Sentenza n. 182 del 1976
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SENTENZA N. 182

ANNO 1976

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici:

Prof. Paolo ROSSI, Presidente

Dott. Luigi OGGIONI

Avv. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Avv. Leonetto AMADEI

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 27 della legge 9 maggio 1975, n. 153 (attuazione delle direttive del Consiglio delle Comunità europee per la riforma dell'agricoltura), promossi con ricorsi del Presidente della Regione Valle d'Aosta, del Presidente della Giunta provinciale di Bolzano, del Presidente della Giunta provinciale di Trento e del Presidente della Regione Sardegna, notificati il 25 giugno 1975, depositati in cancelleria il 1 e 4 luglio 1975 ed iscritti ai nn. 16, 17, 18 e 19 del registro ricorsi 1975.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 7 aprile 1976 il Giudice relatore Guido Astuti;

uditi l'avv. Gustavo Romanelli, per la Regione Valle d'Aosta, l'avv. Umberto Coronas, per le Province di Bolzano e di Trento e per la Regione Sardegna, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

Per dare attuazione alle direttive nn. 72/159, 72/160 e 72/161 impartite dal Consiglio delle Comunità Europee per la riforma dell'agricoltura, lo Stato italiano ha emanato la legge 9 maggio 1975, n. 153, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 137 del successivo 26 maggio. L'art. 27 della legge citata prevede che il Consiglio dei ministri, su proposta del ministro degli affari esteri e del ministro per l'agricoltura e le foreste, sentito il presidente della giunta regionale interessata, possa autorizzare il ministro per l'agricoltura e le foreste, in caso di persistente inadempimento degli organi regionali nello svolgimento delle attività amministrative di attuazione delle direttive comunitarie, a disporre il compimento degli atti relativi in sostituzione dell'amministrazione regionale.

Avverso tale disposizione, le Regioni Sardegna e Valle d'Aosta e le Province autonome di Trento e di Bolzano hanno proposto questione di legittimità costituzionale, con ricorsi tutti notificati il 25 giugno 1975. La norma denunciata sarebbe lesiva della competenza in materia di agricoltura spettante alle ricorrenti in forza degli artt. 116, 117 e 118 Cost., 3, lett. d e 6 dello Statuto della Regione Sardegna, 2, 4 e 48 dello Statuto della Regione Valle d'Aosta, 3, terzo comma, 8 n. 21, 16, 38, 49 e 51 dello Statuto delle Province autonome di Trento e Bolzano. Né l'esigenza di assicurare la osservanza delle direttive comunitarie giustificherebbe la legittimità della norma impugnata, dovendosi ritenere che in caso di persistente inadempimento da parte delle Regioni e delle Province interessate, il rimedio da adottare dovrebbe essere quello dello scioglimento del Consiglio, atto soggetto a tutti i rimedi giurisdizionali previsti dall'ordinamento.

Si é costituito in giudizio, a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri deducendo la infondatezza dei ricorsi proposti.

In particolare, le limitazioni alla sovranità accettate dallo Stato con l'adesione alle Comunità europee comporterebbero corrispondenti limitazioni all'autonomia legislativa delle Regioni, anche a Statuto speciale. Il potere-dovere dello Stato di sostituirsi alla Regione o alla Provincia autonoma inadempiente troverebbe giustificazione nella circostanza che solo lo Stato, in quanto soggetto di diritto internazionale, é responsabile nei confronti della Comunità.

Considerato in diritto

1. - Con i ricorsi indicati in epigrafe, le Regioni Sardegna e Valle d'Aosta e le Province autonome di Trento e Bolzano hanno promosso la questione di legittimità costituzionale dell'art. 27 della legge 9 maggio 1975, n. 153 (Attuazione delle direttive del Consiglio delle Comunità europee per la riforma dell'agricoltura), che dispone: "In caso di persistente inadempimento degli organi regionali nello svolgimento delle attività amministrative di attuazione delle direttive comunitarie di cui all'art. 1, il Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per gli affari esteri o del Ministro per l'agricoltura e le foreste, sentito il presidente della giunta regionale interessata, autorizza il Ministro per l'agricoltura e le foreste a disporre il compimento degli atti relativi in sostituzione dell'amministrazione regionale, proponendo, ove occorra, le opportune variazioni di bilancio".

