Sentenza n.167 del 1973
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SENTENZA N. 167

ANNO 1973

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO, Presidente

Dott. Giuseppe  VERZÌ

Dott. Giovanni  BATTISTA BENEDETTI

Dott. Luigi  OGGIONI

Dott. Angelo  DE MARCO

Avv. Ercole  ROCCHETTI

Prof. Enzo  CAPALOZZA

Prof. Vincenzo  MICHELE TRIMARCHI

Prof. Vezio  CRISAFULLI

Dott. Nicola  REALE

Prof. Paolo  ROSSI

Avv. Leonetto  AMADEI

Prof. Giulio  GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido  ASTUTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 188, primo comma, 189, primo comma, n. 3, del codice penale e degli artt. 274 e 612, terzo comma, del codice di procedura penale, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 28 aprile 1971 dal pretore di Napoli nel procedimento di esecuzione nei confronti di Cardillo Antonio, iscritta al n. 243 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 233 del 15 settembre 1971;

2) ordinanza emessa l'11 dicembre 1971 dal pretore di Pisa nel procedimento di esecuzione nei confronti di Mori Nilo, iscritta al n. 24 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 65 dell'8 marzo 1972;

3) ordinanza emessa il 20 marzo 1972 dal tribunale di Pisa nel procedimento di esecuzione nei confronti di Bruno Giuseppe, iscritta al n. 236 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 201 del 2 agosto 1972.

Visti gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 17 ottobre 1973 il Giudice relatore Paolo Rossi;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso di un incidente d'esecuzione promosso da tale Cardillo avverso il precetto di pagamento di lire 78.340 per spese di mantenimento in carcere, il pretore di Napoli ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale degli artt. 188 del codice penale e 612 del codice di procedura penale, secondo cui il condannato é obbligato a rimborsare allo Stato le spese per il suo mantenimento, in riferimento agli artt. 53 e 3 della Costituzione.

Osserva il giudice a quo che, non potendosi condividere la prevalente opinione secondo cui occorre distinguere tra spese di giustizia generali e speciali, queste ultime divisibili e rapportabili a ogni atto o ad ogni singolo condannato, le spese per il mantenimento in carcere dovrebbero gravare sulla collettività, anziché sul detenuto, in relazione alla funzione emendatrice della pena, ed in conformità al precetto costituzionale secondo cui "tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva" (art. 53, primo comma, Cost.).

La norma impugnata contrasterebbe inoltre con il principio costituzionale d'uguaglianza, raffrontata al diverso disposto dell'art. 213 del codice penale, per il quale gli internati per misura di sicurezza detentiva sono obbligati al rimborso delle spese di mantenimento nel solo caso che lavorino durante l'internamento, mediante trattenuta di una quota della remunerazione.

É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 3 agosto 1971, chiedendo dichiararsi l'infondatezza della questione proposta.

Osserva la difesa dello Stato che l'introduzione dell'obbligo del condannato di rimborsare le spese di mantenimento carcerario, costituì uno sviluppo logico del sistema tradizionale secondo cui le spese processuali erano poste a carico del condannato pur essendo l'esecuzione della pena una funzione pubblica; l'obbligo di rimborsare il mantenimento era stato giustificato sotto il profilo che le relative spese erano indipendenti dallo stato di detenzione, né vi era ragione di far vivere il detenuto a carico delle persone oneste.

L'Avvocatura generale rileva inoltre che il richiamo agli artt. 53 e 3 della Costituzione appare errato. Invero, da un lato, secondo la giurisprudenza della stessa Corte costituzionale, il principio della capacità contributiva non ha riguardo a quelle prestazioni di servizi il cui costo può esser determinato divisibilmente, come per le spese in esame (sentenza n. 30 del 1964); né va trascurato il valore pedagogico dell'obbligo di rimborsare le spese processuali e di mantenimento, che pure risponde a criteri di giustizia retributiva e distributiva, rientranti tra le finalità della pena. D'altro canto, la diversità di disciplina nei confronti dell'internato per misure di sicurezza trova giustificazione nel fatto che quest'ultimo subisce la restrizione della libertà per motivi di prevenzione, trovandosi quindi in condizioni non assimilabili a quelle del condannato in espiazione di pena.

