Sentenza n. 174 del 1972

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 SENTENZA N. 174

ANNO 1972

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

  composta dai signori:

Prof. Michele FRAGALI, Presidente

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI, Giudici,

Avv. Leonetto AMADEI

Prof. Giulio GIONFRIDA, Giudici,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale del d.P.R. 14 luglio 1960, n. 1040, nella parte in cui recepisce il terzo comma dell'art. 49 del contratto collettivo nazionale di lavoro 24 maggio 1956 per i dipendenti degli istituti di cura privati, promossi con ordinanze emesse il 29 settembre e il 27 ottobre 1970 dalla Corte d'appello di Napoli in due procedimenti civili vertenti rispettivamente tra la società Clinica Villa Bianca e Petringolo Maria Rosaria e tra Ciccarelli Giovanna e la predetta società, iscritte ai nn. 19 e 20 del registro ordinanze 1971 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 62 del 10 marzo 1971.

Udito nella camera di consiglio del 26 ottobre 1972 il Giudice relatore Costantino Mortati.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso del procedimento civile promosso dalla signora Maria Rosaria Petringolo nei confronti della società Clinica Villa Bianca, per ottenere una differenza salTimes New Romane che assumeva esserle dovuta, la Corte d’appello di Napoli, dinanzi all'eccezione di decadenza proposta dalla convenuta, con ordinanza emessa il 29 settembre 1970, ha sollevato questione di legittimità costituzionale del d.P.R. 14 luglio 1960, n. 1040, nella parte in cui recepisce il terzo comma dell'art. 49 del c.c.n.1. 24 maggio 1956, per i dipendenti degli istituti di cura privati. Tale disposizione testualmente recita "ogni reclamo sull’eventuale inesattezza dei calcoli relativi alle cifre di cui sopra" (retribuzioni ed altri compensi) "o sulla non corrispondenza delle stesse rispetto alla quantità o qualità del lavoro e su eventuali omissioni di pagamento, deve essere inoltrato all'istituto del dipendente interessato, a pena di decadenza a tutti gli effetti, entro due mesi dal giorno in cui il pagamento venne effettuato od omesso".

Secondo la Corte d'appello la norma in parola, prevedendo il decorso del termine di decadenza in costanza di rapporto di lavoro, violerebbe l'art. 36 della Costituzione. Osserva infatti il giudice a quo che ricorrono gli stessi motivi di contrasto posti in evidenza dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 63 del 1 giugno 1966 ed esattamente: presenza di un rapporto non dotato di quella resistenza che caratterizza il rapporto di pubblico impiego per cui il timore del licenziamento può spingere il lavoratore a non tutelare ed a rinunziare ai suoi diritti, con conseguente invalidità della rinunzia ex articolo 36 Cost., perché non frutto di una libera volontà negoziale.

Identica ordinanza é stata pronunciata dalla stessa Corte d'appello in data 27 ottobre 1970 nel procedimento civile tra la signora Giovanna Ciccarelli e l'anzidetta società.

Le ordinanze, ritualmente comunicate e notificate, sono state pubblicate nella Gazzetta Ufficiale. Nessuno si é costituito dinanzi alla Corte costituzionale e la causa é stata discussa in camera di consiglio.

 

Considerato in diritto

 

Le due ordinanze sollevano la stessa questione sicché si rende opportuna la riunione delle cause per la loro decisione con unica sentenza.

1. - Le ordinanze denunciano l'art. 49, terzo comma, del contratto collettivo nazionale di lavoro del 24 maggio 1956, riguardante i dipendenti da istituti di cura privati, recepito con forza di legge dal d.P.R. 14 luglio 1960, n. 1040, nella considerazione che esso viene a violare l'art. 36 della Costituzione (nell'interpretazione che ne ha dato la Corte costituzionale con la sua sentenza n. 63 del 1966), in quanto stabilisce che la decorrenza del termine di decadenza di due mesi prescritta per la proposizione di reclami riguardanti il pagamento delle retribuzioni e di ogni altro compenso, debba in ogni caso venire fissata dal giorno in cui il pagamento venga effettuato o omesso, e quindi anche quando il termine stesso maturi in costanza del rapporto di lavoro.