La norma denunciata violerebbe la sfera di competenza assegnata alle Regioni e Province ricorrenti, in materia di agricoltura, dagli artt. 116, 117, 118 Cost., e rispettivamente degli artt. 3, lett. d e 6 dello Statuto della Regione Sardegna, 2, 4 e 48 dello Statuto della Regione Valle d'Aosta, 3, terzo comma, 8 n. 21, 16, 38, 49 e 51 dello Statuto della Regione Trentino-Alto Adige e delle Province autonome di Trento e Bolzano. In base a queste disposizioni, l'ammissibilità di un potere di intervento sostitutivo dello Stato per l'esercizio di funzioni amministrative in materia riservata alla competenza primaria regionale o provinciale dovrebbe ritenersi assolutamente esclusa. Lo Stato non ha altro potere di controllo sugli atti amministrativi delle Regioni che quello previsto dall'articolo 125 Cost., salva la possibilità di ricorso alla Corte costituzionale nel caso di conflitto di attribuzione; l'intervento sostitutivo di organi dello Stato comporterebbe lesione gravissima dell'autonomia costituzionalmente garantita alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome, autonomia che non potrebbe essere comunque limitata o compressa anche nell'ipotesi di violazione degli obblighi internazionali, dato che né l'ordinamento italiano né l'ordinamento comunitario prevedono forme di controllo sostitutivo; unico rimedio, nel caso di atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge, sarebbe la possibilità di scioglimento del Consiglio regionale, ai sensi dell'art. 126 Cost.

Si osserva inoltre dalle ricorrenti che nell'ipotesi in cui esse avessero fatto uso della potestà legislativa primaria in materia di agricoltura, adottando nella specie, in ossequio alle direttive comunitarie, un regime di aiuti all'agricoltura locale, si potrebbe verificare l'abnorme situazione di un'attività amministrativa prevista e disciplinata dalla legge regionale o provinciale esercitata da organi statali, i quali potrebbero anche non avere competenze corrispondenti a quelle attribuite agli organi regionali; che, infine, lo Stato, arrogandosi il potere di modificare i bilanci delle Regioni o Province autonome, ne violerebbe la sfera di autonomia finanziaria.

La menomazione delle prerogative statutarie assumerebbe speciale gravità nei confronti della Provincia di Bolzano, la cui autonomia ha il proprio presupposto storico e giuridico in una fonte normativa di diritto internazionale, l'accordo De Gasperi-Gruber.

Stante l'identità della questione, i giudizi possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.

2. - La questione non é fondata. Le ricorrenti si richiamano alla garanzia costituzionale della loro autonomia nei confronti dello Stato, dimenticando che l'Italia fa parte della Comunità economica europea, e che, con l'adesione al trattato istitutivo di questa Comunità, ha accettato, a condizioni di parità con gli altri Stati membri e per il conseguimento delle finalità ivi precisate, determinate limitazioni dei poteri sovrani dello Stato in ordine all'esercizio delle funzioni legislativa, esecutiva e giurisdizionale, quali si rendevano necessarie per la creazione di una organizzazione interstatuale, di tipo sovranazionale, concepita come strumento di integrazione tra gli Stati partecipanti, per fini comuni di sviluppo economico e sociale. É evidente che queste limitazioni non possono non riflettersi anche sull'autonomia costituzionalmente riconosciuta alle Regioni e Province autonome, e ciò anche in base alle espresse disposizioni statutarie che ad esse impongono, nell'esercizio delle funzioni legislative ed amministrative, "il rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali" della Repubblica.