2. - Nel corso di un procedimento d'esecuzione per rimborso di spese di mantenimento in carcere nei confronti di Mori Nilo, il pretore di Pisa ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale degli artt. 188, 189, n. 3, del codice penale, 274, 612, terzo comma, del codice di procedura penale, secondo cui il condannato a pena detentiva é obbligato a rimborsare allo Stato le spese per il suo mantenimento in carcere (obbligo rafforzato da ipoteca legale), in riferimento alla funzione emendatrice della pena sancita dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione.

Rileva innanzitutto il giudice a quo che l'obbligo di rimborsare dette spese, pur assumendo formalmente la qualifica di obbligazione, in re altà assolve ad una funzione sanzionatoria, come risulta dal concorso dei seguenti elementi: a) l'obbligazione é personalissima, non estendendosi al civilmente responsabile né trasmettendosi agli eredi; b) le spese di custodia preventiva non sono dovute per la parte relativa alla eventuale maggior durata di tale custodia rispetto alla pena concretamente inflitta.

Pertanto, riconosciuto che non si tratta del costo di un servizio ma di un momento afflittivo della condizione del condannato, occorre ammettere - prosegue l'ordinanza di remissione - che tale istituto contrasta con il precetto costituzionale secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. A riprova di ciò il giudice a quo rileva che il Senato, elaborando il nuovo progetto di ordinamento penitenziario, ha approvato, nella seduta del 10 marzo 1971, il principio secondo cui dette spese sono a carico esclusivo dello Stato, in accoglimento di quelle considerazioni critiche che ponevano in luce la difficoltà estrema dell'ex detenuto di poter assolvere a tale rimborso appena uscito dal carcere, nel momento del reinserimento nella vita sociale rimanendo quasi costretto a nuovamente delinquere per evitare l'esecuzione forzata e l'asporto dei mobili di casa.

É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 28 marzo 1972, chiedendo dichiararsi l'infondatezza della questione prospettata. La difesa dello Stato premette che l'obbligo in questione sembra fondato sul principio generale che vieta l'arricchimento senza giusta causa (art. 2041 codice civile) e conseguenzialmente esso viene inquadrato tra le sanzioni civili. Peraltro non occorrerebbe prendere posizione sulla vexata quaestio degli effetti rieducativi o diseducativi dell'obbligo stesso, valutati, durante la V legislatura, in senso opposto, dal Ministro Guardasigilli e dalla Commissione giustizia del Senato. Invero, secondo l'Avvocatura generale dello Stato, é sufficiente il richiamo ai principi affermati dalla stessa Corte costituzionale in ordine alla funzione emendatrice della pena.

Nella sentenza n. 12 del 1966, confermata dalla n. 113 del 1968, fu rammentato, infatti, che il principio di rieducazione é pienamente compatibile con le altre finalità proprie della pena, e che va visto nel complesso unitario del precetto in cui é inserito, volto a garantire essenzialmente che l'esecuzione della pena si risolva in un trattamento umano e civile, che deve tendere alla rieducazione del condannato, senza tuttavia che l'espressione accolta designi l'adesione ad una delle tesi sostenute dalle varie scuole penalistiche in ordine alla funzione della pena.

Pertanto la questione prospettata risulterebbe infondata non potendosi configurare una violazione costituzionale ad opera di norme che non disciplinano la pena ma un singolo aspetto, neppure essenziale, della medesima, il cui carattere rieducativo, o meno, é tuttora discusso ed opinabile.

