistenti i debiti risultanti da atti scritti che abbiano data certa anteriore all'apertura della successione.

Per i debiti risultanti da cambiali o vaglia cambiari, il secondo comma detta una norma sulla prova che - benché ciò non sia "esplicitato sul piano letterale" - é sussidiaria rispetto alla prima. Per le passività dipendenti da emissione di assegni, il terzo comma pone una regola che riprende la disciplina di cui alla l. 1038/1969, ma il cui oggetto é "diverso e più limitato".

Esso prende in considerazione "gli addebitamenti dipendenti da assegni emessi negli ultimi dodici mesi", per i quali "vale la disposizione dettata per i debiti risultanti da cambiali o vaglia cambiari e quella successiva contenuta nel quarto comma. Per gli addebitamenti precedenti, le due disposizioni non valgono, ma ciò non significa che essi non si considerano esistenti, significa bensì che si considerano tali in quanto provati nei modi risultanti dalla regola generale dettata dal comma primo".

Il problema di disciplina risolto dalle norme dell'art. 13 é quindi in definitiva, secondo l'Avvocatura, un problema di prova di fatti giuridici - di cui altre norme (artt. 6, 7 e 12) regolano la rilevanza - e non, appunto un problema di rilevanza.

La questione di costituzionalità sollevata resterebbe perciò priva di oggetto, non essendo vero che le disposizioni impugnate considerino inesistenti le passività ultrannuali.

D'altra parte tali disposizioni non potrebbero, secondo l'Avvocatura, essere ritenute in contrasto con l'art. 53 Cost. sol perché "contengono una regola speciale sulla prova limitata agli addebitamenti dipendenti da assegni infrannali, col risultato di lasciare gli altri soggetti alla regola generale.

Invero, la Corte ha già avuto modo di affermare che non é in contrasto con il principio della capacità contributiva un sistema di determinazione dell'esistenza del presupposto dell'obbligazione tributaria ancorato a prove legali (sent. 26 giugno 1965 n. 50); onde il diverso modo di dimostrazione della esistenza degli addebitamenti infrannali ed ultrannali non può essere considerato dare all'imposizione una base fittizia, come conseguenza della maggiore difficoltà di prova".

Considerato in diritto

1. - In materia di imposte sulle successioni, la deducibilità dei debiti ereditari é regolata dalle norme di cui agli artt. 12 e sgg. del d.P.R. 26/10/1972, n. 637.

Ai sensi dell'art. 12, i debiti esistenti alla data di apertura della successione costituiscono passività deducibili "alle condizioni e nei limiti di cui ai successivi articoli".

L'art. 13, poi, precisa che si considerano esistenti alla data di apertura della successione i debiti risultanti da atti scritti che abbiano data certa anteriore a quella di apertura della successione, quelli la cui esistenza per causa anteriore alla data stessa risulti da provvedimenti giurisdizionali divenuti definitivi (primo comma) ed i debiti risultanti da cambiali o vaglia cambiari, se anteriormente alla data di apertura della successione "siano stati annotati nelle scritture contabili del debitore regolarmente tenute od obbligatorie a norma di legge", ovvero in quelle del trattario o prenditore, qualora il debitore non sia obbligato alla tenuta delle scritture contabili (secondo comma).

Ai sensi del terzo comma dello stesso art. 13, la testé citata disposizione riguardante i debiti cambiari "vale anche per gli addebitamenti dipendenti da assegni emessi negli ultimi dodici mesi in base a contratti di apertura di credito in conto corrente bancario".

Il successivo comma quarto dispone, infine, che l'ammontare degli assegni emessi dal defunto é computato in diminuzione di quello degli accreditamenti effettuati sullo stesso conto, a condizione che l'assegno sia stato presentato al pagamento almeno quattro giorni prima dell'apertura della successione e che l'avvenuto pagamento risulti da un estratto delle scritture contabili obbligatorie dell'istituto, dal quale emerga l'integrale svolgimento del conto negli ultimi dodici mesi anteriori all'apertura della successione. L'amministrazione finanziaria può chiedere la esibizione, in originale o in copia autenticata, degli assegni o di alcuni degli assegni indicati nell'estratto.