Al riguardo, questa Corte ha già avuto più volte l'occasione di dichiarare, in termini generali, che "é incontrovertibile il principio che affida allo Stato, e solo ad esso, l'esecuzione all'interno degli obblighi assunti in rapporti internazionali con altri Stati" (sentenza n. 46 del 1961); che poiché soltanto lo Stato é soggetto nell'ordinamento internazionale e ad esso vengono imputati giuridicamente in tale ordinamento gli atti, normativi o amministrativi, posti in essere dalle Regioni, non può dubitarsi della legittimità delle limitazioni che ne conseguono all'autonomia delle Regioni nell'esercizio delle loro attività istituzionali; che pertanto, anche nelle materie di competenza primaria o esclusiva, nel necessario coordinamento degli interessi regionali con i preminenti interessi nazionali sul piano dell'unità politica dello Stato in cui le Regioni sono inserite e vivono, e sul piano delle esigenze fondamentali che informano la vita dello Stato, "il rispetto degli obblighi internazionali dello Stato é, per la competenza regionale, un limite indefettibile, pur se il singolo Statuto non lo segnali in modo espresso" (sentenze n. 30 del 1959; n. 49 del 1963; n. 21 del 1968).

3. - Per quanto concerne in particolare gli obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alla C.E.E., non v'é dubbio che le disposizioni dei regolamenti comunitari emanati a norma dell'art. 189 del Trattato di Roma abbiano piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutte le Regioni, abrogando ogni eventuale incompatibile normativa statale o regionale preesistente, e vincolino l'esercizio dell'attività legislativa o amministrativa delle Regioni, anche a statuto speciale, secondo i principi enunciati da questa Corte nelle sentenze n. 120 del 1969, 183 del 1973 e 232 del 1975.

Qualche precisazione si impone quanto all'efficacia delle direttive del Consiglio o della Commissione delle Comunità. Queste, a differenza dai regolamenti, secondo il disposto dell'art. 189 n. 3 del Trattato di Roma, vincolano lo Stato membro cui sono rivolte per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. La Corte di giustizia delle Comunità ha con la sua giurisprudenza sottolineato l'importanza delle direttive, affermando che la loro efficacia deve essere valutata con riguardo non solo alla forma ma anche alla sostanza dell'atto ed alla sua funzione nel sistema del Trattato, e che pertanto anche le direttive possono contenere disposizioni precettive idonee a produrre effetti diretti nei rapporti tra gli Stati membri destinatari e i soggetti privati (sentenza 17 dicembre 1970 in causa 33/70). Peraltro, di regola, le direttive vengono emanate come strumenti di coordinamento ed armonizzazione della legislazione e dell'azione amministrativa degli Stati membri a cui vengono indirizzate, per il conseguimento di obiettivi comuni, che rimane affidato alla competenza degli organi nazionali quanto alla forma ed ai mezzi. Esse si rivolgono dunque generalmente agli Stati, non ai soggetti dei loro ordinamenti interni, e richiedono per l'attuazione nell'ambito di questi ordinamenti l'intervento degli Stati, i quali sono conseguentemente tenuti ad adottare, nei termini stabiliti dalle direttive, i provvedimenti legislativi, regolamentari o amministrativi idonei al raggiungimento dei risultati prescritti.

Non solo il rifiuto, ma anche il semplice ritardo di uno Stato destinatario nell'adozione dei provvedimenti imposti da una direttiva costituisce violazione d'un obbligo comunitario imposto dal Trattato, soggetta al sindacato giurisdizionale della Corte di giustizia delle Comunità. Questa ha osservato al riguardo che "l'esatta attuazione delle direttive é tanto più importante in quanto i provvedimenti d'attuazione sono rimessi alla discrezione degli Stati membri, e, ove non raggiungessero gli scopi prefissi nel termine stabilito, esse resterebbero lettera morta. Se é vero che, nei confronti degli Stati membri destinatari, le direttive non sono meno vincolanti di altre norme di diritto comunitario, ciò e ancora più vero per le disposizioni che fissano il termine per l'entrata in vigore delle norme contemplate" (sentenza 21 giugno 1973 in causa 79/72). É d'altra parte certo che i trattati comunitari prevedono esclusivamente la responsabilità degli Stati, qualunque possa essere la distribuzione delle competenze all'interno di ciascuno di essi, come la Corte di giustizia delle Comunità ha affermato in particolare nella sentenza 15 dicembre 1971 in cause 51- 54/71.

