Sentenza n. 156 del 1976
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SENTENZA N. 156

ANNO 1976

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici:

Prof. Paolo ROSSI, Presidente

Dott. Luigi OGGIONI

Avv. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Avv. Leonetto AMADEI

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 50, secondo comma, del r.d. 30 dicembre 1923, n. 3269 (legge di registro), promosso con ordinanza emessa il 25 maggio 1973 dalla Commissione tributaria di secondo grado di Milano sul ricorso di Colombo Natale contro l'Ufficio del registro di Milano, iscritta al n. 184 del registro ordinanze 1974 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 159 del 19 giugno 1974.

Udito nella camera di consiglio del 22 aprile 1976 il Giudice relatore Ercole Rocchetti.

Ritenuto in fatto

Con ordinanza emessa il 25 maggio 1973 nel procedimento relativo al ricorso proposto da Colombo Natale contro l'Ufficio del registro di Milano, la Commissione tributaria di secondo grado di Milano ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 50 della legge del registro approvata con r.d. 30 dicembre 1923, n. 3269, con riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione.

Ad avviso del giudice a quo, la disciplina contenuta nel secondo comma del citato art. 50, che esclude dal giudizio di congruità solo le vendite effettuate ai pubblici incanti, mentre assoggetta le vendite forzate senza incanto al principio generale dell'accertamento del valore venale da parte degli uffici dell'Amministrazione finanziaria, contrasta con gli artt. 3 e 53 della Costituzione in quanto, senza alcun ragionevole motivo, sottopone le espropriazioni immobiliari a un diverso trattamento, discriminando fra le aggiudicazioni al pubblico incanto e quelle effettuate senza incanto.

L'ordinanza é stata ritualmente notificata, comunicata e pubblicata, ma nessuno si é costituito nel giudizio avanti la Corte costituzionale.

Considerato in diritto

1. - L'art. 50, secondo comma, della legge del registro, approvata con r.d. 30 dicembre 1923, n. 3269 (decreto ora non più in vigore, ma applicabile nel giudizio a quo), dispone che la tassa proporzionale per la vendita di mobili ed immobili ai pubblici incanti é corrisposta sul prezzo risultante dall'ultimo incanto, e cioé su quello di aggiudicazione.

Per le altre vendite forzate, che per legge debbono o possono compiersi con modalità diverse da quelle del pubblico incanto, la tassa viene applicata non già sul prezzo di aggiudicazione, ma, secondo la regola generale espressa nell'art. 30 della stessa legge di registro, sul valore venale in comune commercio dei beni che sono, perciò, assoggettati al giudizio di valutazione da parte dell'ufficio fiscale competente.

Tale differenza di trattamento fra vendite forzate, con o senza incanto, sul punto della determinazione del valore e quindi dell'imponibile, é sembrata ingiustificata alla commissione tributaria di secondo grado di Milano, la quale, dovendo decidere sulla tassazione di un immobile, venduto in sede fallimentare senza incanto ai sensi dell'art. 108 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, ha impugnato la citata norma dell'art. 50 con riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, sostenendo che le due situazioni, oggettivamente eguali, non possono essere diversamente disciplinate.

2. - La questione sottoposta all'esame della Corte investe una proposizione normativa che, sotto altri aspetti, é stata già esaminata in sede di controllo di costituzionalità.

Il dubbio sulla legittimità della norma impugnata era stato infatti proposto sotto il profilo della disparità di trattamento tra le vendite effettuate ai pubblici incanti e quelle del libero mercato; esso, per altro, venne disatteso dalla Corte in considerazione che il diverso criterio di valutazione, previsto dalla norma per le vendite ai pubblici incanti, trova la sua giustificazione nel fatto che le vendite effettuate con tale sistema danno assoluta garanzia sull'autenticità del prezzo pagato e possono far presumere, ragionevolmente, che il prezzo di aggiudicazione sia corrispondente al valore venale del bene acquistato sul libero mercato (sent. n. 62 del 1965). Richiamandosi a questi criteri, in altra occasione, la Corte, investita dell'esame della legittimità costituzionale dell'art. 4 del r.d.l. 19 agosto 1943, n. 737, che, in deroga all'art. 50 della legge del registro, assoggettava al procedimento di valutazione le vendite coatte promosse in dipendenza di mutui in danaro, ha ritenuto che, nell'ambito dei trasferimenti mediante aggiudicazione ai pubblici incanti, il trattamento riservato a quelle vendite non trovasse alcuna logica giustificazione e che, di conseguenza, il sistema dell'accertamento del valore venale, per i beni trasferiti ai pubblici incanti in dipendenza di mutui in danaro, dovesse ritenersi illegittimo (sent. n. 59 del 1970).

3. - L'orientamento della Corte sul fondamento e l'ambito di applicazione della deroga alla ammissibilità del giudizio di stima da parte degli uffici finanziari, consente di individuare i presupposti necessari alla soluzione della questione in esame.

Al riguardo occorre osservare che anche per le vendite coatte senza incanto, disciplinate dagli artt. 570 e seguenti del codice di procedura civile, non sono contestabili l'autenticità del prezzo pagato e la sua presumibile corrispondenza al prezzo di mercato: ciò avviene grazie a un procedimento di determinazione del valore venale che, per essere posto sotto il controllo del giudice dell'esecuzione, e subordinato a rigorose forme di pubblicità, presenta ampie garanzie di oggettività e di automatismo per la realizzazione del massimo ricavo possibile.

É evidente quindi che anche per i beni soggetti ad esecuzione forzata venduti senza incanto sussistono le stesse ragioni perché si applichi la normativa contenuta nel secondo comma dell'art. 50 della legge del registro: ne deriva che la discriminazione attuata dalla norma impugnata nell'ambito dell'espropriazione forzata, tra vendite realizzate con il sistema dell'incanto e vendite senza incanto, essendo priva di ogni fondamento razionale, deve essere considerata costituzionalmente illegittima.

La preclusione, che all'amministrazione finanziaria viene così imposta, nel procedere all'accertamento del valore dei beni trasferiti, riguarda esclusivamente il sistema delle vendite degli immobili senza incanto disciplinato dagli artt. 570 e seguenti del codice di procedura civile, che risulta applicabile anche in sede di liquidazione dell'attivo fallimentare, in virtù del richiamo contenuto nell'art. 108 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267. Restano invece escluse, come é ovvio, le vendite e le aggiudicazioni effettuate a trattativa privata, in ordine alle quali non sussistono i presupposti e le garanzie circa la corrispondenza tra il prezzo stabilito dalle parti e il valore del bene in comune commercio, che giustificano, come s'é detto, l'esonero dal giudizio di congruità.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 50, secondo comma, della legge del registro, approvata con r.d. 30 dicembre 1923, n. 3269, nella parte in cui non dispone che anche per le vendite forzate senza incanto, effettuate ai sensi degli artt. 570 e seguenti del codice di procedura civile, la tassa proporzionale é dovuta sul prezzo di aggiudicazione.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 1976.

Paolo ROSSI - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO.

Arduino SALUSTRI - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 7 luglio 1976.