Sentenza n. 110 del 1972

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 SENTENZA N. 110

ANNO 1972

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 composta dai signori:

Prof. Giuseppe CHIARELLI, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI, Giudici,

ha pronunciato la seguente

 

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 15, 16, 18, 147, primo comma, 162, 195, secondo comma, e 217, primo e secondo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), nonché degli artt. 19 e 21 del codice di procedura penale, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 13 febbraio 1970 dal tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di Antinori Guglielmo, iscritta al n. 118 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 125 del 20 maggio 1970;

2) ordinanza emessa il 16 aprile 1970 dal tribunale di Potenza sul ricorso di Padula Giovanni per l'ammissione alla procedura del concordato preventivo, iscritta al n. 222 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 222 del 2 settembre 1970;

3) ordinanza emessa il 23 aprile 1970 dal tribunale di Milano nel procedimento civile vertente tra Terrabuio Magni Sirio, il fallimento della società S.I.R.A. e la società Officina elettromeccanica Bertani, iscritta al n. 90 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 106 del 28 aprile 1971;

4) ordinanza emessa l'11 marzo 1971 dal pretore di Siracusa nel procedimento penale a carico di Di Pace Luigi, iscritta al n. 198 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 163 del 30 giugno 1971;

5) ordinanza emessa il 23 marzo 1971 dal tribunale di Bologna nel procedimento civile vertente tra Meletti Luciano, Guidi Guido e la Cassa rurale ed artigiana di San Matteo della Decima, iscritta al n. 292 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 259 del 13 ottobre 1971;

6) ordinanza emessa il 24 giugno 1971 dal pretore di Verona nel procedimento penale a carico di Mozzo Marino, iscritta al n. 381 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 297 del 24 novembre 1971;

7) ordinanza emessa il 7 luglio 1971 dal pretore di Napoli nel procedimento penale a carico di Peluso Elvira e Renzi Renzina, iscritta al n. 406 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 311 del 9 dicembre 1971;

8) ordinanza emessa il 2 luglio 1971 dal pretore di Mantova nel procedimento penale a carico di Gradi Ugo, iscritta al n. 415 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 323 del 22 dicembre 1971;

9) ordinanza emessa il 20 aprile 1971 dalla Corte d'appello di Milano nel procedimento civile vertente tra Ulivi Luigina e Todisco Adriano, iscritta al n. 425 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 323 del 22 dicembre 1971.

Visti gli atti di costituzione di Antinori Guglielmo e di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica dell'8 marzo 1972 il Giudice relatore Vincenzo Michele Trimarchi;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Renato Carafa, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel procedimento penale a carico di Guglielmo Antinori, imputato dei reati di cui agli artt. 216, n. 1, e 217 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (contenente la disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), il tribunale di Roma con ordinanza del 13 febbraio 1970 denunciava, per violazione dell'art. 24 della Costituzione, gli artt. 15, 16 e 18 della detta legge fallimentare e più precisamente la norma dell'art. 15 che prevede "solo la facoltà del tribunale di esaminare il debitore prima di emettere la sentenza dichiarativa di fallimento" e le altre norme per ragioni di connessione e di conseguenzialità.

A proposito della rilevanza della questione il tribunale riteneva che l'eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 15 avrebbe invalidato la sentenza dichiarativa di fallimento e così avrebbe fatto venir meno uno degli elementi costitutivi dei reati di bancarotta contestati.

La questione sarebbe non manifestamente infondata perché l'art. 15 non assicurerebbe il contraddittorio nella fase del procedimento anteriore alla dichiarazione di fallimento e non consentirebbe al debitore di far valere le proprie istanze e ragioni.

Davanti a questa Corte, dopo che l'ordinanza é stata regolarmente comunicata, notificata e pubblicata, si é costituito l'Antinori, a mezzo degli avvocati Antonio Rivolta ed Egidio Franco, il quale ha concluso per la fondatezza della questione.

Non é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri.

Per l'Antinori l'art. 15 non assicurerebbe il diritto di difesa perché é affidata al tribunale solo la facoltà di sentire il fallito in camera di consiglio, perché la semplice audizione del fallito non soddisfa l'esigenza del diritto alla difesa, perché a codesta esigenza non fa fronte neppure il successivo art. 18 e perché infine la sentenza dichiarativa di fallimento é immediatamente esecutiva.

All'udienza dell'8 marzo 1972 non é intervenuto per l'Antinori alcun difensore.

2. - Il tribunale di Potenza, chiamato a pronunciarsi sulla domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo avanzata da Giovanni Padula, premesso che sulla base degli elementi in suo potere avrebbe dovuto con decreto dichiarare inammissibile la proposta di concordato e con sentenza, dichiarare d'ufficio, il fallimento del ricorrente, con ordinanza del 16 aprile 1970, prospettava dubbi sulla legittimità costituzionale dell'art. 162 della legge fallimentare, in riferimento all'art. 24, comma secondo, della Costituzione.

L'art. 162 sarebbe viziato, innanzitutto, perché prevede come facoltativo per il tribunale sentire o meno il debitore e stabilisce invece la regola dell'obbligatorietà dell'intervento del pubblico ministero, riservando in tal modo alle parti del processo di concordato preventivo una diversità di posizione; ed in secondo luogo, perché se é consentita come facoltativa l'audizione del debitore, non é assicurata, comunque, una adeguata ed efficace garanzia di difesa, anche per la mancata previsione dell'assistenza di un difensore, in tale fase sommaria, suscettibile di produrre gravi conseguenze, tra cui il fallimento del ricorrente.