4. - Per quanto concerne l'adempimento degli obblighi comunitari in materia di agricoltura da parte dello Stato e delle Regioni, giova ricordare che il legislatore italiano, in base alla riserva contenuta nell'art. 17, lett. a, della legge 16 maggio 1970, n. 281 (Delega al Governo per il passaggio delle funzioni e del personale statali alle Regioni), aveva con il decreto del Presidente della Repubblica 15 gennaio 1972, n. 11 mantenuto ferma la competenza degli organi statali "in ordine alla applicazione di regolamenti, direttive ed altri atti della Comunità economica europea concernenti la politica dei prezzi e dei mercati, il commercio di prodotti agricoli e gli interventi sulle strutture agricole" (art. 4 lett. b: cfr. anche art. 4 lett. a e m, ed art. 8), attuando una limitata delega alle Regioni per l'esercizio di funzioni amministrative in ordine all'applicazione dei regolamenti C.E.E. relativi alle strutture agricole e l'attuazione degli interventi conseguenti alle decisioni comunitarie (art. 13, lett. a).

La legittimità di queste disposizioni, contestata da alcune Regioni, fu riconosciuta dalla Corte con sentenza n. 142 del 1972, osservando tra l'altro che "ogni distribuzione dei poteri di applicazione delle norme comunitarie che si effettui a favore di enti minori diversi dallo Stato contraente (che assume la responsabilità del buon adempimento di fronte alla Comunità) presuppone il possesso da parte del medesimo degli strumenti idonei a realizzare tale adempimento anche di fronte all'inerzia della Regione che fosse investita della competenza dell'attuazione"; e che di conseguenza, nel difetto di tali strumenti, il solo mezzo utilizzabile per fare concorrere le Regioni all'attuazione delle norme comunitarie era quello della delegazione di poteri, "che appunto offre il rimedio della sostituibilità del delegante in caso di inadempimento del delegato".

5. - Dovendosi successivamente dare applicazione alle importanti direttive del Consiglio delle Comunità europee numeri 159, 160, 161 del 17 aprile 1972, il disegno governativo di legge presentato alla Camera nel 1973 prevedeva l'attribuzione alle Regioni di una limitata competenza amministrativa, delegata dallo Stato, con facoltà del Ministro per l'agricoltura di provvedere sostituendosi alle Regioni in caso di inadempimento o inerzia degli organi regionali, o divergenza di valutazione con gli organi dello Stato rispetto agli obiettivi da conseguire (art. 20). Ma nella discussione alla Camera, in considerazione delle istanze prospettate dalle Regioni (oggetto già di riserve da parte di alcuni membri della Commissione parlamentare per le questioni regionali, nel parere sullo schema del decreto delegato n. 11 del 1972), il disegno di legge fu profondamente modificato, riconoscendo alle Regioni ampia competenza legislativa ed amministrativa per l'attuazione delle direttive comunitarie, ed introducendo con la disposizione dell'articolo 27 lo strumento idoneo a consentire allo Stato di dare esecuzione agli obblighi comunitari nel caso di persistente inadempimento da parte delle Regioni.

Di fatto, l'art. 2 della legge 9 maggio 1975, n. 153, dichiara che le Regioni a statuto ordinario, e rispettivamente le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano, possono con proprie leggi regolare la materia di attuazione delle direttive C.E.E. nn. 159, 160, 161 del 1972, "purché in ogni caso siano rispettati i limiti stabiliti dalle direttive comunitarie stesse", e gli altri limiti ivi espressamente indicati con riguardo ai diversi tipi di autonomia. La legge contiene inoltre numerose disposizioni dirette a disciplinare i rapporti tra Stato e Regioni, l'emanazione di norme sostanziali e procedurali da parte delle Regioni, l'esercizio delle conseguenti funzioni amministrative, e fissa altresì i termini per i diversi adempimenti di competenza delle Regioni a statuto ordinario o speciale e delle Province autonome. In particolare, l'art. 26 precisa che le funzioni amministrative debbono essere esercitate "in conformità delle direttive espresse dalla presente legge e di quelle che saranno successivamente emanate dallo Stato con le modalità di cui dall'art. 8 del decreto del Presidente della Repubblica 15 gennaio 1972, n. 11", ossia nell'esercizio delle funzioni di indirizzo e coordinamento attinenti ad esigenze di carattere unitario, "anche con riferimento agli obiettivi del programma economico nazionale ed agli impegni derivanti dagli obblighi internazionali ed in particolare dalla Comunità economica europea".

