Sentenza n. 200 del 1972

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 SENTENZA N. 200

ANNO 1972

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Giuseppe CHIARELLI, Presidente

Prof. Costantino MORTATI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI

Avv. Leonetto AMADEI

Prof. Giulio GIONFRIDA, Giudici,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 8, 11, 12, 14, 68 e 80 del r.d. 30 dicembre 1923, n. 3269 (legge di registro), promosso con ordinanza emessa il 1 luglio 1971 dalla Corte d'appello di Messina nel procedimento civile vertente tra Marino Giuseppa Pasqua e l'Amministrazione finanziaria dello Stato, iscritta al n. 308 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 273 del 27 ottobre 1971.

Visto l'atto di costituzione dell'Amministrazione finanziaria dello Stato;

udito nell'udienza pubblica dell'8 novembre 1972 il Giudice relatore Giuseppe Verzì;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Umberto Coronas, per l'Amministrazione finanziaria.

 

Ritenuto in fatto

 

Con sentenza 9 aprile 1964, emessa nel giudizio di divisione tra Leone Giuseppe e Giovanni contro Marino Giuseppa Pasqua, il tribunale di Messina attribuiva a quest'ultima - comunista per un sesto di una bottega ritenuta non comodamente divisibile - la proprietà dell'intero, previa corresponsione ai primi, titolari dei rimanenti cinque sesti, della somma di lire 14.529.560.

A seguito d’impugnazione proposta dai Leone, la Corte d’appello di Messina, con decisione 30 gennaio 1965, riformando il pronunciato del tribunale, attribuiva ai Leone la proprietà dell'intero immobile con l'obbligo di versare alla Marino la somma di lire 1.583.485, importo del valore della sopraccennata quota di un sesto.

In conseguenza di ciò, la Marino chiedeva all'Ufficio del registro di Messina il rimborso della somma di lire 1.975.840 a suo tempo pagata quale tributo di registrazione sulla sentenza di primo grado. L'ufficio respingeva la richiesta rappresentando che non competeva alcun rimborso e che, anzi, era dovuta l’ulteriore somma di lire 995.540, quale imposta suppletiva ed accessori sulla decisione della Corte d'appello, contenendo questa retrocessione ai Leone di cinque sesti di nuda proprietà, acquistati dalla Marino con la sentenza del tribunale, più il sesto già vantato dalla medesima: il tutto per il prezzo complessivo di lire 9.503.070. E della menzionata somma di lire 995.540, l'ufficio reclamava il pagamento con ingiunzione notificata sia alla Marino sia ai Leone.

Con citazione 22 novembre 1967, la Marino conveniva davanti al tribunale di Messina il Ministero delle finanze deducendo l’illegittimità della duplice tassazione, effettuata - a suo avviso - sull'erroneo presupposto che le due sentenze, emesse nei diversi gradi dello stesso giudizio e l'una in riforma dell'altra, avessero operato definitivi trasferimenti per le quote di pertinenza di una parte in capo all'altra. In effetti, invece, a seguito della riforma della prima pronuncia, il trasferimento tassato non aveva più avuto luogo: conseguentemente l’imposta proporzionale percetta di lire 1.975.840 andava restituita; altrimenti, da parte dell'ufficio finanziario, vi sarebbe stato un indebito arricchimento. Si opponeva, infine, alla ingiunzione notificatale per lire 995.540, eccependo che non vi era stata alcuna retrocessione di quote, in quanto per effetto della riforma della sentenza di primo grado i cinque sesti della bottega erano rimasti di proprietà dei Leone; ai quali, anzi, la Corte d’appello aveva attribuito anche il residuo sesto spettante ad essa Marino.

Tutto ciò premesso, chiedeva in via principale, che l'Amministrazione finanziaria fosse condannata alla restituzione dell'imposta di lire 1.975.940 e che venisse dichiarata illegittima la successiva imposizione per lire 995.540; subordinatamente, instava perché venissero dichiarati obbligati al pagamento di quest'ultima somma soltanto i Leone.

