Sentenza n. 209 del 1971
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SENTENZA N. 209

ANNO 1971

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Giuseppe CHIARELLI, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente   

SENTENZA 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 502, primo comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 30 novembre 1970 dal tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Valentini Virginio ed altro, iscritta al n. 393 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42 del 17 febbraio 1971.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 24 novembre 1971 il Giudice relatore Nicola Reale;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.  

Ritenuto in fatto 

Con ordinanza 30 novembre 1970, emessa nel corso del procedimento penale promosso, col rito direttissimo, a carico di Valentini Virginio e Di Ioia Alfio, il tribunale di Torino ha sollevato, di ufficio, in riferimento agli artt. 3, primo comma e 24, secondo comma, della Costituzione, dubbi sulla legittimità dell'art. 502, primo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui, demandando al pubblico ministero la potestà di procedere col rito direttissimo, non ne circoscrive i criteri di valutazione circa l'esistenza dei requisiti, prescritti dalla norma in oggetto, della flagranza e quasi flagranza del reato e della non necessità di speciali indagini.

Dalla natura ampiamente discrezionale della accennata potestà, si osserva nell'ordinanza, potrebbe derivare, pur nel concorso di pari condizioni obiettive, disparità di trattamento nei confronti di soggetti diversi, a carico dei quali l'azione penale venisse esercitata nei modi ordinari (con richiesta di istruzione formale o con l'adozione di quella sommaria) o con il rito direttissimo.

In violazione, inoltre, del diritto di difesa all'imputato non sarebbe attribuito alcun mezzo per contrastare l'iniziativa del p.m., né al fine di chiedere, nel proprio interesse, l'immediata celebrazione del giudizio a proprio carico, né al fine di contestare la legittimità della presentazione al tribunale per il giudizio, senza istruttoria e soltanto previo sommario interrogatorio.

Davanti a questa Corte é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, in rappresentanza del quale l'Avvocatura generale dello Stato ha dedotto essere la questione non fondata sotto entrambi i profili denunziati.

L'Avvocatura ha osservato che la flagranza e la quasi flagranza costituiscono, quando ricorra l'ulteriore requisito della non necessità di speciali indagini, presupposti agevolmente accertabili, in merito ai quali, ove si verifichi violazione della legge, sussiste comunque il rimedio del sindacato del tribunale. A questo, infatti, ai sensi dell'art. 504, secondo comma, c.p.p., spetta, ove occorra, ordinare nel corso del giudizio, di ufficio o ad istanza dell'imputato, la trasmissione degli atti all'ufficio del p.m., perché proceda nei modi ordinari.

Dal sistema processuale risulterebbe, quindi, assicurato all'imputato il diritto di sottrarsi al giudizio direttissimo, se promosso fuori dei casi indicati. Non sarebbe, invece, disciplinata a favore di lui, la possibilità, che egli stesso richieda il giudizio secondo il procedimento direttissimo. Ma la "mancata previsione di tale diritto dell'imputato", ha precisato l'Avvocatura, non avrebbe rilevanza ai sensi dell'art. 24, secondo comma, della Costituzione, risultando adeguatamente garantita la difesa.  

Considerato in diritto 

1. - Il tribunale di Torino, investito del giudizio col rito direttissimo a carico di due persone arrestate in flagranza di tentato furto aggravato, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione, la questione di legittimità dell'art. 502, primo comma, del codice di procedura penale, osservando che detta norma, senza fissare alcun criterio o punto di riferimento obiettivo, attribuisce al pubblico ministero ampia discrezionalità in merito alla valutazione dei requisiti di legittimazione del giudizio direttissimo, circa la flagranza del reato e la non necessità di speciali indagini. A parità di condizioni di fatto - é detto nell'ordinanza - l'apprezzamento del p.m. costituirebbe l'unico metro di scelta del procedimento: risulterebbero così violati, da un canto, il principio costituzionale di uguaglianza, per la possibilità che si verifichi disparità di trattamento fra diversi imputati e, d'altro canto, il diritto di difesa, per il fatto che nessun potere di contrastare la decisione del p.m. é attribuito all'imputato, cui é precluso sia di richiedere l'adozione del procedimento direttissimo a proprio carico, ove abbia interesse ad un immediato accertamento della verità, sia di reclamare contro la presentazione al giudizio suddetto, nel caso ritenga che il dibattimento, senza preventiva istruttoria, possa risultare a lui pregiudizievole.

2. - Le questioni non sono fondate.

L'art. 502, primo comma, c.p.p., nella parte in cui attribuisce al p.m. la potestà discrezionale di adire il tribunale, nei casi indicati, per il giudizio direttissimo a carico dell'imputato in stato di arresto, non diverge dalle linee fondamentali del sistema positivo. Nella detta norma ha espressione, infatti, il principio che, riconoscendo al p.m. la titolarità dell'azione penale in ordine ai reati di competenza del tribunale, gli conferisce la necessaria legittimazione a promuovere il procedimento penale, nei modi che egli ritenga rispondenti alla legge ed agli interessi della giustizia. E non é dubbio che la scelta circa le modalità di esercizio dell'azione penale rientri nel potere istituzionale dell'organo requirente e ne determini l'ambito di discrezionalità, in necessaria correlazione, peraltro, col dovere di osservare la legge, in riferimento alle condizioni che questa specificamente stabilisca, nonché al principio generale della congruenza dello strumento processuale prescelto, rispetto al fine pratico della persecuzione penale. E all'osservanza della legge da parte del p.m. é preordinato il sindacato del giudice di cui alle osservazioni che seguono.

