Sentenza n. 127 del 1975
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SENTENZA N. 127

ANNO 1975

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO, Presidente

Dott. Luigi OGGIONI

Avv. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI

Avv. Leonetto AMADEI

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO,

          ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 147, secondo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), promosso con ordinanza emessa il 15 ottobre 1973 dalla Corte suprema di cassazione - sezione prima civile - nel procedimento civile vertente tra Raccuglia Michele e il fallimento della società Raccuglia e Maltese, iscritta al n. 53 del registro ordinanze 1974 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 75 del 20 marzo 1974.

Udito nella camera di consiglio del 20 febbraio 1975 i1 Giudice relatore Michele Rossano.

Ritenuto in fatto

Con istanza 20 ottobre 1969 Raccuglia Michele, socio della fallita società di fatto Raccuglia Michele e Maltese Laura, chiese al giudice delegato di promuovere l'estensione del fallimento a Signorelli Nicola. Il giudice delegato rigettò l'istanza. Il Raccuglia propose ricorso, che venne rigettato dal tribunale di Napoli con decreto 6 luglio 1970. Contro questo decreto il Raccuglia propose reclamo alla Corte di appello di Napoli, la quale, con decreto 19 gennaio 1971, confermò il provvedimento impugnato, avendo ritenuto inammissibile il reclamo del fallito per difetto di legittimazione, dato che solo il curatore del fallimento, quale unico titolare del potere di chiedere l'estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili, era legittimato ad impugnare il decreto di rigetto della domanda di estensione del fallimento. Avverso tale decreto della Corte di appello il Raccuglia propose ricorso per cassazione.

La Corte suprema di cassazione, con ordinanza 15 ottobre 1973 - ritenuta l'ammissibilità del ricorso straordinario ai sensi dell'art. 111 della Costituzione - ha sollevato, di ufficio, la questione di legittimità costituzionale della norma di cui all'art. 147 della legge fallimentare - in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione - sotto il profilo che tale norma non attribuisce al fallito la legittimazione a proporre istanza al tribunale per la dichiarazione di fallimento dei soci illimitatamente responsabili.

Dopo avere richiamato la sentenza 16 luglio 1970, n. 142 - con la quale questa Corte ha dichiarato la illegittimità costituzionale del citato art. 147 della legge fallimentare nella parte in cui non consentiva al creditore di chiedere la estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili - ha osservato che l'evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali é nel senso di maggiore riconoscimento e, in definitiva, di un ampliamento della tutela giurisdizionale della situazione giuridica del fallito, con la soppressione di limitazione derivante da una concezione assoluta della compressione subita dallo stesso per effetto della dichiarazione di fallimento. Ha, poi, rilevato che al fallito, nella ipotesi della sua ammissione ad esercitare i diritti di istanza ex art. 147 della legge fallimentare, non verrebbe concessa, in via immediata e diretta, la possibilità di incidere sulla sua situazione patrimoniale, il che sarebbe assai difficilmente conciliabile con il sistema del diritto positivo, ma verrebbe soltanto attribuita la facoltà di interloquire circa l'estensione del procedimento fallimentare con azione dall'esterno, volta ad identificare le dimensioni oggettive e soprattutto soggettive di tale procedimento.

Ha aggiunto che la suddetta facoltà, eventualmente attribuita al fallito, costituirebbe, in definitiva, solo il perpetuarsi di quella libera facoltà che il debitore, non ancora fallito, ha, in base all'art. 6 della legge fallimentare, di chiedere la dichiarazione del proprio fallimento o del fallimento di una ritenuta società di fatto tra esso debitore ed altri soggetti. Ha concluso rilevando che é seriamente dubitabile che il sistema degli artt. 3 e 24 della Costituzione sia rispettato dal menzionato art. 147 della legge fallimentare, che inibisce, senza giustificazione né morale, né tecnico- giuridica, la difesa giurisdizionale di un sicuro diritto sostanziale quale quello di affermare la esistenza di condebitori solidali, sui quali anche incombe il dovere di pagare i comuni creditori, per di più con un chiaro rapporto interno, in forza del quale può dirsi che il fallito si presenti ufficialmente come creditore di quei soggetti.

L'ordinanza é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 75 del 20 marzo 1974. Nel giudizio davanti a questa Corte le parti non si sono costituite, né é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

1. - La questione di legittimità costituzionale dell'articolo 147, secondo comma, del. r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), "sotto il profilo che tale norma nega al fallito la legittimazione a proporre istanza al tribunale fallimentare per la dichiarazione di fallimento dei soci illimitatamente responsabili" é stata sollevata dalla Corte di cassazione con riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, rilevando che questa Corte, con sentenza 16 luglio 1970, n. 142, dichiarò l'illegittimità costituzionale di detta norma nella parte in cui negava "al creditore interessato la legittimazione a proporre istanza di dichiarazione di fallimento di altri soci illimitatamente responsabili nelle forme dell'art. 6 del r.d. predetto".