Inoltre, la norma in esame sarebbe costituzionalmente illegittima, sempre in riferimento all'art. 24, comma secondo, per il fatto che il decreto che dichiara inammissibile l'istanza di concordato é per espresso dettato legislativo, non soggetto a reclamo. Tale esclusione sarebbe in pieno contrasto con il diritto di difesa, dato, in particolare, che il debitore non può interloquire sui motivi di un provvedimento che non solo lo priva di un suo diritto, ma da cui dipende anche l'emanazione di un altro provvedimento più grave, quale é la sentenza dichiarativa del fallimento.

L'ordinanza é stata regolarmente comunicata, notificata e pubblicata.

Davanti a questa Corte non si é costituita alcuna delle parti.

E non ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.

3. - Avverso la sentenza del tribunale di Milano con cui era stato dichiarato il fallimento della S.I.R.A. s.a.s. di Sirio Terrabuio Magni e C., in liquidazione, e del Terrabuio Magni quale socio illimitatamente responsabile, questi proponeva opposizione deducendo, tra l'altro, di non essere stato sentito dal tribunale prima della dichiarazione di fallimento, che era pendente davanti alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15 della legge fallimentare in quanto prevede solo come facoltativa l'audizione del debitore, e che qualora quella questione fosse stata ritenuta fondata, il primo comma dell'art. 147 avrebbe potuto essere considerato costituzionalmente legittimo.

Il tribunale, con ordinanza del 23 aprile 1970, riteneva invece che nel giudizio de quo si potesse fare questione unicamente dell'applicazione della norma da ultimo indicata e non anche di quella contenuta nell'art. 15.

E sollevava la questione di legittimità costituzionale dell'art. 147, comma primo, in riferimento all'art. 24, comma secondo, della Costituzione, nella parte in cui "fa conseguire automaticamente, alla dichiarazione di fallimento della società, la dichiarazione di fallimento dei soci illimitatamente responsabili, senza che vengano personalmente sentiti o comunque previamente avvertiti".

I motivi per i quali la norma sarebbe contrastante con il diritto di difesa, secondo il tribunale, sarebbero quelli indicati dallo stesso tribunale e da altri giudici a fondamento della dedotta illegittimità costituzionale dell'art. 15 e si riassumerebbero "nella considerazione che, data la particolare gravità degli effetti che discendono dalla sentenza di fallimento, ivi compresa la limitazione di diritti personali costituzionalmente garantiti, non si può ritenere sufficiente garanzia di difesa la possibilità per il fallito di proporre successiva opposizione contro la sentenza che, oltre tutto, é immediatamente esecutiva".

Si é provveduto successivamente alle comunicazioni, alle notificazioni e alla pubblicazione di legge dell'ordinanza.

Davanti a questa Corte non si é costituita nessuna delle parti e non é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri.

4. - A seguito del fallimento di Luigi Di Pace, socio di fatto di Rosario Di Pace e di Antonio Salvo, dichiarati falliti con precedente sentenza, veniva iniziato davanti al pretore di Siracusa procedimento penale a suo carico per il reato di bancarotta semplice contabile.

Il pretore che nei confronti degli altri due soci aveva applicato l'amnistia concessa con d.P.R. 22 maggio 1970, n. 283, e per il delitto ora contestato a Luigi Di Pace, per ciò che il fallimento della società e dei detti due soci era stato dichiarato entro il termine di efficacia del provvedimento di clemenza, constatato che il nuovo fallimento era intervenuto al di là di quel termine, sollevava, con ordinanza dell'11 marzo 1971, questione di legittimità costituzionale dell'art. 217, comma primo, della legge fallimentare nella parte in cui prevede come elemento costitutivo del reato la sentenza dichiarativa di fallimento.

Riteneva che, essendo la sentenza dichiarativa di fallimento elemento costitutivo del reato de quo, "da situazioni eguali (obbligo della tenuta dei libri e registri contabili da parte di tutti i soci di società irregolari) deriverebbero effetti diversi, in quanto ai soci dichiarati falliti con sentenza - elemento costitutivo del reato e data di consumazione dello stesso - emessa in una certa data si applicherebbero istituti, quale ad esempio l'amnistia o la prescrizione, che non potrebbero applicarsi ovvero diversamente si applicherebbero a seguito di ulteriore sentenza dichiarativa del fallimento di altri soci". E ciò risalirebbe "non all'azione dei falliti, bensì soltanto alla più o meno solerte esplicazione della procedura fallimentare da parte degli organi prepostivi".

Il pretore concludeva osservando che in presenza di situazioni come quella sottoposta al suo esame, la norma, in parte qua, violerebbe senza ragionevole motivo l'art. 3 della Costituzione.

L'ordinanza veniva comunicata, notificata e pubblicata.

Davanti a questa Corte, non vi é stata costituzione di parti e non si é avuto neppure intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.

5. - Avverso la sentenza del tribunale di Bologna con cui era stato dichiarato lo stato di insolvenza della Cassa rurale ed artigiana di San Matteo della Decima, società cooperativa a responsabilità illimitata, proponevano opposizione Luciano Meletti e Guido Guidi, rispettivamente socio e direttore generale della Cassa. Tra l'altro, il Guidi eccepiva l'illegittimità costituzionale dell'art. 195 della legge fallimentare in riferimento all'art. 24, comma secondo, della Costituzione.

