Sentenza n. 119 del 1979
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SENTENZA N. 119

ANNO 1979

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici:

Avv. Leonetto AMADEI , Presidente

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 26, lett. d, della legge 6 luglio 1939, n. 1035 (Approvazione dell'ordinamento della Cassa di previdenza per la pensione dei sanitari), promosso con ordinanza emessa il 16 gennaio 1974 dalla Corte dei conti - sez. III - sul ricorso di Turrin Luigia, iscritta al n. 333 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 151 del 9 giugno 1976.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 16 maggio 1979 il Giudice relatore Leopoldo Elia;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giuseppe Angelini Rota, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - La Corte dei conti - sez. III giurisdizionale - con ordinanza emessa il 16 gennaio 1974, sollevava questione di costituzionalità dell'art. 26 lett. d) della legge 6 luglio 1939, n. 1035, recante "Approvazione dell'ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni dei sanitari" per contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Riteneva infatti dubbia la compatibilità con il principio di eguaglianza della norma indicata in quanto riconosce il diritto a pensione del sanitario cessato dal servizio per dimissioni volontarie dopo venticinque anni di servizio utile anziché dopo venti, come é previsto nelle ipotesi ben più gravi di cessazione dal servizio in seguito a condanna penale o provvedimento disciplinare.

La Corte dei conti segnalava inoltre un insieme di norme che, in caso di pronunzia di accoglimento, dovrebbero essere dichiarate conseguenzialmente invalide ai sensi dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953, perché del tutto analoghe rispetto a quella impugnata: art. 26 lett. d) del r.d. 12 luglio 1934, n.2312 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative sull'ordinamento della Cassa di previdenza per la pensione degli ufficiali giudiziari); art. 33 lett. d) r.d.l. 3 marzo 1938, n. 680 (Ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni agli impiegati degli Enti locali); art. 32 lett. e) legge 25 luglio 1941, n. 934 (Ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni ai salariati degli Enti locali); art. 7 lett. c) della legge 11 aprile 1955, n. 379 (Miglioramenti dei trattamenti di quiescenza e modifiche agli ordinamenti degli Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro).

2. - Interveniva il Presidente del Consiglio dei ministri, a mezzo dell'Avvocatura dello Stato, chiedendo si pronunziasse sentenza di rigetto. Premesso che la ricorrente avrebbe comunque diritto a pensione di riversibilità a carico dell'INPS, secondo quanto dispone l'art. 52 della legge 30 aprile 1969, n. 153, che estende le disposizioni della precedente legge 2 aprile 1958, n. 322 sulla ricognizione delle posizioni previdenziali ai fini dell'accertamento del diritto e della determinazione del trattamento di quiescenza, osservava che le fattispecie messe a confronto non sono omogenee, essendo preminente nel caso di dimissioni volontarie l'esigenza di tutela della stabilità del rapporto, esigenza che non acquista rilievo nell'ipotesi di cessazione dal servizio per condanna penale o provvedimento disciplinare. Esiste inoltre un equilibrio tecnico fra contribuzioni ed oneri, che sarebbe garantito anche dalle norme che stabiliscono al compimento di venticinque anni di servizio il conseguimento del diritto a pensione in caso di dimissioni; verrebbe così salvaguardata la funzionalità della Cassa dagli squilibri tecnico-finanziari derivanti dal facile abbandono del rapporto assicurativo.

Eguali esigenze di garanzia non sussisterebbero nelle ipotesi eccezionalissime di cessazione dal servizio per provvedimento disciplinare o condanna penale.

Si contesta inoltre il ricorrere delle condizioni per una pronunzia di invalidità conseguenziale in ipotesi in cui l'invalidità - ove sussistesse - non deriverebbe dalla dichiarazione di incostituzionalità delle norme rilevanti nel processo a quo, ma sussisterebbe per motivi autonomi ancorché analoghi.

Considerato in diritto

La questione non é fondata.