Ai fini della dimostrazione dei debiti, il successivo art. 16 stabilisce poi che per i debiti risultanti da atti scritti o da provvedimenti giurisdizionali occorre la produzione del titolo, in originale o in copia autentica (comma primo n. 1); che per i debiti cambiari occorre produrre oltre al titolo, un estratto notarile delle scritture contabili obbligatorie del debitore o del prenditore o trattario (comma primo n. 2); e che per i debiti nei confronti di aziende o istituti di credito, oltre alla presentazione dell'estratto di cui all'art. 13, quarto comma, ed alla dichiarazione di sussistenza del debito al tempo dell'apertura della successione, deve essere prodotto anche un certificato dal quale risultino tutti i rapporti debitori e creditori in atto tra il defunto e l'istituto di credito alla data di apertura della successione (comma terzo).

2. - Tale essendo la normativa vigente, la Commissione tributaria di secondo grado di Rovigo dubita che contrastino con il principio della capacità contributiva, di cui all'art. 53 Cost., le disposizioni dei commi terzo e quarto del citato art. 13 del d.P.R. n. 637 del 1972.

Ciò perché, secondo l'interpretazione del giudice a quo - conforme peraltro a quella adottata dall'Amministrazione finanziaria, da ultimo con la risoluzione ministeriale n. 321052/75 del 21 dicembre 1976 -, per quanto attiene ai contratti di apertura di credito in conto corrente bancario stipulati dal defunto, le norme denunziate consentirebbero di dedurre dall'attivo ereditario il saldo passivo risultante rispetto ai versamenti effettuati nel medesimo periodo ai soli assegni emessi nei dodici mesi anteriori all'apertura della successione.

Non si potrebbe, quindi, tener conto degli addebitamenti dipendenti da assegni emessi in epoca precedente, né conseguentemente, dedurre dall'attivo ereditario il saldo passivo risultante dall'integrale svolgimento del conto corrente bancario.

Anzi, secondo il giudice a quo, il saldo del conto corrente, attivo o passivo che sia, verrebbe determinato in termini difformi da quelli risultanti dai "dati reali" in base ai quali soltanto può rettamente stabilirsi la capacità contributiva degli eredi.

3. - La questione non é fondata.

Essa, infatti, presuppone una lettura delle disposizioni di legge denunziate che questa Corte, in conformità all'opinione espressa, sul punto, dalla prevalente dottrina non ritiene di poter condividere. Giova in proposito, così come ha fatto la difesa degli intervenuti, Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro delle finanze pro tempore, prendere le mosse dall'abrogata legge tributaria sulle successioni (R.D. 30 dicembre 1923, n. 3270). Il legislatore del 1923, dopo aver posto come regola generale la deducibilità dei debiti certi e liquidi risultanti da atto scritto in data certa anteriore all'apertura della successione (art. 45, commi primo, secondo e quarto), aveva dettato regole speciali volte ad attenuare il rigore formale della prova in tal modo richiesta tenendo conto della particolare natura di taluni tipi di passività. Tra queste regole viene qui in considerazione quella di cui al quinto comma del medesimo art. 45 che, per la deducibilità dei debiti di commercio o "risultanti da cambiali od altri effetti all'ordine", stabiliva essere sufficiente che fossero annotati nei libri di commercio, regolarmente tenuti a norma di legge, del debitore o del creditore. Questa disposizione agevolativa non fu in giurisprudenza giudicata applicabile all'emissione di assegni in c/c, per i quali si riteneva perciò necessaria la prova non della sola esistenza dell'assegno quietanzato, bensì anche dell'esistenza del rapporto sottostante e ciò nei modi previsti dalla regola generale di cui ai commi primo, secondo e quarto dell'art. 45. Siffatto rigore probatorio fu però fortemente attenuato con l'articolo unico della legge 24/12/1969, n. 1038 (contenente "norme interpretative ed integrative" del citato art. 45) che sostituì - per la deduzione dei "debiti derivanti da saldo passivo di conto corrente bancario, originato da emissione di assegni" - alla dimostrazione del rapporto contrattuale di base mediante atto di data certa ("quale che sia il rapporto contrattuale sottostante") quella "dell'integrale svolgimento del conto a partire dal 31 dicembre dell'anno anteriore all'apertura della successione o dall'ultimo saldo attivo del conto"; dimostrazione da darsi mediante dichiarazione dell'istituto di credito o estratto notarile sulla base delle registrazioni operate anche per riassunto nei libri inventari e giornale dello stesso istituto di credito ed integrata con la produzione degli assegni e con una dichiarazione di sussistenza del debito.