Il tribunale di Bologna, con ordinanza del 23 marzo 1971, riteneva rilevante e non manifestamente infondata la questione.

Richiamata la sentenza n. 141 del 1970 di questa Corte, osservava che la sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza dell'impresa soggetta a liquidazione coatta amministrativa ha lo stesso contenuto della sentenza dichiarativa di fallimento in quanto fondata sull'accertamento dei medesimi presupposti e che anzi i due provvedimenti sono equiparabili a tutti gli effetti, e che le conseguenze che ne derivano sono analoghe ed ugualmente gravi. E da ciò deduceva, stante la sostanziale identità dei due istituti, che anche per la fase processuale di accertamento dello stato di insolvenza di un'impresa soggetta a liquidazione coatta amministrativa dovesse essere garantito il diritto di difesa, e conseguentemente che fosse in contrasto con l'art. 24, comma secondo, della Costituzione l'art. 195, comma secondo, della legge fallimentare nella parte in cui "esso non prevede l'obbligo per il tribunale di disporre la comparizione del debitore in camera di consiglio per l'esercizio del diritto di difesa, in contraddittorio sia con la parte istante sia con l'autorità governativa incaricata della sorveglianza sull'impresa".

L'ordinanza veniva comunicata, notificata e pubblicata.

Davanti a questa Corte non si costituiva alcuna delle parti. E non spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.

6. - Nel procedimento penale a carico di Marino Mozzo, imputato del reato di cui all'art. 217, commi primo e secondo, il pretore di Verona non riteneva di potere applicare alla specie il d.P.R. 22 maggio 1970, n. 283, perché, pur essendo l'attività imprenditoriale del Mozzo cessata sin dal luglio 1969, il suo fallimento era stato dichiarato l'11 aprile 1970 e perché bisognava rifarsi alla data della sentenza per determinare il momento consumativo del reato.

Senonché, in accoglimento dell'eccezione dell'imputato, riteneva rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 217, commi primo e secondo, nella parte in cui la norma prevede la dichiarazione di fallimento come elemento costitutivo della fattispecie, anziché semplice condizione obbiettiva di punibilità.

La violazione del principio di eguaglianza risiederebbe nel fatto che la determinazione del momento consumativo del reato é rimessa sostanzialmente al gioco delle più varie circostanze (talora del tutto casuali, come uno sciopero di cancellieri o l'impedimento di un giudice del collegio) od alla maggiore o minore solerzia e celerità dei tribunali; e nel differente trattamento previsto nei confronti dei soggetti imputati in relazione ad ipotesi criminose diverse da quella in oggetto, allorché si renda necessario accertare il momento consumativo del reato, in vista dell'applicazione di amnistia od indulti.

L'ordinanza veniva regolarmente comunicata, notificata e pubblicata.

Davanti a questa Corte non si costituiva alcuna parte privata.

E non spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.

7. - Nel procedimento penale a carico di Elvira Peluso e Renzina Renzi, imputate dei reati di cui agli artt. 217, comma secondo, e 220 della legge fallimentare, il pretore di Napoli, chiamato a pronunciarsi sulla richiesta della difesa che si dovessero dichiarare estinti i reati per amnistia (in base al d.P.R. 22 maggio 1970, n. 283) per essere l'attività commerciale cessata in epoca anteriore alla data del 6 aprile 1970, con ordinanza del 7 luglio 1971, sollevava d'ufficio questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3, comma primo, della Costituzione, dell'art. 217, comma secondo, della legge fallimentare "nella parte in cui facendo coincidere la consumazione del reato col momento in cui viene emessa la sentenza dichiarativa di fallimento non consente di godere del beneficio dell'amnistia solo a quegli imputati per i quali la dichiarazione di fallimento sia intervenuta dopo il termine ultimo di efficacia del beneficio, prescindendo dall'epoca in cui ebbe a realizzarsi la condotta, ancorché anteriore all'indicato termine".

Codesto trattamento non sarebbe unico ma differenziato. E la disciplina sarebbe non razionale, atteso che può godere dell'amnistia colui che ha continuato l'esercizio dell'impresa magari sino alla sentenza di fallimento, se questa interviene prima del detto termine, e non può invece fruirne chi pur avendo cessato da tempo l'attività, é dichiarato fallito in data posteriore, e sul tempo della sentenza influiscono fattori del tutto casuali e, in ogni caso, indipendenti dalla volontà dell'agente.

L'ordinanza veniva regolarmente comunicata, notificata e pubblicata.

Davanti a questa Corte non si costituiva nessuna delle parti.

Non spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.

8. - Nel procedimento penale a carico di Ugo Gradi, imputato del reato previsto e punito dall'art. 217, comma secondo, della legge fallimentare, il pretore di Mantova, accogliendo l'eccezione avanzata dalla difesa dell'imputato, sollevava questione di legittimità costituzionale di quell'articolo, in riferimento all'art. 3 della Costituzione. Premesso che la norma prende in considerazione un comportamento (mancata o irregolare tenuta dei libri e delle scritture contabili obbligatorie) che in se stesso considerato, non é previsto dalla legge come reato, ma che acquista tale rilievo ove l'autore della condotta sia incorso in una situazione di dissesto sfociata nel fallimento, il pretore, stante ciò, osservava che l'imprenditore, a parità di condizioni giuridiche, risponde o meno del reato de quo a seconda delle sue vicissitudini economiche, e che "di due imprenditori che non abbiano tenuto i libri contabili obbligatori, soltanto colui che sarà dichiarato fallito risponderà penalmente dell'addebito", e riteneva, pertanto, violato il principio di eguaglianza.