3. - Nel corso di un incidente di esecuzione determinato dall'opposizione di Bruno Giuseppe avverso il precetto di pagamento di lire 306.880 per spese di mantenimento in carcere per la durata di 959 giorni, il tribunale di Pisa ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 188, primo comma, del codice penale - nella parte in cui stabilisce l'obbligo di rimborsare all'erario le spese per il mantenimento in carcere anche a carico del condannato che durante la carcerazione non abbia sufficienti mezzi di sostentamento - in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 36, primo comma, della Costituzione.

Osserva il giudice a quo che la norma impugnata contrasterebbe con il principio di eguaglianza, in quanto riserva il medesimo trattamento tanto ai carcerati che conservano, durante la detenzione, un proprio reddito, quanto a quelli che ne rimangono assolutamente privi perché non ammessi a lavorare, a cagione della notoria impossibilità dell'amministrazione carceraria di fornire lavoro a tutti i detenuti. É quindi irragionevole che lo Stato possa pretendere anche da questi ultimi il rimborso delle spese di mantenimento in carcere.

La mancata applicazione dell'art. 145, n. 2, del codice penale, che prevede in generale il prelievo di dette spese dalla remunerazione, fa sì che l'ex detenuto non abbiente venga ad essere assoggettato a procedura esecutiva proprio nel momento problematico del suo reinserimento nella vita sociale, rendendolo molto più difficile. La norma impugnata contrasterebbe quindi anche con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, quanto meno nella parte in cui pone il suddetto obbligo di rimborso anche a carico del detenuto non abbiente.

Infine l'art. 188 citato contrasterebbe anche con il principio secondo cui il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata al lavoro svolto e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un'esistenza dignitosa (articolo 36, primo comma, Cost.): infatti poiché la norma impugnata impone l'obbligo di rimborso delle spese di mantenimento, l'ammontare della mercede - già di per sé bassissima ed ulteriormente ridotta di tre decimi ex art. 125 del regolamento carcerario - apparirebbe palesemente insufficiente per i bisogni del lavoratore detenuto e della sua famiglia.

Nessuna parte si é costituita in giudizio in questa sede.

Considerato in diritto

1. - Le ordinanze dei pretori di Napoli e di Pisa sollevano, sostanzialmente, la medesima questione, prospettata anche dal tribunale di Pisa in termini parzialmente diversi; i conseguenti giudizi possono quindi essere riuniti e decisi con unica sentenza.

2. - La Corte costituzionale é chiamata a decidere se l'obbligo del condannato detenuto di rimborsare all'erario le spese per il suo mantenimento in carcere, stabilito dagli artt. 188, primo comma, 189, n. 3, del codice penale, e 274, 612, terzo comma, del codice di procedura penale, contrasti o meno con il principio della capacità contributiva e con la funzione emendatrice della pena (artt. 53, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione), sotto il profilo che le spese di mantenimento dovrebbero gravare sulla collettività, in rapporto alla funzione pubblica della pena, e per il dubbio che l'obbligo suddetto ostacoli la rieducazione del condannato.

Si assume altresì che tale obbligo contrasti con il principio di eguaglianza in relazione al diverso regime proprio degli internati per misure di sicurezza detentive, tenuti al rimborso nel solo caso che lavorino durante l'internamento.

La questione non é fondata.

Va premesso che l'obbligo del condannato detenuto di rimborsare all'erario le spese di mantenimento in carcere - concernente solo il costo degli alimenti, del corredo, e delle medicine (art. 2 r.d. 18 giugno 1931, n. 787) - costituisce notoriamente, secondo la formulazione legislativa e l'interpretazione unanime della dottrina e della giurisprudenza, un effetto risarcitorio civile del reato.

Questa Corte ha già avuto occasione di affermare, in relazione alle spese del processo penale, che le obbligazioni civili non costituiscono una sanzione accessoria della pena, di cui debbano seguire la sorte, bensì un effetto dell'illecito, che é sufficiente a farne gravare il costo a carico dell'autore (sentenza n. 30 del 1964); e nella sentenza n. 135 del 1972 ha riconosciuto espressamente il carattere di obbligazione civilistica derivante dal reato dell'obbligo di pagamento delle spese di mantenimento in carcere.