Rispetto a tale regolamentazione, quella introdotta con il d.P.R. 637/1972, da un lato, ha mantenuto sostanzialmente, sul piano della documentazione richiesta ai fini probatori, le disposizioni agevolative di cui alla l. n. 1038/1969 (peraltro escludendo dal computo gli assegni presentati al pagamento meno di quattro giorni prima dell'apertura della successione e rendendo solo eventuale la produzione degli assegni); dall'altro, ha limitato l'applicabilità di tali disposizioni ai soli assegni emessi in base a contratti di apertura di credito in conto corrente bancario (con esclusione di altri contratti bancari, come il deposito in conto corrente).

Soprattutto - per quanto qui interessa - la normativa vigente ha circoscritto agli addebitamenti da assegni emessi nell'ultimo anno di vita del defunto la regola probatoria, meno rigorosa, della quale si discute. Di conseguenza, mentre in base alla l. n. 1038/69 era sempre possibile la dimostrazione dell'esistenza di un saldo passivo attraverso le scritture contabili della banca, in quanto la ricostruzione delle vicende del conto corrente era in ogni caso effettuata a partire da un saldo attivo (quello del 31 dicembre dell'anno anteriore all'apertura della successione, ove risultasse, appunto, attivo, ovvero il saldo attivo anteriore a tale data, in caso contrario), con la nuova normativa l'idoneità probatoria di tali scritture contabili é limitata agli addebitamenti ed accreditamenti degli ultimi dodici mesi, sicché un eventuale saldo passivo preesistente non é provabile allo stesso modo.

Non possono però ritenersi mutati, rispetto alla disciplina preesistente, né la natura delle disposizioni dettate nella materia esaminata né il tipo di rapporto strutturale intercorrente tra di esse. Tutte le disposizioni contenute nell'art. 13 d.P.R. n. 637/1972 sono, infatti, dirette a disciplinare non la rilevanza, ai fini dell'imposta sulle successioni, dei debiti nelle stesse considerati, bensì la prova che di tali debiti occorre fornire perché essi siano deducibili dall'attivo ereditario. L'intero art. 13 contiene, cioé, un sistema di predeterminazione legale dei mezzi di prova che il legislatore, al fine di evitare evasioni fiscali e possibili collusioni dirette a realizzarle, ritiene necessari per la dimostrazione della preesistenza del debito all'apertura della successione e quindi per la sua deducibilità dall'attivo ereditario.