6. - Il legislatore, ai fini dell'applicazione delle direttive comunitarie nell'ordinamento interno, ha dunque ritenuto di trasferire questi poteri, nel palese intento di consentire una maggiore aderenza alle esigenze e particolarità delle situazioni locali in ordine al conseguimento degli obiettivi prescritti dalle direttive in questione. Il legislatore ha peraltro avuto cura di evitare possibili remore o ritardi nell'adempimento degli obblighi comunitari imposti dalle direttive stesse; e a tal fine ha dettato le disposizioni dell'art. 2, secondo comma, e dell'art. 27, che assicurano l'applicazione della legge statale fino a quando le Regioni o Province non abbiano provveduto con proprie leggi, e riservano al Governo la facoltà di intervento sostitutivo nel caso di "persistente inadempimento degli organi regionali nello svolgimento delle attività amministrative di attuazione delle direttive comunitarie".

Agli stessi principi si ispira anche la delega legislativa contenuta nella successiva legge 22 luglio 1975, n. 382, ove all'art. 1, terzo comma n. 5, é previsto in via generale il trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative relative all'attuazione dei regolamenti e direttive della C.E.E., riservando tuttavia al Governo la facoltà di intervento sostitutivo "in caso di accertata inattività degli organi regionali che comporti inadempimento agli obblighi comunitari".

Le ricorrenti, pur riconoscendo il carattere vincolante delle direttive comunitarie, osservano che lo Stato non potrebbe intervenire nello svolgimento della loro attività amministrativa senza invadere la sfera di competenza loro propria in materia di agricoltura. Ma questa sfera di competenza, come già si é rilevato, oltre ai limiti costituzionali nei confronti dello Stato incontra limiti nelle norme e direttive comunitarie, per cui nell'ambito dell'ordinamento comunitario anche le competenze primarie o esclusive dell'autonomia regionale, non meno di quelle proprie della sovranità statuale, sono soggette a modificazioni che si riflettono necessariamente nelle conseguenti disposizioni di adattamento dell'ordinamento interno.

Né vale obiettare che la competenza per l'attuazione delle direttive comunitarie dovrebbe essere riconosciuta alle Regioni, quali "organi nazionali" aventi competenza a provvedere, e che lo Stato non potrebbe considerarsi l'unico ente legittimato ad assicurare l'osservanza delle direttive stesse nell'ambito dell'ordinamento interno. Per vero, a prescindere dalla possibilità di qualificare le Regioni quali "organi nazionali" ai sensi del disposto dell'art. 189 n. 3 del Trattato di Roma, é certo che l'art. 189 dichiara le direttive vincolanti per lo Stato, e che solo allo Stato é riferibile la responsabilità internazionale nel caso di violazione degli obblighi comunitari. L'intervento del Governo previsto dall'art. 27 della legge n. 153 del 1975, trova precisamente la sua giustificazione nel generale interesse nazionale ad un puntuale e tempestivo adempimento degli obblighi in questione nell'intero territorio dello Stato, in inscindibile correlazione con l'esclusiva responsabilità internazionale dello Stato.

Il Governo, al quale é consentito di ricorrere, nelle competenti sedi, contro leggi e provvedimenti regionali illegittimi per violazione delle direttive comunitarie, sarebbe completamente disarmato di fronte all'inerzia amministrativa delle Regioni, ove non gli fosse riconosciuto il potere-dovere di intervenire in via sostitutiva, che la legge gli ha espressamente riservato nell'atto stesso in cui attribuiva alle Regioni le funzioni amministrative di attuazione delle direttive C.E.E.