Il pretore di Mantova, inoltre, dopo aver rilevato che a sensi degli artt. 19 e 21 del codice di procedura penale, la sentenza dichiarativa di fallimento - pur essendo atto conclusivo di un procedimento sommario al quale non partecipa obbligatoriamente il pubblico ministero - fa stato nel procedimento penale di bancarotta, osservava che in tal modo si avrebbe una paralisi della funzione principale del giudice penale che provocherebbe a sua volta la paralisi della difesa.

Denunziava quindi per contrasto con l'art. 24, comma secondo, della Costituzione, i detti articoli nelle parti in cui vincolano il giudice penale a tener fermo un presupposto (status di imprenditore) contenuto in una sentenza resa in un procedimento non garantito da adeguato contraddittorio.

L'ordinanza, emessa sotto la data del 2 luglio 1971, veniva regolarmente comunicata, notificata e pubblicata.

Davanti a questa Corte non si costituiva nessuna delle parti.

Spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, che concludeva per l'infondatezza di entrambe le questioni. In relazione alla prima questione, deduceva che nessuna disparità di trattamento é prospettabile qualora si segua l'orientamento giurisprudenziale della Corte suprema di cassazione: la avvenuta dichiarazione di fallimento, in sostanza, determina una obiettiva diversità di condizioni dell'imprenditore fallito che giustifica la diversa rilevanza dell'interesse penalmente tutelato. A proposito della seconda questione l'Avvocatura generale osservava che sulla legittimità costituzionale degli artt. 19 e 21 la Corte costituzionale, con sentenza n. 5 del 1965 si era incidentalmente pronunziata precisando che spetta al legislatore ordinario di regolamentare il sistema di coordinamento tra le diverse giurisdizioni e che codesto sistema non entra in conflitto con il diritto di difesa. Con riferimento alla specifica prospettazione, rilevava che erroneamente sarebbero stati denunziati gli artt. 19 e 21 del codice di procedura penale e che invece, secondo il pretore, sarebbero illegittime le norme regolanti il procedimento fallimentare. La questione, quindi, sarebbe oltre tutto inammissibile.

All'udienza dell'8 marzo 1972, il sostituto avvocato generale dello Stato Renato Carafa, insisteva nelle prese conclusioni.

9. - Luigina Ulivi, dichiarata fallita con sentenza del tribunale di Varese a seguito di declaratoria di inammissibilità della proposta di concordato preventivo, proponeva opposizione.

Avverso la sentenza di rigetto, adiva la Corte d'appello di Milano, sollevando, oltre alle questioni di merito, l'eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 162 della legge fallimentare, in riferimento all'art. 24, comma secondo, della Costituzione, e sotto due profili.

La Corte d'appello di Milano, con ordinanza del 20 aprile 1971, non ravvisava esistente la dedotta illegittimità della norma in quanto questa non prevede l'impugnabilità del decreto di inammissibilità della domanda di concordato preventivo, e sollevava invece la questione di legittimità costituzionale della norma nella parte in cui non prevede l'obbligo del tribunale di disporre la comparizione dell'imprenditore in camera di consiglio per l'esercizio del diritto di difesa prima che si provveda sulla dichiarazione di fallimento, nei limiti compatibili con la natura di tale procedimento. Riteneva a quest'ultimo riguardo che al debitore, nella detta sede, spettasse la stessa guarentigia che gli é stata riconosciuta, in relazione all'art. 15 della legge fallimentare, da questa Corte con sentenza n. 141 del 1970.

L'ordinanza veniva regolarmente comunicata, notificata e pubblicata.

Davanti a questa Corte non si costituiva nessuna delle parti e non spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Considerato in diritto

 

1. - Con le nove ordinanze indicate in epigrafe vengono prospettate questioni di legittimità costituzionale relative a norme del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (contenente la disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa): si assume che non garantiscano il diritto di difesa le norme di cui agli artt. 15, 16 e 18; 147, comma primo; 162 e 195, comma secondo, e che vadano contro il principio di eguaglianza quelle di cui all'art. 217, commi primo e secondo.

Con una delle sopradette ordinanze, inoltre, in sede di applicazione dell'art. 217, comma secondo, si denunciano, per violazione dello stesso art. 3, le norme previste dagli artt. 19 e 21 del codice di procedura penale.

Le questioni così sollevate presentano notevoli analogie ovvero sono sostanzialmente connesse; i relativi giudizi possono, pertanto, essere riuniti e decisi con unica sentenza.

2. - La denuncia relativa agli artt. 15, 16 e 18 della legge fallimentare, per contrasto con l'art. 24, comma secondo, della Costituzione, é stata avanzata dal tribunale di Roma, con ordinanza del 13 febbraio 1970, nel procedimento penale a carico di un imprenditore commerciale tratto a giudizio per rispondere dei reati di cui agli artt. 216, n. 1, e 217 della detta legge.

Secondo il giudice a quo, la questione sarebbe rilevante perché l'eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 15 invaliderebbe la sentenza dichiarativa di fallimento, e farebbe venir meno uno degli elementi costitutivi dei reati di bancarotta contestati, ed il diritto di difesa non sarebbe garantito perché, a sensi dell'art. 15, il tribunale non é tenuto a sentire il debitore prima di dichiararne il fallimento.