La Corte dei conti ritiene che possa emergere una violazione dell'art. 3 Cost. dal raffronto tra la situazione del sanitario destituito a seguito di sanzione penale o disciplinare, cui é dato conseguire (per il combinato disposto degli artt. 25 lett. d) e 26 lett. a) della legge 6 luglio 1939, n. 1035)il trattamento pensionistico dopo venti anni di servizio utile, con la situazione del sanitario che, in caso di dimissioni volontarie, consegue la pensione soltanto dopo venticinque anni di servizio utile.

In particolare la Corte dei conti sottolinea il trattamento di sfavore rispetto ad altri soggetti meno meritevoli del sanitario che, avendo raggiunto venti anni di servizio utile (ma non venticinque), si dimette volontariamente, e cioé "manifesta in maniera conforme alla legge la volontà di risolvere il rapporto d'impiego". Ma é proprio questa formulazione a palesare un punto di vista che non appare accettabile. Infatti la manifestazione di volontà del sanitario rileva ai fini del conseguimento del diritto a pensione soltanto se sono maturate le condizioni che la legge prevede quanto alla determinazione del periodo minimo utile a questo scopo.

Orbene, allorché, fondando le sue pronunzie sul carattere retributivo delle pensioni e di altri assegni o indennità conseguenti alla cessazione del rapporto di dipendenza, questa Corte ha escluso che la causa della cessazione del rapporto (dimissioni, allontanamento dal servizio a seguito di condanna penale o per motivi disciplinari) potesse determinare la perdita, la riduzione o la sospensione del diritto a conseguire e a godere quei trattamenti, ha sempre presupposto che fossero maturate le altre condizioni di legge per il venire in essere di quei diritti. Ed ha pure riconosciuto che rientra nel potere discrezionale del legislatore determinare la durata della prestazione di servizio necessaria al conseguimento dell'indennità di buonuscita e del trattamento pensionistico (sent. n. 82 del 1973, nn. 2 e 3 del considerato in diritto, a proposito dei dipendenti statali).

Se perciò si dichiarasse la illegittimità della norma impugnata, si verrebbe in definitiva a censurare l'esercizio del potere legislativo quanto alla definizione del periodo minimo utile al conseguimento della pensione; un pronunziato, dunque, come emerge anche dal suggerimento di estendere a disposizioni parallele l'eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale, che eccederebbe di gran lunga la portata iniziale della quaestione.

In ordine alla specifica violazione dell'art. 3 Cost. posta in rilievo dalla Corte dei conti, é comunque da constatare che la diversità di disciplina ivi denunziata é stata ribadita più volte in leggi posteriori alla entrata in vigore della Carta costituzionale: cfr. artt. 6 e 7 della legge 11 giugno 1954, n. 409 per i sanitari in servizio presso gli enti locali, artt. 6 e 7 della legge 11 aprile 1955, n. 379 per gli impiegati degli enti locali, artt. 15 e 16 della legge 11 aprile 1955, n. 380 per gli ufficiali giudiziari. Tale diversità di disciplina si fonda sull'interesse delle Amministrazioni da una parte ad allontanare dal servizio il più rapidamente possibile elementi a vario titolo inidonei, e dall'altra ad utilizzare per un periodo medio ragionevole coloro che svolgono il servizio in condizioni normali. Ove si consideri che la prima ipotesi concerne casi relativamente eccezionali, mentre la seconda riguarda la regola dei rapporti, si deve ammettere che la soluzione accolta dal legislatore, motivata dalla innegabile diversità delle situazioni messe a confronto, non é contraria a criteri di razionalità; e ciò a prescindere da ogni valutazione, pur doverosa, circa l'equilibrio tra il livello globale dei contributi, fondato sulla previsione del normale sviluppo di carriera degli iscritti, e quello degli oneri posti a carico della Cassa pensioni.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 26, lett. d) della legge 6 luglio 1939, n. 1035 sollevata in relazione all'art. 3 Cost. dalla Corte dei conti con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 ottobre 1979.

Leonetto AMADEI - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI.

Giovanni VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 10 ottobre 1979.