Va altresì ricordato che é stato più volte ribadito da questa Corte che l'art. 53 della Costituzione non si applica alle prestazioni di servizi giudiziari il cui costo si possa determinare divisibilmente, come nella specie (sentenze n. 30 del 1964, nn. 85 del 1969 e 23 del 1968). Nulla vieta, tuttavia, che il legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità politica, possa disciplinare altrimenti la materia, eventualmente tenendo conto delle diverse condizioni economiche degli stessi detenuti.

Quanto precede esclude pure che possa essere invocato, nel caso in esame, il principio della emenda (art. 27, terzo comma, della Costituzione), costantemente interpretato da questa Corte nel senso che esso non confligge con le altre funzioni della pena (afflittive, di prevenzione) e che si riferisce propriamente alla esecuzione delle pene in senso stretto, tanto da non poter essere applicato alle pene sospese o alle misure di sicurezza (sentenze nn. 12 del 1966, 48 del 1962, 106 del 1972). Né può ignorarsi, in proposito, che, secondo molti, il rimborso delle spese processuali e del mantenimento ha un elevato contenuto pedagogico.

Rimane da rilevare che la denunciata diversità di regime, in tema di rimborso di spese di mantenimento tra internati per misure di sicurezza e condannati, trova giustificazione nel fatto che i primi subiscono una privazione di libertà per motivi di prevenzione, e versano quindi in condizioni diverse dal condannato in espiazione di pena.

3. - Per quanto attiene alla più limitata questione sollevata dal tribunale di Pisa in relazione al solo primo comma dell'art. 188 cod. pen., nella parte in cui pone l'obbligo del rimborso delle spese di mantenimento anche a carico del condannato povero non ammesso al lavoro, valgono le seguenti ulteriori considerazioni.

Non sussiste la pretesa violazione del principio della giusta retribuzione, garantito dall'art. 36 della Costituzione, giacché la norma denunciata (art. 188 cod. pen.) é comunque estranea alla determinazione dell'ammontare della retribuzione del lavoro carcerario, sancendo soltanto l'obbligo di rimborso delle spese di mantenimento. Neppure é violato il principio costituzionale d'uguaglianza, poiché l'art. 188 del codice penale non con cerne né consente la pretesa equiparazione tra detenuti ammessi e non ammessi al lavoro, che anzi gli artt. 22 e seguenti dello stesso codice sanciscono l'obbligo del lavoro per tutti i detenuti in espiazione di pena. La discriminazione denunciata dal tribunale di Pisa si riferisce, evidentemente, ad un dato effettuale, che si realizza per incompleta attuazione della legge, e che pertanto sfugge anche questa volta al sindacato di legittimità costituzionale (cfr. sentenza n. 40 del 1970).

Questa Corte può quindi soltanto auspicare che gli organi competenti vogliano finalmente attrezzare gli istituti di pena in modo da consentire il lavoro a tutti i detenuti, in esplicazione di specifici precetti del codice penale e della funzione di emenda assicurata dalla Costituzione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 188, primo comma, 189, primo comma, n. 3, del codice penale, 274, 612, terzo comma, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 27, terzo comma, 36, primo comma, e 53, primo comma, della Costituzione, con le ordinanze in epigrafe indicate.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 novembre 1973.

Francesco  PAOLO BONIFACIO – Giuseppe  VERZÌ – Giovanni  BATTISTA BENEDETTI – Luigi  OGGIONI – Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA – Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI – Nicola REALE – Paolo  ROSSI – Leonetto AMADEI - Giulio  GIONFRIDA. – Edoardo VOLTERRA – Guido ASTUTI

Arduino  SALUSTRI - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 28 novembre 1973.