La Corte, pur potendosi seriamente dubitare dell'ammissibilità della questione, é dell'avviso che della stessa debba essere dichiarata la manifesta infondatezza, atteso che, in un tempo successivo a quello in cui é stata emessa l'ordinanza de qua, con sentenza n. 141 del 1970 é stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 15 proprio nella parte in cui esso non prevedeva l'obbligo del tribunale di disporre la comparizione dell'imprenditore in camera di consiglio per l'esercizio del diritto di difesa nei limiti compatibili con la natura del procedimento.

3. - Sulla legittimità costituzionale dell'art. 147, comma primo, della legge fallimentare, e sempre con riferimento all'art. 24, comma secondo, della Costituzione, vengono avanzati dubbi dal tribunale di Milano con l'ordinanza del 23 aprile 1970. Ad avviso del giudice a quo la dedotta illegittimità costituzionale risiederebbe nel fatto che la norma non prevede che siano personalmente sentiti o comunque previamente avvertiti i soci illimitatamente responsabili nei cui confronti produce effetto la sentenza che dichiara il fallimento della società con soci a responsabilità illimitata.

La Corte ritiene che in relazione alla norma in esame ed a fondamento della pronuncia che di seguito viene adottata, valgono i motivi posti a base della citata sentenza n. 141 del 1970 nonché della sentenza n. 142 dello stesso anno (con cui é stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 147, comma secondo, nella parte in cui "non consente ai soci illimitatamente responsabili l'esercizio del diritto di difesa nei limiti compatibili con la natura del procedimento di camera di consiglio prescritto per la dichiarazione di fallimento").

La circostanza che la norma dell'art. 15, di cui é stata dichiarata l'illegittimità costituzionale nei sensi sopra detti, sia una norma di portata generale e quindi applicabile anche all'ipotesi del fallimento delle società, non é di ostacolo all'accoglimento della tesi sostenuta dal giudice a quo che per il primo comma dell'art. 147 il tribunale possa non sentire personalmente o non previamente avvertire i soci illimitatamente responsabili in quanto tali. Era in facoltà ed ora, dopo la pubblicazione della sentenza n. 141 del 1970, é obbligo del tribunale di "disporre la comparizione dell'imprenditore in camera di consiglio per l'esercizio del suo diritto di difesa", e ciò tanto se il debitore sia un imprenditore individuale quanto se lo stesso sia una società. Ma in questo secondo caso, e nella specifica ipotesi di società con soci a responsabilità illimitata, é tuttavia vigente la norma denunciata che riguarda i soci illimitatamente responsabili in quanto tali, e non nella loro eventuale qualità di amministratori o liquidatori della società.

Giustamente il tribunale di Milano ritiene che in caso di fallimento di una società con soci a responsabilità illimitata, non basti la convocazione dell'imprenditore collettivo in camera di consiglio prima della dichiarazione di fallimento, ovvero di alcuno dei soci aventi la rappresentanza della società perché, qualora si operi in codesti modi, può essere soddisfatto il diritto di difesa della società, ma non quello di tutti i soci, soggetti personalmente al fallimento.

Stante ciò, la Corte é dell'avviso che il diritto di difesa debba essere garantito anche nella prima fase della procedura fallimentare, sia pure compatibilmente con le finalità di tutela dell'interesse pubblico a cui essa é preordinata, per dar modo ai soci illimitatamente responsabili di contrastare con l'eventuale ausilio di difensori, in confronto della società e dei creditori istanti (ed a ciascuno dei soci in confronto degli altri), la veridicità dell'asserito stato di insolvenza e l'assoggettabilità all'esecuzione fallimentare. E conseguentemente ritiene che la norma denunciata sia illegittima costituzionalmente nella parte in cui non prevede che prima della dichiarazione del fallimento della società con soci a responsabilità illimitata, il tribunale debba ordinare la comparizione in camera di consiglio dei soci illimitatamente responsabili nei cui confronti produce effetto la detta sentenza.

Ovviamente, gli atti che potranno essere compiuti nel rispetto del diritto di difesa riconosciuto ai soci illimitatamente responsabili, in concreto non potranno non essere armonizzati con le esigenze di urgenza e tempestività proprie della procedura fallimentare e con le finalità di giustizia, a cui lo stesso diritto di difesa é essenzialmente coordinato.

4. - Deve parimenti essere dichiarata fondata nei limiti di cui appresso, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 162, commi primo e secondo, della legge fallimentare, sollevata dal tribunale di Potenza e dalla Corte d'appello di Milano con ordinanze rispettivamente del 16 aprile 1970 e del 20 aprile 1971.

Secondo il primo giudice, la norma sarebbe in contrasto con l'art. 24, comma secondo, sotto due profili: anzitutto, perché prevede come facoltativa l'audizione del debitore che abbia proposto domanda di ammissione al concordato preventivo, e prima della dichiarazione di inammissibilità dell'istanza; e perché non prevede per il debitore, durante questa stessa fase, l'assistenza del difensore; ed in secondo luogo, perché dichiara non soggetto a reclamo il decreto di inammissibilità.