2. - Con la sentenza richiamata, la Corte ha effettivamente statuito che le disposizioni del codice civile le quali consentono che la prescrizione quinquennale o quelle presuntive, relative a retribuzioni corrisposte per periodi non superiori o superiori al mese sono da ritenere affette da illegittimità costituzionale nella parte in cui fanno decorrere i termini relativi durante la costanza del rapporto di lavoro. Ciò nella considerazione che, allorché quest'ultima ipotesi si verifica, é da presumere che la mancanza di tempestiva impugnazione sia determinata dal timore di licenziamento, e quindi venga ad assumere carattere di rinunzia implicita.

3. - É però da mettere in rilievo come, dopo l'emanazione della richiamata pronuncia, é intervenuta la legge 15 luglio 1966, n. 604, il cui art. 1 stabilisce che, nei rapporti di lavoro a tempo indeterminato per i quali la stabilità non risulti assicurata da norme di legge o di contratto, il licenziamento non possa avvenire se non per giusta causa, o per giustificato motivo, ponendo a carico del datore di lavoro l'onere di fornirne la prova. La successiva legge 20 maggio 1970, n. 300, innovando con l'art. 18 alle precedenti disposizioni, ha stabilito che, ferma restando l'esperibilità delle procedure di cui all'art. 7 di queste ultime, l'annullamento del licenziamento disposto senza giusta causa debba essere accompagnato dall'ordine al datore di reintegrare il licenziato nel rapporto di lavoro; con l'obbligo per lui, oltre che di risarcire il danno da questi subito a causa del licenziamento, di corrispondergli le retribuzioni dalla data della sentenza fino a quella dell'avvenuta reintegrazione. Si pone pertanto il quesito se per effetto di tali innovazioni legislative non sia venuto meno, per i rapporti regolati dalle norme ricordate, il fondamento giuridico su cui poggiava la parziale invalidazione statuita con la sentenza n. 63 del 1966. Già la Corte, con sentenza n. 143 del 1969, ebbe a ritenere che il principio con quella affermato non dovesse trovare applicazione tutte le volte che il rapporto di lavoro subordinato sia caratterizzato da una particolare forza di resistenza, quale deriva da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca le garanzie di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione; e non sembra dubbio che tale interpretazione, fatta allora valere per i rapporti di pubblico impiego statali, anche se di carattere temporaneo, debba trovare applicazione in tutti i casi di sussistenza di garanzie che si possano ritenere equivalenti a quelle disposte per i rapporti medesimi. Non sembra contestabile che siffatta analogia si verifichi allorché ricorra l'applicabilità delle due serie di disposizioni menzionate, di cui la seconda deve considerarsi necessaria integrazione della prima, dato che una vera stabilità non si assicura se all'annullamento dell'avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare.

4. - É chiaro tuttavia che alla conclusione ora enunciata non può pervenirsi in tutti quei casi (come sono per esempio quelli risultanti dall'art. 11 della legge n. 604 del 1966) per i quali le disposizioni sulla giusta causa non trovano applicazione; sicché per essi deve rimanere fermo il principio che vieta di far decorrere il termine di decadenza per le impugnative in materia di crediti da lavoro dipendente nel periodo di durata del rapporto, dovendosi il medesimo spostare alla fine di questo. E poiché l'art. 49, terzo comma, del contratto collettivo denunciato non discrimina, ai fini della proposizione dei reclami, la situazione del personale dipendente secondo che possa o no invocare le norme sulla giusta causa, deve per questa parte essere dichiarato costituzionalmente illegittimo.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTIZIONALE

 

dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 49, terzo comma, del contratto collettivo di lavoro 24 maggio 1956 per i dipendenti dalle case di cura private, recepito dall'articolo unico del d.P.R. 14 luglio 1960, n. 1040, nella parte che fa decorrere il termine di decadenza per i reclami dei dipendenti medesimi dal giorno in cui il pagamento venga effettuato o omesso, anche per i rapporti di lavoro non considerati dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni.

 

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 dicembre 1972.

Giuseppe CHIARELLI - Costantino MORTATI

Depositata in cancelleria il 12 dicembre 1972.