L'Amministrazione finanziaria, costituitasi in giudizio, si opponeva alle domande attrici, rilevando l’irrepetibilità dell'imposta percetta sulla sentenza di primo grado, nonostante questa fosse stata riformata, e l'obbligo solidale di tutte le parti in causa, e pertanto anche della Marino, al pagamento dell'imposta liquidata sulla sentenza della Corte d’appello.

Tutte le domande attrici venivano respinte dal tribunale con decisione 28 ottobre 1969. Ma tale decisione la Marino impugnava presso la Corte d’appello di Messina, avanti la quale l'Amministrazione finanziaria, ribadendo le argomentazioni svolte in primo grado, chiedeva il rigetto del gravame.

Con ordinanza 1 luglio 1971, la Corte d’appello, ritenuta esatta la decisione del tribunale, quale conseguenza della corretta e corrente interpretazione del combinato disposto delle norme contenute negli artt. 8, 11, 12, 14, 68 e 80 della legge di registro (r.d. 30 dicembre 1923, n. 3269), ha tuttavia sollevato d'ufficio la questione di legittimità costituzionale di dette norme in riferimento agli artt. 3, 24 e 53 della Costituzione.

Nel giudizio avanti questa Corte si é costituita soltanto l'Amministrazione delle finanze dello Stato, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato.

 

Considerato in diritto

 

1. - L'ordinanza della Corte d'appello di Messina ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 8, 11, 12, 14, 68 ed 80 della legge del registro (r.d. 30 dicembre 1923, n.3269) rilevando che queste norme impongono il pagamento del tributo per la registrazione delle sentenze di trasferimento, pronunziate nei vari gradi del processo; e vietano la restituzione di quanto corrisposto in riferimento al contenuto sostanziale di decisioni poi modificate o definitivamente travolte dalla ultima sentenza; dal che deriverebbe una disciplina contrastante con gli artt. 3, 53 e 24 della Costituzione.

Secondo l'ordinanza, sarebbe manifesta l'ingiustizia e l’incongruenza logica dei risultati cui conduce l'applicazione delle suindicate norme sul piano dei concreti rapporti fra Stato e contribuente. Infatti, nell'ipotesi di riforma di una sentenza traslativa, il tributo viene ad essere corrisposto, in taluni casi, come nella specie, due volte: prima all'atto della registrazione della sentenza di primo grado, perché si considera definitivo il trasferimento, ed una seconda volta per la registrazione della sentenza d’appello, che, riformando la prima, abbia diversamente statuito in merito al trasferimento stesso. E l’imposta potrebbe perfino essere corrisposta una terza volta, qualora sia pronunziata una difforme sentenza in sede di rinvio dalla Cassazione.

La denunziata irrazionalità apparirebbe ancor più evidente considerando che una sentenza impugnata non é di regola esecutiva, e quindi non astrattamente idonea a produrre gli effetti suoi propri, i quali sono comunque posti nel nulla ex tunc dalla sentenza di riforma. Né é a dire che, a giudizio concluso, sia consentito alla parte di ripetere l'importo del tributo (o di quella parte di esso) che alla fine risulti indebitamente pagato, perché ciò non é ammesso né dalla regola generale sancita dagli arte. 11 e 12 della legge del registro, né dalla norma contenuta nel successivo art. 14, dalla cui tassativa previsione esula l'ipotesi in esame.

2. - Va in primo luogo precisato che l'ordinanza denunzia l'illegittimità della disciplina relativa alla imposta proporzionale di registro, dovuta per le sentenza traslative di diritti; ond'é che la questione va esaminata limitatamente alla registrazione di tali sentenze.

3 - La questione é fondata.