Relativamente al primo profilo, ricorrono, e non é il caso quindi che siano ripetuti, i motivi posti nel precedente numero a base della pronuncia di parziale illegittimità dell'art. 147, comma primo. Non può dirsi, in effetti, sufficiente, per garantire il diritto di difesa del debitore, la semplice facoltatività della sua audizione. Né rilevano in senso contrario peculiari caratteristiche della fase preliminare del procedimento di concordato preventivo; é vero che il debitore é posto in grado di far conoscere le proprie ragioni e richieste con la domanda di ammissione alla procedura, ma dopo che questa ha avuto inizio, al debitore non é consentito più di svolgere utili difese. Anzi, va tenuto presente che non costituiscono sufficienti garanzie per il debitore le possibilità che secondo la giurisprudenza gli sono date di proporre reclamo ex art. 111 della Costituzione avverso il decreto di inammissibilità, qualora a questo non segua la dichiarazione di fallimento, o di impugnare la sentenza dichiarativa del fallimento, perché il reclamo può proporsi solo per violazione di legge, e dall'eventuale sentenza di revoca del fallimento residuano in danno del debitore evidenti effetti pregiudizievoli. E si deve quindi ritenere costituzionalmente illegittima la norma de qua nella parte in cui non prevede che il tribunale prima di decidere sull'ammissibilità della proposta, debba invitare il debitore istante a comparire in camera di consiglio perché possa essere sentito.

Risulta non fondato l'assunto dello stesso tribunale di Potenza, che la norma in oggetto sia costituzionalmente illegittima perché non é prevista l'assistenza ad opera di difensore. É, nel sistema, anche a proposito dei procedimenti speciali, e delle fasi preliminari o sommarie di più ampi procedimenti giurisdizionali, infatti, che la parte si possa far rappresentare o almeno assistere da un difensore. In mancanza di una norma che vieti codesta assistenza, si deve quindi ritenere che la stessa sia implicitamente ammessa e consentita.

E pertanto il lamentato vizio a proposito della norma de qua non sussiste.

É invece inammissibile la questione là ove é mossa doglianza in relazione alla non reclamabilità del decreto con cui il debitore non venga ammesso alla procedura di concordato preventivo. É di tutta evidenza, infatti, che manca per il giudice a quo ogni interesse alla dichiarazione d'illegittimità della norma sul punto in esame, dato che, qualora la Corte dovesse ravvisare la dedotta illegittimità, la pronuncia in quanto afferente ad una norma non applicabile dal tribunale, non inciderebbe in alcun modo sul procedimento in corso.

Rilevata l'illegittimità costituzionale dell'art. 162 in relazione al primo profilo, risulta non meritevole di accoglimento la prospettazione che della questione viene effettuata dalla Corte di appello di Milano, per la quale si avrebbe la violazione dell'art. 24, comma secondo, per il fatto che la norma denunciata, nel suo secondo comma, non prevede che il tribunale debba disporre la comparizione dell'imprenditore in camera di consiglio per l'esercizio del diritto di difesa prima di procedere alla dichiarazione del fallimento.

Infatti, il decreto di inammissibilità della domanda di concordato preventivo e la sentenza dichiarativa del fallimento del debitore istante sono i modi e i mezzi di formazione ed esteriorizzazione dell'unica o contestuale volontà dell'ufficio di talché, prescritto che del debitore debba essere disposta la comparizione in camera di consiglio, prima che il tribunale possa emettere il decreto, il diritto alla difesa é assicurato anche in relazione all'eventuale dichiarazione di fallimento.

5. - Sarebbe, infine, in contrasto con l'art. 24, comma secondo, della Costituzione, l'art. 195, comma secondo, della legge fallimentare nella parte in cui non prevede l'obbligo per il tribunale di disporre la comparizione del debitore in camera di consiglio per l'esercizio del diritto di difesa, in contraddittorio con la parte che abbia richiesto la dichiarazione dello stato di insolvenza dell'impresa soggetta a liquidazione coatta amministrativa con esclusione del fallimento, e con l'autorità governativa che ha la vigilanza sull'impresa stessa.

La questione, sollevata dal tribunale di Bologna con ordinanza del 23 marzo 1971, é fondata.

La norma dell'art. 195, comma secondo, dispone che, prima di provvedere, il tribunale deve sentire l'autorità governativa che ha la vigilanza sull'impresa. Ma non prevede per lo stesso tribunale l'obbligo di disporre la comparizione in camera di consiglio dell'imprenditore perché questo possa esercitare il diritto di difesa. L'imprenditore, quindi, non é posto in grado, nella fase anteriore alla dichiarazione del tribunale, di affermare e dimostrare le proprie ragioni e di avanzare le proprie richieste, eventualmente con assistenza tecnica, in confronto dei creditori istanti e dell'autorità governativa di vigilanza, e a tale carenza, sul terreno delle garanzie della difesa, non si supplisce con il riconoscimento del diritto alla opposizione, operato con il quarto comma dello stesso art. 195.

La norma denunciata é perciò illegittima costituzionalmente nella parte in cui non prevede l'obbligo per il tribunale di disporre la comparizione in camera di consiglio dell'imprenditore per l'esercizio del diritto di difesa, prima che il tribunale stesso si pronunci sulla richiesta di dichiarazione dello stato di insolvenza dell'impresa soggetta a liquidazione coatta amministrativa, con esclusione del fallimento.

6. - Non é invece fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 19 e 21 del codice di procedura penale, in riferimento all'art. 24, comma secondo, della Costituzione.

Secondo il pretore di Mantova si avrebbe una paralisi della difesa nel procedimento penale a carico di un imputato del reato previsto e punito dall'art. 217, comma secondo, della legge fallimentare, come conseguenza della paralisi della funzione primaria del giudice penale che in base ai detti artt. 19 e 21 é vincolato "a tener fermo un presupposto (status di imprenditore) contenuto in una sentenza resa in un procedimento non garantito da adeguato contraddittorio" per non esservi previsto l'intervento obbligatorio del pubblico ministero.