Va rilevato, inoltre, che la stessa discrezionalità inerente all'esercizio del potere-dovere di richiedere il giudizio direttissimo é preveduta nella recente legge 7 novembre 1969, n. 780, la quale, nell'apportare modificazioni all'art. 389 del codice di procedura penale, concernente i casi in cui si deve procedere con istruzione sommaria, fa salva appunto la possibilità che, ad iniziativa del p.m., si instauri il giudizio predetto.

Alla stregua di tali considerazioni non può ritenersi che sussista la asserita violazione dell'art. 3 della Costituzione, in riferimento all'eventualità che soggetti diversi possano subire, in linea di fatto, diseguale trattamento.

3. - E nemmeno é fondata la questione in riferimento alla garanzia del diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.).

Come é noto, questa Corte, pronunziando con sentenza n. 117 del 1968 la incostituzionalità dell'art. 389, terzo comma, del codice di procedura penale, nel testo anteriore alla riforma introdotta con la sopra ricordata legge 7 novembre 1969, n. 780, ebbe ad affermarne il contrasto con l'art. 25, primo comma, Cost., nella parte in cui lasciava lo stesso p.m. arbitro della scelta del rito istruttorio, a seguito di ritenuta evidenza della prova, con la conseguenza che ne potesse derivare compressione delle competenze del giudice istruttore. Analoga decisione (sent. n. 40 del 1971) fu adottata altresì nell'ipotesi prevista dal secondo comma dello stesso art. 389, nella parte in cui rimetteva all'apprezzamento insindacabile del procuratore della Repubblica la necessità di ulteriori atti istruttori nel caso di confessione dell'imputato.

Infine, con altra sentenza n. 123 del 1971, riguardante la disciplina dell'istruttoria suppletiva (art. 370 c.p.p.), é stato riaffermato che le iniziative del p.m. devono ritenersi, nel sistema processuale penale, normalmente soggette al controllo del giudice competente in ordine ai fatti contestati.

Da tali principi non si discosta la disciplina del giudizio direttissimo, per il fatto che all'organo requirente, come sopra accennato, sono affidate funzioni connesse alla titolarità dell'azione penale.

L'esercizio del potere di iniziativa ai fini della instaurazione del rapporto processuale secondo il rito direttissimo non é, per vero, sottratto alla cognizione del giudice, al quale risulta in definitiva rimessa, a garanzia dell'interesse dell'imputato al giusto procedimento, la decisione circa la necessità che il procedimento stesso venga svolto col rito ordinario, in sostituzione di quello direttissimo. Ai sensi dell'art. 504, secondo comma, c.p.p., spetta al tribunale verificare la ammissibilità, nella fattispecie, del rito direttissimo, e se il giudizio risulta promosso fuori delle circostanze prevedute dall'art. 502, disporre che gli atti siano trasmessi al p.m., perché promuova il giudizio nelle forme ordinarie.

Dopo la chiusura del dibattimento, inoltre, allo stesso giudice é data potestà di ordinare che si proceda con istruzione formale, quando l'accertamento dei fatti contestati ecceda dai limiti consentiti alle indagini dibattimentali (art. 504, primo comma).

Ne deriva che, nel sistema sopra delineato, l'esercizio del diritto di difesa (nei limiti compatibili con le particolari caratteristiche del procedimento in esame), risulta assicurato. E ciò anche perché non costituisce menomazione dell'esercizio della difesa l'esclusione della fase istruttoria, legittimamente pretermessa nel giudizio direttissimo come in altri procedimenti penali (sentenza n. 119 del 1965).

4. - E nemmeno può ravvisarsi violazione dell'art. 24, secondo comma, sotto il profilo che nella disciplina vigente non é consentito all'imputato chiedere la sua presentazione immediata al tribunale.

Tale disciplina appare, infatti, razionale e coerente col sistema del codice di procedura penale in vigore che appunto al p.m., titolare dell'azione penale, riserva l'iniziativa del procedimento, ai sensi dell'art. 112 della Costituzione, e la scelta, salvi i controlli giurisdizionali, di quelle modalità di esercizio dell'azione medesima che si palesino congrue nei singoli casi.

Al soggetto passivo dell'azione penale non é riconosciuto per contro analogo potere, ma gli sono assicurati i mezzi perché l'accertamento penale sia svolto con l'osservanza della legge e nel rispetto del diritto di difesa.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 502, primo comma, del codice di procedura penale, sollevate, con l'ordinanza del tribunale di Torino di cui in epigrafe, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1971.

Giuseppe CHIARELLI - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 28 dicembre 1971.