In secondo luogo, non é mutato, rispetto alla disciplina preesistente, il rapporto intercorrente tra la regola generale dettata nel primo comma dell'art. 13 (corrispondente al primo comma dell'art. 45 R.D. n. 3270/1923) e le regole particolari che in materia di debiti cambiari e di debiti dipendenti da emissione di assegni sono poste dal secondo, dal terzo e dal quarto comma del medesimo articolo (corrispondenti rispettivamente, al quinto comma del citato art. 45 ed all'articolo unico della l. 1038/1969). Tra la prima regola e le successive vi é cioè pur sempre, anche in base alla nuova disciplina, un rapporto di sussidiarietà, nel senso che le seconde, per agevolare l'assolvimento dell'onere probatorio, derogano alla prima ponendo requisiti meno rigorosi; il che comporta, ove questi ultimi requisiti non ricorrano, non già l'irrilevanza del debito, ma il suo assoggettamento alla regola probatoria generale. Tanto i debiti cambiari che quelli dipendenti da emissione di assegni sono, infatti, di per sé suscettibili di dimostrazione attraverso la prova del rapporto contrattuale sottostante, sicché ove questo sia documentato in un atto scritto di data certa anteriore all'apertura della successione non vi é ragione per escluderli dal novero di quelli la cui prova può essere fornita alla stregua della norma generale. Non si tratta, cioè, sotto il profilo in esame, di una diversa categoria di debiti ed il fatto che, a proposito dei debiti cambiari, non sia stata ripetuta nell'art. 13 la locuzione esplicitante il rapporto di sussidiarietà contenuta nel quinto comma del citato art. 45 R.D. n. 3270 del 1923 ("qualora non si trovino nelle condizioni previste nei precedenti capoversi") non toglie che in sede di interpretazione logico - sistematica tale rapporto, secondo la comune opinione della dottrina, debba essere pur sempre riconosciuto sussistente.

Ne consegue che altrettanto deve dirsi per i debiti dipendenti da emissione di assegni avvenuta in base a contratti di apertura di credito in conto corrente bancario, posto che per essi l'art. 13, terzo comma estende espressamente "la disposizione del comma precedente" dettata per i debiti cambiari.

Conclusivamente, non può essere condivisa la interpretazione delle disposizioni di legge denunziate dalla quale muove la Commissione tributaria di secondo grado di Rovigo per sollevare la questione di legittimità costituzionale di che trattasi. A1 contrario, si deve ritenere che, ove alla data di apertura della successione, in base a contratto di apertura di credito in conto corrente bancario risulti un saldo passivo (e cioè un debito del defunto verso la banca) derivante - in tutto o in parte - da assegni emessi oltre un anno prima, la prova di questi addebitamenti potrà essere offerta nei modi previsti dal primo comma dell'art. 13, ferma restando l'applicabilità della regola di cui al quarto comma del medesimo art. 13 per gli addebitamenti infrannuali.

4. - Le suesposte considerazioni conducono ad escludere che le norme impugnate configurino un presupposto d'imposta non corrispondente alla effettiva capacità contributiva degli eredi, dal momento che non precludono la computabilità, a fini di deduzione, degli addebitamenti ultrannuali. Il fatto che per questi sia richiesta una prova più rigorosa e, che, conseguentemente, l'erede possa non essere in grado di fornirla non si può addurre a motivo di incostituzionalità della norma che la pretende. Come la Corte ha già avvertito - in riferimento al citato art. 45 R.D. n. 3270/1923 - nella sentenza n. 50 del 1965,l'impossibilità materiale di fornire la prova richiesta si risolve in un impedimento di mero fatto, come tale estraneo alla problematica costituzionale; e d'altra parte, ove tale impossibilità sia incolpevole torneranno applicabili le disposizioni dettate, in via generale, dall'art. 2724 c.c. Né può dirsi che la configurazione di una prova legale rigorosa equivalga a dare una base fittizia all'imposizione tributaria. La prova legale mira a garantire la certezza dei rapporti giuridici e, in materia tributaria, anche a tutelare l'interesse generale alla riscossione dei tributi contro ogni tentativo di evasione; e rientra nella discrezionalità del legislatore - il cui apprezzamento, ove non trasmodi in palese arbitrarietà o irrazionalità, sfugge al sindacato di questa Corte – la scelta dei meccanismi probatori che si ritengano maggiormente idonei a conseguire tale risultato

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, terzo e quarto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637 sollevata in riferimento all'art. 53 Cost. dalla Commissione tributaria di secondo grado di Rovigo con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 marzo 1983.

Leopoldo ELIA – Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE – Brunetto BUCCIARELLI DUCCI – Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN – Arnaldo MACCARONE -  Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO

Giovanni VITALE - Cancelliere

          Depositata in cancelleria il 21 aprile 1983.