Senonché l'asserita impossibilità e difficoltà per l'imputato di difendersi non sussiste. Proprio tenendosi conto delle norme impugnate, e sul presupposto della loro applicabilità alla specie, non può ammettersi che l'imprenditore commerciale, il quale, dichiarato fallito con sentenza passata in giudicato, sia imputato del reato di bancarotta semplice, subisca una menomazione del proprio diritto di difesa. Infatti, in ordine alle condizioni oggettive e soggettive necessarie e sufficienti per la dichiarazione di fallimento, esso imprenditore ha a propria disposizione i mezzi e i modi più adeguati per dimostrarne l'inesistenza o la non sufficienza, sia nella fase anteriore alla dichiarazione di fallimento sia avverso la relativa sentenza e sino all'eventuale passaggio in giudicato di essa. Con la dichiarazione di parziale illegittimità degli artt. 15 e 147, comma primo, e in base al disposto dell'art. 147, secondo comma (alla luce della citata sentenza n. 141 del 1970), il tribunale é tenuto a convocare in camera di consiglio l'imprenditore commerciale e i soci illimitatamente responsabili perché ogni interessato possa esercitare il proprio diritto di difesa, anche con l'assistenza tecnica, nei limiti consentiti dalla natura e funzione del procedimento. E, d'altra parte, attraverso l'opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, all'imprenditore é assicurata un'ampia difesa.

Non si vede, d'altronde, come ed in che senso l'esercizio del diritto di difesa venga limitato in dipendenza del fatto che nel procedimento civile di fallimento non é obbligatoria la presenza del pubblico ministero, la cui partecipazione ad ogni processo civile, per altro, non é imposta dal vigente sistema costituzionale.

7. - Il pretore di Verona per i primi due commi dell'art. 217 della legge fallimentare ed i pretori di Siracusa, di Napoli e di Mantova solo per il secondo comma dello stesso articolo, avanzano dubbi di legittimità costituzionale, assumendo che sarebbe in contrasto con l'art. 3 della Costituzione la norma risultante dai detti commi, considerata in sé ed in relazione ad istituti quali l'amnistia e la prescrizione, ed allo specifico provvedimento di clemenza di cui al d.P.R. 22 maggio 1970, n. 283.

Con le ordinanze di rimessione si ritiene in primo luogo, premesso che l'oggetto della pretesa punitiva statuale consisterebbe non tanto nel comportamento (mancata od irregolare tenuta dei libri contabili e delle scritture contabili obbligatorie) quanto nell'insolvenza del debitore, che soggetti trovantisi in pari condizioni (e cioé imprenditori commerciali che non abbiano osservato il detto obbligo di comportamento) vengono trattati differentemente in base e a seconda delle proprie vicissitudini economiche.

Si rileva in secondo luogo che, dovendosi intendere il reato in oggetto consumato alla data della sentenza dichiarativa del fallimento, si avrebbe una ingiustificata disparità di trattamento anche in relazione al momento consumativo del reato che dipenderebbe dal gioco delle più varie circostanze o di fattori del tutto casuali o indipendenti dalla volontà dell'agente, ovvero dalla solerzia o celerità degli organi giudiziari preposti alla procedura concorsuale di fallimento.

Codeste ragioni, ad avviso della Corte, non hanno sufficiente fondamento e quindi non possono essere condivise.

Spetta al legislatore di dire se, come e quando un dato fatto costituisca reato. Rientra nell'ambito della sua discrezionalità la valutazione degli interessi meritevoli di tutela, e così pure la diversificazione, nel trattamento giuridico, di situazioni che, pur presentando notevoli elementi in comune, non siano identiche.

A proposito dell'ipotesi criminosa dell'art. 217, comma secondo, e giusta l'interpretazione che ne dà la Corte di cassazione, il legislatore ha ritenuto che il semplice comportamento dell'imprenditore commerciale, consistente nella mancata, irregolare o incompleta tenuta dei libri e delle altre scritture contabili, in violazione dell'obbligo posto dagli artt. 2214 e seguenti del codice civile, non metta in pericolo il bene che con quella ipotesi ha inteso tutelare; ed ha invece ravvisato come attuale, codesta messa in pericolo solo se e all'atto in cui l'imprenditore commerciale venga dichiarato fallito. L'attività dell'imprenditore commerciale, per gli interessi che tocca o su cui incide, é fonte per lo stesso suo autore di responsabilità, collegata al rischio dell'impresa. Ed in relazione ad essa, appare quindi razionale che solo alcuni dei comportamenti che quella attività integrano, siano penalmente riprovati e che lo siano se ed in quanto si presentino con una certa gravità.

Il legislatore avrebbe potuto considerare la dichiarazione di fallimento tra l'altro come semplice condizione di procedibilità o di punibilità, ma ha invece voluto - come é riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di cassazione - richiedere l'emissione della sentenza per l'esistenza stessa del reato. E ciò perché, intervenendo la sentenza dichiarativa del fallimento, la messa in pericolo di lesione del bene protetto si presenta come effettiva ed attuale.

Stante ciò, é fuor di luogo parlare di soggetti che si trovano in pari condizioni e di trattamenti giuridici differenziati.

L'articolo 217, comma secondo, prende in considerazione un'unica o unitaria situazione di fatto (della quale, come si é detto, fa parte integrante ed essenziale la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore commerciale) e per essa opera una unitaria previsione del fatto come reato, e delle sanzioni penali.