2. - Il riferimento alla citata sentenza n. 142 del 1970 postula la precisazione dei limiti della questione in essa decisa quali si desumono dal dispositivo alla luce della motivazione. In tale sentenza questa Corte, nell'interpretare il secondo comma dell'art. 147, osservò: "la disposizione si suole ricondurre al criterio che domina il processo fallimentare, per cui, messo questo in movimento, non v'é azione del creditore che non vi si debba inserire; ma l'applicazione di tale principio non deve togliere al creditore la legittimazione a proporre istanze al giudice fallimentare a tutela del proprio interesse, compatibilmente con la struttura del processo fallimentare".

Ora la distinzione tra "azione che non debba essere inserita nel processo" e "legittimazione a proporre istanze a tutela del proprio interesse, compatibilmente con la struttura del processo fallimentare" esclude che tale legittimazione abiliti il creditore a proporre prove come in un processo ordinario. Questa Corte, in coerenza con tale premessa, precisò che "la istanza del creditore non sbocca in una di quelle azioni esecutive individuali, che, per il carattere generale del concorso fallimentare, sono vietate dall'art. 51 legge fallimentare, ma intende dare al procedimento concorsuale la sua giusta dimensione; deve necessariamente esercitarsi mediante ricorso al tribunale, così come é prescritto nell'art. 6 della legge stessa, e non viene perciò a turbare le linee del procedimento o a modificarne i principi, così come non turba queste linee e non ne modifica i principi la domanda del curatore ammessa nella stessa norma denunciata".

Escluso, dunque, che la istanza del creditore, ai sensi del secondo comma dell'art. 147, abbia carattere di azione, che permetta, nella fase sommaria del procedimento in cui é consentita a termini dell'art. 6, l'ammissibilità di prove - deve ritenersi che il tribunale possa pronunciare a termini dell'articolo 5 (legge fallimentare) la dichiarazione di fallimento ogni qualvolta, ma soltanto, gli risultino esistenti i requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti dalla legge per tale pronuncia. E, se é consentita una sommaria delibazione sull'esistenza di requisiti che rivelino, per la loro manifestazione nei confronti di terzi, una responsabilità patrimoniale del soggetto alla stregua della disciplina del fallimento, dell'impresa e delle società, non può ritenersi senza violazione dell'art. 24 della Costituzione e della disciplina menzionata una dichiarazione di fallimento che ritenga accertata, in mancanza di un'indagine probatoria, l'esistenza di requisiti che non rivelino, con esteriore manifestazione, il loro carattere qualificante.

Con la precisazione di tali limiti deve ritenersi fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 147, secondo comma (legge fallimentare), sollevata dalla Corte di cassazione e concernente l'ammissibilità dell'istanza di fallimento proposta dal fallito. Gli effetti, che gli artt. 42 e 43 (legge fallimentare) importano sulla disponibilità dei beni da parte del fallito e sulla sua legittimazione processuale attiva e passiva relativamente ai rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, giustificano, a termini degli artt. 3 e 24 della Costituzione, la pronuncia di illegittimità, come ritenuto per l'ammissibilità dell'istanza proposta dal creditore con la suindicata sentenza di questa Corte.

In conseguenza della decisione adottata deve anche dichiararsi, a termini dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, sulla costituzione e sul funzionamento di questa Corte, l'illegittimità dell'art. 22 (legge fallimentare), nella parte in cui non legittima il fallito a proporre reclamo contro la pronuncia del tribunale che ha respinto l'istanza per la dichiarazione di fallimento del socio a termini del secondo comma dell'art. 147 (legge fallimentare).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 147, secondo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (cosiddetta legge fallimentare), nella parte in cui nega al fallito la legittimazione a chiedere la dichiarazione di fallimento dei soci illimitatamente responsabili;

dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la illegittimità costituzionale dell'art. 22 della legge fallimentare, nella parte in cui nega al fallito la legittimazione a proporre reclamo contro la pronuncia del tribunale che ha respinto l'istanza per la dichiarazione di fallimento di socio illimitatamente responsabile.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 1975.

Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Paolo ROSSI - Leonetto AMADEI - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO.

Arduino SALUSTRI - Cancelliere

Depositata in cancelleria il 28 maggio 1975.