7. - Il legislatore ha regolato questo potere sostitutivo con opportune ed idonee garanzie: esso é infatti previsto con espresso ed esclusivo riferimento alle attività di attuazione delle direttive comunitarie; é ammesso solo nel caso di persistente inadempimento degli organi regionali, ossia non di semplice inosservanza dei termini stabiliti dalla legge stessa, ma di inattività protratta oltre ogni ragionevole limite, qualificabile come inadempimento; deve essere autorizzato dal Consiglio dei ministri, dopo aver sentito il presidente della giunta regionale interessata, al quale é pertanto consentito di fornire ogni eventuale giustificazione ed assicurazione.

Le ricorrenti prospettano la possibilità che l'intervento governativo possa verificarsi anche successivamente alla emanazione delle norme attuative e procedurali di loro competenza: ma é ovvio che il Ministro per l'agricoltura, nel disporre il compimento degli atti in questione, dovrà rispettare la normativa regionale legittimamente in vigore, osservando anche, nei limiti del possibile, le disposizioni di carattere procedurale.

Le ricorrenti denunciano inoltre la facoltà attribuita dall'art. 27 al Governo di proporre, ove occorra, le opportune variazioni di bilancio, come palese violazione della loro autonomia finanziaria. Anche questa censura non é fondata, sia perché la norma consente soltanto la formulazione di proposte ai competenti organi regionali o provinciali, ai quali viene riservato il potere di provvedere in via definitiva, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, sia soprattutto perché la norma trova giustificazione nella necessità di svolgimento di un'attività amministrativa la quale comporta oneri di spesa anche per le Regioni, in conformità agli stanziamenti previsti dagli artt. 4 e 5 della stessa legge.

Per le considerazioni suesposte, deve escludersi che la disposizione dell'art. 27 possa qualificarsi come inammissibile attentato all'autonomia, che anzi dalla legge é stata riconosciuta ed arricchita con l'attribuzione di ampi poteri in ordine all'esercizio delle funzioni legislative ed amministrative occorrenti per l'attuazione delle direttive comunitarie; né può in essa ravvisarsi un precedente pericoloso per l'autonomia stessa, perché la facoltà di intervento sostitutivo é stata riservata al Governo con esclusivo riferimento all'attività di attuazione delle direttive comunitarie, e trova giustificazione solo negli obblighi internazionali dello Stato e nelle connesse responsabilità.

Non occorre aggiungere che il ricorso allo scioglimento del Consiglio regionale, previsto dall'art. 126 della Costituzione e prospettato dalle ricorrenti quale rimedio per il caso di persistente inattività degli organi regionali, non potrebbe essere considerato mezzo idoneo allo scopo che il legislatore ha inteso perseguire, che non é quello di applicare una sanzione alle Regioni e Province inadempienti, bensì di assicurare il puntuale adempimento degli obblighi comunitari dello Stato.

Non sussiste, infine, la pretesa violazione dell'accordo De Gasperi-Gruber, perché le disposizioni con cui il legislatore nazionale ha provveduto a garantire l'attuazione delle direttive della C.E.E. nell'intero territorio dello Stato non recano alcuna lesione alla speciale autonomia della Provincia di Bolzano.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 27 della legge 9 maggio 1975, n. 153, (Attuazione delle direttive del Consiglio delle Comunità europee per la riforma dell'agricoltura), promossa dalle Regioni Sardegna e Valle d'Aosta e dalle Province di Trento e Bolzano con i ricorsi indicati in epigrafe, in riferimento agli artt. 116, 117, 118 della Costituzione; 3, lett. d, e 6 dello Statuto della Regione Sardegna; 2, 4 e 48 dello Statuto della Regione Valle d'Aosta; 3, terzo comma, 8 n. 21, 16, 38, 49 e 51 dello Statuto della Regione Trentino-Alto Adige e delle Province autonome di Trento e Bolzano.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, 14 luglio 1976.

Paolo ROSSI - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO.

Arduino SALUSTRI - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 15 luglio 1976.