E del pari non ha ragione di essere l'assunto che, potendo influire in ordine al momento consumativo del reato fattori del tutto casuali o indipendenti dalla volontà dell'imprenditore commerciale, la ripetuta norma dell'art. 217, comma secondo, dia vita ad una discriminazione nel trattamento giuridico.

Giova al riguardo considerare ancora una volta che la norma pone in essere una sola previsione valida per tutti gli imprenditori commerciali soggetti al fallimento, per cui questi commettono il reato solo quando siano dichiarati falliti. E la eventualità che per imprenditori commerciali che abbiano cessato contemporaneamente la loro attività, la data del commesso reato debba coincidere con quella della dichiarazione di fallimento relativa a ciascuno di essi é del tutto conseguenziale.

Considerati, per ciò, insoddisfacenti gli argomenti addotti in generale a sostegno della pretesa disparità di trattamento, vanno egualmente disattese le ragioni che a detta dei giudici di merito militerebbero a dimostrazione di quella disparità in casi particolari ed in relazione a dati istituti.

Come non ricorre una disparità di trattamento nell'ipotesi sopra ricordata di imprenditori commerciali che, pur cessando l'attività contemporaneamente, commettano il reato di bancarotta semplice in momenti diversi perché dichiarati falliti sotto differenti date, così per quanto in precedenza detto, quella disparità non sussiste neppure nella ipotesi estrema di più soci illimitatamente responsabili che, pur avendo svolto una unica attività di impresa, vengano dichiarati falliti in tempi diversi (secondo le previsioni dei primi due commi dell'art. 147) e quindi commettono il reato de quo nei detti tempi. Dato il carattere personale della responsabilità penale, questa non può non essere ricollegata, per il singolo socio, all'effettivo ed attuale pericolo di lesione del bene protetto e specificamente alla dichiarazione di fallimento che lo riguardi, e d'altra parte, é innegabile l'autonomia dei singoli fallimenti dei vari soci.

Non si ravvisa, infine, alcuna disparità di trattamento mettendo a raffronto le ipotesi fin qui considerate (ed altre analoghe, prospettate anch'esse nelle ordinanze di rimessione) nonché quella di soggetti imputati in forza di altre ipotesi criminose, e per il caso in cui si renda necessario accertare il momento consumativo del reato, in vista dell'applicazione di amnistie e indulti ed in particolare del d.P.R. n. 283 del 1970. Ciò che caratterizza il modo di accertamento del momento consumativo del reato, come si é visto, non pone la previsione criminosa di cui all'art. 217, comma secondo, in contrasto con l'art. 3 della Costituzione; e quindi é logicamente coerente e conseguenziale che possano essere diversi i momenti di consumazione del reato anche quando le attività prefallimentari dell'imprenditore siano state contemporanee o siano finite nello stesso tempo.

Posto ciò, é del tutto giustificato che dell'amnistia o indulto o di un dato provvedimento di clemenza possano giovarsi solo i soggetti per i quali i momenti consumativi dei rispettivi reati intervengano entro il termine di efficacia del singolo provvedimento.

E va infine considerato che la denuncia di incostituzionalità che qui viene esaminata concerne unicamente l'art. 217, commi primo e secondo.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 147 comma primo, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui non prevede che il tribunale debba ordinare la comparizione in camera di consiglio dei soci illimitatamente responsabili nei cui confronti produce effetto la sentenza che dichiara il fallimento della società con soci a responsabilità illimitata, perché detti soci possano esercitare il diritto di difesa;

b) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 162, comma primo, del citato r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui non prevede che il tribunale, prima di pronunciarsi sulla domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo, debba ordinare la comparizione in camera di consiglio del debitore per l'esercizio del diritto di difesa;

c) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 195, comma secondo, del citato r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui non prevede l'obbligo per il tribunale di disporre la comparizione del debitore in camera di consiglio per l'esercizio del diritto di difesa nel corso dell'istruttoria diretta ad accertare lo stato di insolvenza dell'impresa soggetta a liquidazione coatta amministrativa con esclusione del fallimento;

d) dichiara inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 162, comma primo, del citato r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui dichiara non soggetto a reclamo il decreto di inammissibilità della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo, questione sollevata, in riferimento all'art. 24, comma secondo, della Costituzione, dal tribunale di Potenza con l'ordinanza indicata in epigrafe;

e) dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 15, 16 e 18 del citato r.d. 16 marzo 1942, n. 267, sollevata, in riferimento all'art. 24, comma secondo, della Costituzione, dal tribunale di Roma con l'ordinanza indicata in epigrafe;

f) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 162, comma secondo, del citato r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui non prevede l'obbligo del tribunale di disporre la comparizione dell'imprenditore in camera di consiglio per l'esercizio del diritto di difesa prima che si provveda sulla dichiarazione di fallimento, questione sollevata, in riferimento all'art. 24, comma secondo, della Costituzione, dalla Corte d'appello di Milano con l'ordinanza indicata in epigrafe;

g) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 19 e 21 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 24, comma secondo, della Costituzione, dal pretore di Mantova con l'ordinanza indicata in epigrafe;

h) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 217, commi primo e secondo, del citato r.d. 16 marzo 1942, n. 267, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dai pretori di Siracusa, di Verona, di Napoli e di Mantova con le ordinanze indicate in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 giugno 1972.

Giuseppe CHIARELLI – Vincenzo Michele TRIMARCHI

Depositata in cancelleria il 27 giugno 1972.