L'Avvocatura generale dello Stato premette che l'imposta, quale imposta d’atto, é applicabile indipendentemente dal verificarsi o meno dei suoi effetti, e che le sentenze per le quali - per il loro contenuto obbiettivo - deve essere corrisposto tale tributo al momento della registrazione, non possono sottrarsi alla disciplina degli artt. 12 e 14 della legge sul registro, che fa divieto di restituzione delle tasse pagate, anche nel caso che esse siano annullate in sede di gravame. Ed osserva che la questione deve ritenersi infondata perché, quando nello stesso procedimento vengono pronunziate più sentenze, il carico complessivo d’imposta rappresenta la somma di tributi relativi ad atti diversi, susseguitisi nel tempo e determinati talvolta anche dal comportamento degli interessati. Conseguentemente, l'art. 53 non potrebbe dirsi violato in quanto la capacità contributiva, come idoneità del contribuente a corrispondere la prestazione imposta, deve porsi in relazione non già con la concreta capacità di ciascun contribuente, ma col presupposto al quale la prestazione stessa é collegata e con gli elementi essenziali della obbligazione.

4. - La Corte non può condividere siffatte argomentazioni.

É esatto che le sentenze pronunciate nei vari gradi di uno stesso processo costituiscono altrettanti atti fra loro distinti; ma, ai fini della imposizione tributaria, é rilevante soltanto quell'unico trasferimento, che, nel susseguirsi delle suddette decisioni, risulti effettuato dalla sentenza passata in giudicato. Per l'imposta d’atto, dovuta per la sentenza traslativa, la proporzionale, benché pagata nel momento della registrazione della sentenza, ha carattere autonomo ed indipendente in quanto colpisce soltanto il trasferimento. Pertanto, all'atto della registrazione della sentenza, alla tassa fissa giudiziale si aggiunge quella proporzionale, se ed in quanto sussista il detto trasferimento. Dimostrata la netta distinzione fra i due tributi, appare chiaro che il primo deve essere corrisposto tante volte quante sono le sentenze emesse nelle varie fasi del giudizio, mentre la proporzionale é dovuta soltanto sull'unico trasferimento da tassare.

Sotto il profilo costituzionale non ha rilevanza il fatto che il tributo sia corrisposto all'atto della registrazione di una o più sentenze non ancora passate in giudicato. É rilevante - invece - agli effetti degli artt. 3 e 53 Cost., che le norme impugnate non consentono che la somma versata sia restituita - per intero o proporzionalmente - nel caso in cui dalla sentenza passata in cosa giudicata risulti che il trasferimento non esiste - in tutto od in parte - e quindi sia venuto a mancare, totalmente o parzialmente, l'oggetto della imposizione tributaria.

Ed invero, l'art. 12 della legge del registro dispone che le tasse regolarmente percette non possono essere restituite in caso di riforma, risoluzione, rescissione od anche per effetto di condizione risolutiva, alla quale l'atto o il trasferimento si trovasse vincolato, né per qualsiasi altro evento ulteriore fuorché nei casi previsti dalla legge. E fra le eccezioni alla suindicata norma, tassativamente previste dall'art. 14, non é compresa la riforma in sede di gravame della sentenza di primo grado, in base alla quale é stato corrisposto il tributo.

Non si tratta d’inconvenienti o disarmonie nella disciplina di un determinato tributo, che possono essere valutate in sede di politica legislativa, come ritiene l'Avvocatura dello Stato, ma di una violazione dei principi della capacità contributiva, che condiziona la misura massima del tributo nel senso che questo non può essere mai fissato ad un livello superiore alla capacità dimostrata dall'atto o dal fatto economico. Ed evidentemente il pagamento di un tributo indebito, che talvolta può superare, attraverso la ripetuta esazione, il valore del bene, oggetto del trasferimento e l’impossibilità di rimborso di quanto indebitamente pagato, concretano una violazione del principio costituzionale, anche in riferimento all'articolo 3 Cost. in quanto la discrezionalità legislativa trova sempre un limite nella ragionevolezza delle statuizioni volte a giustificare la disparità di trattamento fra cittadini.

Rimane assorbita la questione in riferimento all'art. 24, secondo comma, della Costituzione.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara la illegittimità costituzionale degli artt. 12 e 14 della legge del registro (r.d. 30 dicembre 1923, n. 3269), nella parte in cui non prevedono, ai fini della restituzione della imposta proporzionale, l'ipotesi che sia stata riformata la sentenza con la quale si attua il trasferimento di un diritto.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 dicembre 1972.

Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ

Depositata in cancelleria il 29 dicembre 1972.